Ci sono libri che mettono voglia di discutere. E quello curato da HousingLab, Cohousing. L’arte di vivere insieme (Altreconomia, 2018), appena uscito, è fra questi. Ma subito lo sguardo mi si è allargato a un orizzonte più ampio, oltre alla co-abitazione, su cui ritornerò.
Mettersi insieme per avere più forza nel darsi un aiuto non è un’idea nuova. Le società di mutuo soccorso dei primi del ‘900 avevano proprio questo scopo: coalizzarsi, mettere in comune risorse proprie, in modo da far fronte ai bisogni che ciascuno prima o poi avrebbe potuto avere.
Oggi l’aggregazione della domanda di sostegni è tornata ad essere un tema. Non solo in chiave di autotutela, sotto forma di mutue e di assicurazioni integrative, ma anche dal punto di vista di chi offre servizi: unire la domanda produce economie di scala, riduce la frammentazione, crea massa critica.
Eppure, dietro molta narrazione ottimistica, rimangono ostacoli importanti. Vediamone qualcuno.
Il mutualismo solidale
È l’idea di aggregare la domanda delle famiglie attraverso mutue territoriali con cui sostenere sia i propri associati (intercettati utilizzando grandi bacini associativi o aziendali) sia chi vi contribuisce in modo volontario. Mutue che si possono collegare a fondi sanitari integrativi per offrire servizi sociali e sociosanitari.
Allo stato attuale si tratta di esperienze limitate per numero e nelle dimensioni, anche se molto interessanti, come Unisalute del gruppo Unipol. Rimangono aperte diverse domande in prospettiva, per esempio: come incentivare la mutualità nel lavoro atipico e partite Iva? Quali i vantaggi rispetto a schemi assicurativi tradizionali? Il tutto in un contesto culturale in cui per un trentenne è bassa la propensione ad assicurarsi out of pocket contro i malanni che potrà avere da anziano.
Resistenze culturali riscontrabili anche a un livello molto più micro. E’ il caso per esempio della badante di condominio: figura molto idealizzata ma ancora poco diffusa. In una indagine dell’Università Bocconi su un campione di anziani in Emilia Romagna, solo il 24 per cento si è dichiarato disponibile a condividere una badante con altre famiglie all’interno del proprio condominio o quartiere.
Grandi volumi fanno rima con servizi prestazionali
L’aggregazione della domanda punta a volumi importanti su cui intervenire con prestazioni precodificate, perché se già definita la prestazione la posso misurare, darle un tempo e un costo. Che sia una visita odontoiatrica, un trasporto, un esame diagnostico, un aiuto domiciliare, ciò che viene offerto rientra in un catalogo, in un piano di intervento, in un valore. E’ il welfare del ceto abbiente, che sa di cosa ha bisogno, che si può permettere di pagare le prestazioni che conosce, prevede, sceglie. Out of pocket, a carico del proprio bilancio.
Non è, certo, il welfare di chi è in svantaggio, povero, disinformato, di chi ha bisogno di un aiuto personalizzato, diverso da tutti gli altri, variabile. Aggregare la difformità è complicato e costoso. L’anziano solo, non autosufficiente, ha bisogno di un rapporto uno a uno con la sua badante: dentro questo rapporto non ci sono margini per una sovra-struttura organizzativa, per quanto leggera, che intenda fare impresa sulla non autosufficienza. Lo sanno bene le imprese sociali che ci hanno provato.
Ci si attira per piccoli gruppi
L’esperienza di molti progetti mostra come il welfare collaborativo porta ad avvicinare persone con caratteristiche a volte anche diverse, ma per piccoli gruppi. Nelle esperienze di co-housing ben illustrate nel libro richiamato in apertura, intese come gruppi di famiglie che vivono in situazioni di prossimità, che condividono spazi e aiuti reciproci, i due terzi dei casi censiti contano meno di 20 alloggi.
La prossemica del welfare (italiano) ci porta a sottolineare la distanza breve tra le persone, le diffidenze verso le grandi agenzie di cui non si conoscono i volti e le persone, la vicinanza come valore.
Il progetto #VAI nell’ambito del programma “Welfare in Azione” di Fondazione Cariplo ha mobilitato, a Garbagnate Milanese, micro-progetti di sviluppo di comunità formati da massimo 10 cittadini. Gli esiti, che si trovano qui, ci parlano di una propensione forte ad attivarsi, tra persone diverse ma con qualcosa, un interesse comune. Non foss’altro perché abitanti nello stesso cortile, nella stessa strada. Se la dimensione piccola è quella vincente, allora la strada per arrivare a una estensione è forse quella di moltiplicarla, secondo uno schema di tipo frattale.
Le piattaforme informano, e poi?
Nella sharing economy va da sé che le piattaforme digitali possono essere un mezzo aggregativo potente. Nel sociale, ne abbiamo censite più di venti. Ed è emerso un dato interessante: perché i siti che offrono baby sitter sono più diffusi, e più utilizzati, rispetto a quelli che offrono badanti? La risposta che ci siamo dati è questa: una baby sitter implica una prestazione breve, la si può cambiare facilmente, rappresenta un intervento puntuale e reversibile. Così non è per una badante: un’assistenza che richiede stabilità, emotivamente marcata.
Le relazioni “lunghe” non viaggiano sulle piattaforme digitali, perché hanno bisogno di fiducia. Nei siti della sharing economy questa si alimenta attraverso il sistema dei feed back. Meccanismo ancora del tutto estraneo, e forse inadeguato, alle piattaforme di welfare sociale.
Così i portali “social” hanno ancora una funzione prevalentemente informativa, e con molta fatica riescono, nel cerchio virtuale del loro spazio, a realizzare transazioni, match domanda/offerta. La maggioranza informa e al più facilita accordi che si compiono altrove.
Il “platform cooperativism” radicato territorialmente – non parlo delle grandi multinazionali del digitale – le piattaforme che aggregano soggetti diversi (spesso cooperative sociali) e che offrono servizi sociali e sociosanitari, hanno bisogno di una governance completamente nuova. Chi rimane sul piano della somma dei soggetti coinvolti, tutti regolarmente presentati con indirizzo, telefono ecc., non può aspettarsi altro che una informazione in più: una vetrina in cui ciascuno continua a rivendicare la sua fetta della torta. Il salto di qualità avviene se ci si riesce a fondere in una entità nuova, capace di parlare con una sola voce, un solo canale. E’ anche qui che si gioca la sfida di un welfare più prossimo.
Invio in allegato delle mie Riflessioni sulla fragilità del Welfare e sulla Criticità dell’impianto delle Cooperative Sociali.
Ho deciso di condividere con voi, queste riflessioni, perché, ho trovato, il Vs Sito, interessante e improntato su azioni, innovative e soprattutto di crescita.
La mia critica, ovviamente, non è contro le migliaia di persone che ci lavorano, ma è contro il sistema “Coopertive”, che a mio parere a distanza di 35 sa, ha snaturato l’impronta delle Cooperative Sociali. Oggi, chi lavora per una Cooperativa Sociale a mio parere è sottoposto a sfruttamento legalizzato.
Come cittadino, devo dire che l’organizzazione dei servizi residenziale e territoriali rivolti agli anziani e alle persone non autosufficienti è parecchio “carente” e “obsoleta” per non parlare poi dei Servizi Educativi rivolti ai minori.
Mi piacerebbe quindi, conoscere delle persone “geniali”… disposte a costruire un nuovo impianto, insomma, vorrei conoscere un nuovo “Steve Jobs”, capace di rivoluzionare il “ Welfare”. Se c’è qualcuno, interessato a costruire qualcosa, mi piacerebbe conoscerlo.
Evidenzio che l’80% dei Fondi Europei per il sociale, non vengono spesi. Quindi non è una questione di soldi.
Continuo a sentir dire che per far ricrescere l’Economia di uno “Stato” bisogna produrre.. produrre .. beni materiali.. Mi chiedo, come mai, non si riesce a capire che “producendo benessere” le Persone, la Società troverebbe giovamento e si arricchirebbe.
L’Italia ha bisogno di nuove strategie di lavoro, nel Sociale a mio parere ci sarebbero tante opportunità.
Perché, per tutto ciò che riguarda la cura della persona siamo assenti.
Ormai abbiamo perso la Bussola.. chi ci salvera!!!!!!