Meno poveri o più ricchi?


Sergio Pasquinelli | 6 Ottobre 2020

Il 30 settembre è scaduto il Reddito di cittadinanza per 410.000 famiglie, le prime che avevano fatto domanda della misura 18 mesi fa. Dovranno stare un mese senza per poi eventualmente richiederlo, se persistono le condizioni. E a meno di due anni dall’introduzione del Rdc, già si parla di revisione. Una sua introduzione meno affrettata forse ce l’avrebbe risparmiata: fatti di cronaca e inchieste condotte in questi mesi hanno messo in evidenza cose in verità già ben conosciute, fin dai tempi della sperimentazione del Reddito minimo di inserimento. Il rischio di dichiarazioni mendaci, la farraginosità dei controlli, la difficoltà a stabilire un patto con i beneficiari, soprattutto nei casi di non immediata occupabilità, la presenza di una “trappola della povertà” che disincentiva le persone a rendersi autonome: tutto già scritto nel 20021 e che l’Alleanza contro la povertà ha da tempo sottolineato.

 

Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio dell’INPS, nel 2020 hanno percepito il Reddito di cittadinanza 1,2 milioni di nuclei familiari, per un totale di 3,1 milioni di persone e con un assegno medio mensile di 570 euro. La parte più critica della misura riguarda l’attivazione dei beneficiari, in particolare nel mercato del lavoro, e l’emergenza Covid certo non ha aiutato. Le offerte di lavoro sono state solo 220.000 e 196.000 persone hanno trovato un impiego. Ma anche fuori dal contesto occupazionale, su cui la misura è stata sovraccaricata di aspettative, incontriamo limiti. I Progetti di utilità collettiva (Puc) promossi dai Comuni, a cui sono tenuti a partecipare tutti i beneficiari, sono partiti solo da pochi mesi e ai primi di ottobre se ne contavano 1830, per meno di trentamila persone.

 

Quello dell’attivazione è un punto centrale, crocevia tra i sostenitori della misura e chi la critica come un dispositivo assistenziale. Tra chi sostiene gli argomenti di un “futuro più giusto” e meno diseguale, per riprendere il titolo dell’ultimo libro di Fabrizio Barca e Patrizia Luongo (dove si avanzano proposte per ridurre le diseguaglianze nel passaggio generazionale come quella, forse un po’ semplificata, di una dote di 15.000 euro per tutti i neo-maggiorenni). E chi considera prioritario intervenire su una mobilità sociale bloccata, in particolare su un mercato del lavoro che va reso più meritocratico, dinamico, più aperto e meno sommerso.

Nel suo primo “Rapporto annuale sulla mobilità sociale”, il World Economic Forum ha messo a punto il Global Social Mobility Index secondo cui nell’Unione Europea  l’Italia è tra i paesi con minore mobilità sociale. Per far ripartire l’ascensore sociale occorrono diverse cose, in primis una migliore qualità dell’istruzione e della formazione continua: in un Paese, ricordiamolo, i cui studenti sono sotto la media Ocse per capacità di lettura, in matematica e in scienze, e con un crescente analfabetismo di ritorno.

 

Numero di occupati nei servizi sociali: Italia agli ultimi posti

Emilio Reyneri propone su Lavoce.info un’interessante analisi comparata a livello internazionale del numero degli occupati nel welfare. Ne esce una fotografia impietosa. L’Italia è al penultimo posto in Europa: se guardiamo insieme a istruzione, sanità, servizi sociali e pubblica amministrazione, per adeguarsi alla media europea servirebbero 2 milioni di lavoratori in più.

Nel campo specifico dei servizi sociali, i dati Eurostat più recenti rivelano che in Italia abbiamo 5 occupati ogni mille abitanti, contro una media europea di 19. Per esempio Francia, Germania e Regno Unito non scendono sotto i 29: sei volte l’Italia.

Come sostiene Reyneri “la diffusione degli addetti ai servizi sociali segna nettamente la divisione tra quattro gruppi di paesi: quelli dell’Europa settentrionale, ove è molto alta, quelli dell’Europa centrale, ove è più che discreta, quelli dell’Europa orientale, ove è parecchio bassa, e quelli dell’Europa meridionale ove è altrettanto bassa, ma è elevato il ricorso a personale assunto dalle famiglie, che in buona parte è destinato all’assistenza delle persone fragili (in Italia nel 2019 sono ben 12 lavoratrici per mille abitanti). La tendenza è ovunque all’aumento, anche in Italia, tranne che in tre paesi, ove il livello era già elevato”.

RSA: che cosa cambiare?

Sulle Rsa non possiamo spegnere i riflettori: eppure, se ne parla sempre meno, come se l’emergenza fosse passata, come se il problema quasi non fosse mai esistito. O come se le Rsa non dovessero più esistere, dopo la tragedia che si è consumata al loro interno.

Redattore Sociale” ha fatto il punto sul futuro delle residenze con Melania Cappuccio, direttore sanitario della Fondazione Cardinal Gusmini di Vertova, in provincia di Bergamo, e con Marco Trabucchi, presidente dell’associazione italiana di Psicogeriatria.

Guardando al futuro di queste strutture, emerge una priorità su cui convergono tanto Melania Cappuccio quanto Marco Trabucchi: dare qualità ma anche sostenibilità economica alle strutture per anziani, che oggi vivono un momento di crisi e rischiano di non essere in grado, in futuro, di gestire una nuova emergenza, in mancanza di investimenti e risorse. Secondo Melania Cappuccio “il futuro delle Rsa deve passare attraverso un investimento economico strutturale per salvaguardare la salute di ospiti e personale. A partire dallo standard di quest’ultimo, che finora è stato generalmente molto basso. Ci troviamo di fronte a una continua emorragia di personale dalle Rsa verso gli ospedali e le cliniche private: ora, non incentivare il personale sanitario a lavorare nelle Rsa significa togliere la cura a questi malati. Gli occupati qui devono essere presenti con uno standard numerico adeguato, ma devono anche essere competenti e formati”. Dal punto di vista pratico, “è necessario un contratto collettivo nazionale unico per le professioni sanitarie, a cui tutti facciano riferimento – ha affermato Cappuccio –. In tal modo, queste strutture potrebbero essere competitive e assicurarsi il personale necessario per affrontare future emergenze. Viceversa, senza sostegno economico c’è il rischio realistico che queste strutture arrivino al fallimento. A Bergamo numerose Rsa hanno messo in Cassa integrazione il personale che tanto si era adoperato nella fase più acuta”.

La stessa richiesta è stata avanzata da Trabucchi: “Oggi il settore delle case di riposo e delle Rsa è una giungla delle retribuzioni – ha detto – Dovrebbe esserci un contratto unico nazionale, che metta le Rsa sullo stesso piano degli altri servizi sanitari. Durante la crisi molti infermieri si sono trasferiti negli ospedali, tanto che la gran parte delle Rsa oggi non sono in grado di reggere una situazione difficile”.

  1. Si veda lo speciale di Prospettive Sociali e Sanitarie, n. 13-15 di quell’anno.