Perché il welfare dovrà sempre più occuparsi delle solitudini


Sergio Pasquinelli | 20 Gennaio 2025

Quest’anno gli italiani che vivono soli raggiungeranno i 9,5 milioni, che saliranno di un milione e mezzo tra vent’anni. Le coppie senza figli, oggi 5,3 milioni, supereranno i sei, mentre gli anziani ultra 75enni che vivono soli, oggi in quattro casi su dieci, saranno la maggioranza. Abitare da soli non significa necessariamente sentirsi soli, ma di certo non aiuta.

In un mondo che celebra le relazioni e la socialità, parlare di solitudine è diventato scomodo, una sorta di tabù. Ma delle persone sole il welfare dovrà occuparsi sempre di più, non solo perché saranno di più, ma per la rilevanza e la consistenza dei problemi che portano con sé. A partire dal problema dei problemi, quello della casa.

In grave deprivazione abitativa vivono il 6% degli italiani, ma i problemi non si limitano a loro. L’abitazione ha raggiunto valori stellari in molte città, dove divora ben più di quel 30% di entrate sotto la cui soglia si dovrebbe stare per vivere in agio. Il Fondo nazionale Garanzia Prima Casa, confermato anche per quest’anno, ha aiutato l’acquisto a molte giovani coppie, ma l’annunciato “Piano Casa Italia” rischia di non cogliere il punto. Perché con una popolazione che si riduce e invecchia, il problema degli alloggi è più qualitativo che quantitativo, riguarda la loro adeguatezza, il loro utilizzo e riutilizzo, non solo il loro numero1: l’Italia è prima in Europa per numero di case su numero di famiglie. Ne parliamo nell’ultimo speciale di “Prospettive Sociali e Sanitarie” (nn. 3-4/2024).

Quello della casa è un tema dalle molte facce. Così l’abitazione può isolare ma, nell’epoca degli affitti brevi e in un mercato trasformato, è diventata anche risorsa per una moltitudine di piccoli proprietari. Una stanza libera può rappresentare una preziosa fonte di reddito, per la popolazione house rich (si fa per dire) e income poor. I patrimoni sovente ereditati compensano lavori precari, bassi salari, orari ridotti, part time involontari, nel regno della sottoccupazione2. E così proprietari e locatari, una volta abbastanza ben definiti e differenziati per estrazione sociale, oggi rappresentano posizioni sociali molto meno nette, spesso sovrapposte, talvolta ribaltate.

Ai movimenti solitari di chi offre e di chi cerca un alloggio si accompagna la crescente solitudine di chi nella propria abitazione si trova caricato degli oneri di cura di una persona fragile. La verticalizzazione delle famiglie riguarda la riduzione del numero dei suoi componenti, il suo assottigliamento, e spinge verso la povertà delle cure, data dalla crescita di persone che non potranno contare su un aiuto parentale.

I “prestatori di cura familiare”, i cosiddetti caregiver (ma gli inglesi parlano di “carer”), attraversano cambiamenti continui, nelle dimensioni e nelle caratteristiche. Un esercito silente che interessa 7 milioni di italiani, secondo l’indagine europea sulla salute (EHIS), il cui silenzio chiede di essere ascoltato. Nella ricerca sul più esteso campione di caregiver lombardi (quasi duemila) impegnati ad assistere anziani non autosufficienti, abbiamo registrato il profilo prevalente: donne, con un’età media matura (60 anni), il cui impegno si protrae, in sei casi su dieci, da più di tre anni, in uno su quattro da più di cinque.

Quanto il carico di cura viene gestito in solitudine o è condiviso tra più familiari? Abbiamo messo a confronto le risposte con ricerche analoghe svolte in periodi diversi. Come mostra la figura riportata, negli anni i caregiver risultano sempre più soli: l’aiuto prestato anche da altri familiari o conoscenti è calato dall’88% al 65% dei casi. La rete di aiuti si restringe via via, l’impegno di cura, quando c’è, diventa più solitario. E la solitudine è poco intercettabile, si nasconde, e quando subentra la non autosufficienza facilmente si ripiega su di sé.

Caregiver di anziani non autosufficienti che condividono con altri il carico di cura, in Lombardia

Fonte: Osservatorio OveR, Acli Lombardia e Irs

Caregiver più soli nel loro impegno di cura risultano – nella maggioranza dei casi – poveri di riferimenti e distanti dal mondo dei servizi pubblici, sociali e sociosanitari. Tuttavia, generazioni più giovani, quando investite da oneri di cura, sembrano mostrare comportamenti meno chiusi dentro schemi familistici, più inclini a nuove geometrie dell’aiuto. Nei prossimi mesi avremo modo di verificare queste tendenze, almeno nel contesto lombardo, attraverso l’Osservatorio OverR, su un campione ancora più vasto di famiglie. Proprio per capire se siamo in presenza di una nuova inclinazione, che può tradursi in comportamenti nuovi, più consapevoli e meno rassegnati rispetto al passato.

In termini di policies, mentre la maggior parte delle Regioni sono intervenute sul tema (in verità in modo mediamente blando), il livello nazionale latita. Il tavolo tecnico interministeriale sui caregiver istituito nell’ottobre 2023 (qui) doveva formulare, entro sei mesi, proposte per un disegno di legge. Con un comunicato leggermente bizantino, un mese fa si è resa nota “la presentazione in Consiglio dei ministri di una informativa sull’inizio della valutazione del disegno di legge di iniziativa governativa”. Il cui testo, comunque, non è stato reso pubblico.

Una questione cruciale e controversa, da considerare e da sciogliere, è relativa all’intensità dell’aiuto prestato, diverso tra chi convive e chi non convive con la persona fragile. Vedremo come il disegno di legge riuscirà a conciliare in un unico progetto il sostegno a queste diverse condizioni.

  1. In Lombardia la metà degli anziani sopra gli 80 anni considera grande o troppo grande la casa in cui vive, secondo la ricerca “Più fragili dopo la tempesta?” promossa dai sindacati pensionati lombardi, scaricabile qui.
  2. R. Brancati, C. Carboni (a cura di), Verso la piena sottoccupazione, Roma, Donzelli, 2024.