Abbiamo fame di futuro. Attraversiamo questo lento guado sforzandoci di scorgere cosa ci aspetta oltre la linea dell’orizzonte. Che cosa vogliamo ci sia? Nel welfare sociale il pensiero mainstream auspica discontinuità, che riporti al centro le comunità locali, la prossimità delle relazioni e degli aiuti, che riscatti un territorio troppo spesso espropriato.
Ed è tutto un rivalutare interventi community based, uno sviluppo economico e sociale a trazione territoriale. Non è chiaro in che misura questa direzione ci porterà avanti – in una fase in cui a trionfare è un’economia digitale che travalica il locale e con scarsa appartenenza di luogo – o se viceversa ci riporterà verso la nicchia novecentesca del “piccolo è bello”. Temi ampi che meritano un approfondimento che va oltre queste brevi note.
Spazi da ricostruire
Prevediamo, auspichiamo, scriviamo decaloghi sul welfare che verrà a partire dal nostro punto di vista, quello di chi osserva. Vorrei provare a partire da un’altra angolatura: quella della domanda di sostegni e di aiuti che si sta configurando. Mi concentro su due aree: ciascuna presenta l’alternativa tra risposte difensive e assistenziali e altre più aperte, emancipative, promozionali.
- Nuove diseguaglianze. In queste settimane si sta creando un esercito di espulsi dal mercato del lavoro. A livello mondiale, la conta quotidiana dei lavori persi è nei siti di layoff track. Da noi il tasso di disoccupazione si prevede in aumento quest’anno dal 10 fino al 17-18%, in un mercato del lavoro che vede lavoratori garantiti (per esempio, i dipendenti pubblici), un po’ meno garantiti (i dipendenti privati e del terzo settore) e non garantiti (i lavoratori atipici, le partite Iva, i collaboratori, gli intermittenti, i lavoratori in nero).
Il decreto Rilancio contiene misure prevalentemente risarcitorie (come le ha definite Sabino Cassese) che aiutano a stare a galla, ma non a ripartire al di là dell’emergenza. In questa seconda logica servono politiche che vadano ben al di là di un periodo di pochi mesi, misure non assistenziali che aiutino a rimettersi in piedi: in termini di incentivi verso uno sviluppo industriale e tecnologico, impulsi a settori produttivi chiave, nuove aree d’impresa, nuovi profili professionali pensando allo sforzo che ci attende, enorme e necessario, della relocation dei lavoratori espulsi dal mercato del lavoro. Per questo serve una nuova e forte saldatura tra politiche sociali, economiche e del lavoro, binari rimasti paralleli fino ad oggi, attraverso spazi e con strumenti che rimangono tutti da costruire.
Uno sforzo che chiama a raccolta molti e diversi attori, e che merita un piano di respiro vasto, di quelli a cui Raffaele Mattioli1 avrebbe pensato, e aiutato a finanziare, nel secolo scorso.
- Anziani. La tragedia delle RSA ha messo in chiaro i limiti dolorosi di un certo modo di prendersi cura delle fragilità, nelle grandi istituzioni totali finite per essere grandi focolai di contagio. La demografia e il calo lento ma inesorabile dei caregiver familiari terranno alta la domanda di aiuti nei confronti del welfare pubblico. Serve allora un nuovo modo di prendersi cura degli anziani, in due direzioni. Anzitutto potenziando le cure domiciliari: ed è positivo che il decreto Rilancio preveda un rafforzamento dell’ADI per i soggetti fragili con ben 734 milioni di euro e l’introduzione dell’infermiere di comunità, nella misura di 8 ogni 50.000 abitanti (9.600 in totale) con uno stanziamento di 332 milioni di euro.
In secondo luogo, occorre puntare su comunità residenziali più piccole e aperte al territorio, per quegli anziani solo parzialmente non autosufficienti. Le forme abitative “leggere” attirano poco i grandi gruppi privati profit, appoggiati su modelli tradizionali più remunerativi. Disegnano invece uno spazio interessante per l’economia civile e il terzo settore, che possono giocarsi qui immaginazione e innovazione organizzativa, coniugando (e rivalutando) le dimensioni della solidarietà con quelle del mutualismo.
Tra competizione e collaborazione
Le aree appena richiamate, insieme ad altre, configurano praterie di potenziale innovazione, per molti attori: le istituzioni, il privato socialmente responsabile, il terzo settore. Un terzo settore che deve uscire dall’attuale condizione di sofferenza, di pressione, con servizi chiusi, come tutta l’educativa scolastica e i centri diurni, e altri che procedono con molte complessità, come tutta l’assistenza domiciliare, costretta a dotarsi a proprie spese dei dispositivi di protezione ed esporre gli operatori a rischi senza precedenti: si veda qui per una cronaca dal campo.
Dario Colombo, della cooperativa Il Melograno dell’hinterland milanese: “tre quarti dei nostri servizi sono fermi o sono stati sospesi, diluiti, rimodulati. Sono tutti processi faticosi perché vanno definiti di volta in volta e dipendono dalla disponibilità variabile del singolo interlocutore istituzionale. In diversi casi, a fronte di servizi chiusi, salta il corrispettivo economico e così rischiamo di lasciare a casa operatori. Sarebbe interessante prevedere forme di recupero di queste risorse non spese, più dilazionate nel tempo e secondo modalità concordate. Ma non succede quasi mai e non è chiaro che fine fa quanto stanziato ma non utilizzato”. Per il terzo settore l’ammortizzatore sociale principe è dato dal Fondo di integrazione salariale (FIS), che tuttavia, rispetto alla Cassa integrazione, presenta tetti salariali più bassi e meccanismi di accesso più complessi.
L’emergenza ha rivelato, ovunque, l’utilità di alleanze tra terzo settore e istituzioni: da qui è iniziato un infittirsi di critiche alla logica di un mercato concorrenziale nel campo dei servizi alla persona. E mai come in queste settimane sulla coprogettazione si è prodotta una narrazione che ne esalta i pregi: la strada su cui più investire guardando al futuro post virus, su cui Welforum ha attivato da un anno una comunità di pratiche. Eppure un “mercato” dei servizi alla persona negli anni è venuto a formarsi, esiste e non si può cancellare per decreto: è presente una sana biodiversità di attori che a volte collaborano, altre volte si dividono gli spazi, altre volte ancora competono. Il welfare collaborativo può essere una strada interessante con cui costruire il welfare di domani: riconosciamone i pregi, i meccanismi virtuosi che derivano da un comune senso di appartenenza e di fiducia, da un ingaggio non escludente. Al tempo stesso, riconosciamone le possibili vulnerabilità, legate a una scarsa trasparenza delle relazioni e dei ruoli, una debole governance, una partecipazione poco efficiente.
Regolarizzazione di colf e badanti: obiettivo 200.000
“Sanatoria” è una parola tabù, e comunque questo è un provvedimento positivo: in tempi eccezionali servono misure eccezionali. Nel caso del lavoro domestico aiuterà a rimarginare i molti casi di chiusura dei rapporti di lavoro avvenuti nelle scorse settimane. Ci si può chiedere quanta parte di emersione dalla irregolarità di stranieri senza permesso di soggiorno effettivamente farà emergere. Il lavoro irregolare nel lavoro domestico (cioè sia chi è regolarmente presente ma lavora senza contratto, sia chi è irregolarmente presente in Italia) si aggira intorno al milione di persone (mentre coloro che lavoravano con un contratto a fine 2019 erano 850.000). Di questo milione, possiamo ragionevolmente stimare che almeno un quinto, ossia 200.000, siano privi di un valido permesso di soggiorno.
Vedremo, finita la finestra per la presentazione delle domande (15 luglio), quanti effettivamente avranno aderito a questa sanatoria. In cui è il lavoratore che si deve attivare: il caso che si attivi il datore di lavoro è meno realistico, per via dei contributi forfettari di oltre 500 euro che è tenuto a versare. E comunque, al momento deve ancora essere emanato il decreto attuativo con tutti i dettagli. Appuntamento a fine luglio.