La corsa del privato ad occupare i nuovi spazi che il PNRR aprirà è già iniziata. E procede con una velocità di cui solo il privato for profit è capace. Casi e dinamiche si registrano in alcune regioni, come in Lombardia, e in molti territori di queste, e riguardano in particolare le Case della Comunità, con tutti i servizi connessi. Queste nuove realtà che sulla carta dovrebbero avere un forte radicamento territoriale, con i Comuni, i Consultori, le Scuole, i Centri psicosociali, le Neuropsichiatrie infantili e così via, sono oggetto di interesse da parte di grandi gruppi privati operanti nella sanità, attivi ora nel reclutamento di medici, generici e specialisti, da inserire negli organici di queste strutture, sia nella versione “Hub” (più complessa e articolata in termini di servizi offerti), sia nella versione “Spoke” (a minore complessità).
L’apertura di spazi a questi attori rischia di cancellare quanto un anno e mezzo di pandemia ha costruito in termini di reti di relazioni dal basso: tra soggetti pubblici e del terzo settore in particolare, ma anche quanto, già prima della pandemia, esisteva nella logica di un welfare collaborativo tra attori delle cure primarie, della cooperazione sociale, dell’associazionismo, della scuola.
Se il rapporto col privato diventa delega e non coprogettazione, partenariato, e come tale viene avallato da Regioni e Asl, rimangono aperti tutti i rischi che il privato stesso porta con sé in un settore come la sanità: selezione dell’utenza, dinamica orientata al profitto e all’out of pocket dei cittadini (leggi: lunghe liste d’attesa per le prestazioni offerte dal SSN, che si riducono drasticamente se l’utenza diventa “solvente”). E poi: centratura sugli interventi sanitari più profittevoli, assieme a un “sociale” cancellato o relegato ai bordi del sistema. Il meccanismo degli accreditamenti degli enti gestori privati, se si accompagna a una debole regia pubblica, rende questi rischi molto concreti1.
Queste dinamiche andranno attentamente considerate, monitorate, valutate. Pena il rischio che una grande opportunità di inclusione si trasformi in una grande operazione di esclusione da una rete di prossimità territoriale oggi più che mai necessaria.
Ancora sull’assegno unico
L’e-book curato da Alessandro Rosina “L’assegno unico e universale per i figli: una novità italiana e il contesto europeo” scaricabile qui fa il punto su questa misura con abbondanza di informazioni, anche in chiave internazionale.
Emerge che un figlio costa in media, in Italia (ma con differenza geografiche importanti) una cifra pari a 717 euro al mese. E gli importi degli assegni coprono una parte molto limitata di questa cifra. Come viene ricordato nell’introduzione: “La misura-ponte entrata in vigore il primo luglio risulta fortemente progressiva (il massimo è 167,5 euro per bambini minori in famiglie con Isee inferiore o uguale a 7 mila, ma si scende a 83,8 euro mensili per famiglie con Isee di 15 mila e a 30 euro per Isee di 40 mila, per poi annullarsi oltre 50 mila). L’aumento della povertà in seguito alla pandemia ha fatto aumentare l’attenzione verso le famiglie più in difficoltà. Se questo strumento viene orientato prevalentemente su tale versante rischia, però, di lasciare debole l’azione a sostegno della natalità (che ha bisogno di un insieme integrato di misure percepite come rilevanti anche dal ceto medio).”
Abbiamo allora bisogno forse di qualche correttivo, ma anche di guardare la big picture, il quadro più vasto in cui esso si colloca, come richiama Chiara Saraceno: “i trasferimenti monetari legati alla presenza di figli non si esauriscono negli assegni specifici e nelle detrazioni fiscali per i figli a carico. Altri trasferimenti, sempre monetari, riguardano le indennità legate ai congedi di maternità, paternità e genitoriali, mentre l’offerta di servizi per la prima infanzia, la scuola, la sanità, gratuiti, o a prezzi calmierati, costituisce una forma di trasferimenti in kind il cui insieme definisce il grado di sostegno economico che un paese offre a chi ha figli e ai figli stessi nel loro processo di crescita.
Effetto pandemia: in calo la popolazione straniera
È in calo la popolazione straniera, ce lo ha ricordato di recente Redattore Sociale. Nel 2020 l’Italia, in declino demografico da almeno sei anni, perde quasi 200 mila abitanti e i residenti stranieri diminuiscono di 26.422 unità (-0,5%), attestandosi sui 5.013.215. Secondo le anticipazioni del 31° Dossier statistico immigrazione a cura di Idos, che sarà presentato il prossimo il 28 ottobre, “sembrano superati i tempi in cui la popolazione straniera residente compensava i saldi naturali negativi degli italiani”. In 20 anni è “la prima volta” che si registra una situazione così, avvertono gli osservatori: in calo i residenti che dunque non sono più in grado di compensare il saldo demografico, ma anche la forza lavoro.
Diverse voci del bilancio demografico del 2020 che concorrono a determinare la situazione: “iscrizioni all’anagrafe di stranieri arrivati direttamente dall’estero, cancellazioni di stranieri che hanno lasciato l’Italia per l’estero, cancellazioni effettuate d’ufficio per irreperibilità o perdita dei requisiti, acquisizioni di cittadinanza italiana da parte di stranieri, nascite e decessi registrati nell’anno”.
È l’effetto pandemia. A causa delle chiusure dovute alle misure di contenimento della pandemia, il saldo migratorio estero, cioè la differenza tra stranieri iscritti dall’estero e stranieri cancellati per l’estero, pur positiva (+147.622), risulta più bassa di circa 58 mila unità rispetto al 2019. Le iscrizioni dall’estero (177.304) di residenti stranieri calano di un terzo (-33,0%), rispetto al 2019 e di poco meno (-30,6%) rispetto alla media degli ultimi 5 anni, sottolineano gli osservatori, e risultano quasi dimezzati gli stranieri cancellati per l’estero (29.682): il 48,4% in meno del 2019.
L’Italia registra, anche a causa della pandemia, spiegano, un incremento della mortalità che porta a un saldo naturale della popolazione totale negativo per 342.042 unità: la componente italiana perde, tra nati e morti, 392.108 persone, mentre quella straniera, grazie alle nascite, aumenta di 50.066. Gli stranieri, per la loro più giovane età, hanno patito meno gli effetti letali della pandemia ma, nonostante ciò, la loro mortalità è cresciuta in un anno del 25,5% (1.892 decessi in più del 2019) e registra l’incremento maggiore nel Nord-Ovest (+36,0%), più colpito dalla diffusione del virus.
A far diminuire i residenti stranieri sono le 118.949 cancellazioni d’ufficio per “altri motivi” (irreperibilità o scadenza del permesso di soggiorno) e di 133 mila stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana, spiega il rapporto. “Nel caso dei cittadini non comunitari, al blocco delle frontiere si è aggiunto il rallentamento nella gestione delle pratiche amministrative: – si legge – solo con il rilascio del permesso di soggiorno, infatti, è possibile l’iscrizione anagrafica, che oltretutto avviene dopo una presenza in Italia di una certa durata”.
“Da tutti questi elementi scaturisce la diminuzione registrata nel 2020. – registra il dossier di Idos – In 20 anni, solo nel 2015 e nel 2016 si erano registrati lievi cali (rispettivamente -4.203 e -12.409), ma decisamente più bassi e rilevati a posteriori dall’Istat (revisione post censuaria). Invece, il calo del 2020 è il più alto mai avuto e, al netto delle acquisizioni di cittadinanza italiana e delle cancellazioni d’ufficio, è riconducibile alla pandemia (salvo aggiornamenti che l’Istat comunicherà a fine 2021 con i dati definitivi)”.
C’è qualcosa dopo le RSA?
Quasi duecento iscritti ha registrato il Webinar di Welforum del 5 ottobre scorso. Si può rivedere l’intero video qui, mentre i vari interventi, riveduti dagli autori, saranno pubblicati nel prossimo numero di Prospettive Sociali e Sanitarie. Diversi gli elementi di convergenza da parte di chi è intervenuto: l’allarme circa i cambiamenti demografici epocali che attraverseremo nei prossimi decenni, l’esigenza di una riforma di sistema nel welfare a favore della non autosufficienza, il bisogno di una gamma di cure più articolata di quella attuale, a partire dai servizi domiciliari oggi limitati per molte ragioni, per arrivare a una residenzialità leggera, per persone solo parzialmente non autosufficienti. E poi il bisogno di rendere sostenibile una rete di aiuti che vedrà la popolazione non più attiva pesare sempre più su una popolazione in età lavorativa sempre più ridotta.