Gli ETS e le procedure amministrative di affidamento dei servizi
Alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea
Alceste Santuari | 26 Aprile 2022
Il diritto dell’Unione europea permea il diritto nazionale, in specie, per quanto attiene al principio di concorrenza, che costituisce un “obiettivo” specifico dell’azione comunitaria.
L’Unione europea ha perseguito l’obiettivo sopra richiamato attraverso tre strumenti: la libertà di circolazione delle merci, dei lavoratori, dei servizi e dei capitali; la disciplina della concorrenza; la limitazione degli aiuti statali alle imprese. Gli Stati membri non possono creare barriere ovvero cercare di impedire la creazione di un mercato comune limitando la circolazione delle merci e dei fattori produttivi, per esempio, attraverso tariffe doganali, oppure introdurre privilegi a favore delle proprie imprese, ed in particolare per le imprese pubbliche, erogando loro aiuti finanziari che rischiano di creare ostacoli all’ingresso di imprese di altri Paesi membri nei mercati nazionali. Con la disciplina della concorrenza non sono compatibili i monopoli o i diritti di esclusiva, in particolare in settori di interesse economico generale, che ricomprendono i servizi pubblici.
Tuttavia, le regole della concorrenza sono state temperate a seguito dell’approvazione del Trattato di Lisbona, che ha introdotto nell’art. 3.3 del Trattato UE la previsione di “un’economia sociale di mercato”, che mira sì all’affermazione della competizione, ma allo stesso tempo è finalizzata a realizzare un obiettivo di piena occupazione e di progresso e coesione sociale. Da ciò consegue che il principio di concorrenza è chiamato a recedere di fronte alla necessità di assicurare il perseguimento di scopi di interesse generale, che possono essere realizzati sia da enti pubblici ovvero da soggetti privati cui gli ordinamenti nazionali affidano una particolare “mission” pubblica.
Le organizzazioni, specie non lucrative, per esplicito dettato normativo, possono quindi godere di un trattamento “derogatorio” non solo rispetto al diritto antitrust, ma anche rispetto alle norme sulla libera circolazione, sugli aiuti di Stato e sui monopoli a carattere commerciale.
L’organizzazione dei servizi sociali, al pari di quella relativa ai servizi sanitari, è affidata alla competenza dei singoli Stati membri: da tale competenza discende che i singoli sistemi giuridici nazionali, in piena autonomia, selezionano i bisogni essenziali che richiedono protezione, attribuiscono agli stessi natura pubblica, nonché predispongono gli assetti organizzativi idonei al loro soddisfacimento. A questo fine, gli Stati membri possono prevedere istituti giuridici quali l’autorizzazione, l’accreditamento dei soggetti privati o altre procedure diverse da quelle competitive attraverso cui realizzare, in forma concertata e condivisa, progetti ed interventi.
Dalla breve descrizione sopra riportata si evince che i sistemi giuridici nazionali sono chiamati a contemperare due esigenze, che spesso, risultano contrapposte: da un lato, l’esigenza di garantire parità di accesso, libertà di concorrenza e non discriminazione tra operatori economici. Dall’altro, le autorità pubbliche, essendo in tal senso legittimate dal diritto eurunitario, avvertono, in taluni contesti culturali, economici e sociali, l’esigenza sia di circoscrivere la platea dei soggetti giuridici con cui collaborare sia di adottare procedure non basate sulla contendibilità dell’offerta.
È in questo contesto che deve collocarsi l’attività interpretativa della Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale – come è noto – dovendo garantire l’osservanza da parte degli Stati membri del diritto dell’Unione, è chiamata a verificare, tra l’altro, se deroghe e limitazioni al principio di concorrenza introdotte dagli Stati membri possano appunto considerarsi compatibili con il diritto unionale.
Tralasciando in questa sede le pronunce che riguardano il trasporto sanitario di emergenza e urgenza, che per complessità e delicatezza, richiedono un trattamento dedicato, di seguito si intendono richiamare due pronunce che attengono ai servizi sociali nello specifico. L’una risale al 2013, e costituisce una sorta di leading case nella materia e l’altra, istruita nel marzo 2022 dall’opinione dell’avvocato generale. Nel primo caso (sentenza dell’11 luglio 2013, C-57/12, sezione I), la Corte UE è stata adita per valutare se taluni servizi sociali e sociosanitari erogati in Belgio potevano risultare esclusi dall’applicazione della Direttiva 123/2006 sul mercato interno, che ha sancito e confermato il principio di concorrenza per tutti i servizi, esclusi appunto i servizi sociali e i servizi sanitari. La Corte UE ha ribadito:
- l’esclusione dei servizi sociali e sanitari dall’applicazione della Direttiva 123/2006;
- che gli Stati membri rimangono i soli competenti ad organizzare i propri servizi sociali e sanitari.
In questo contesto, la Corte Ue ha confermato che gli enti pubblici possono raccordarsi con gli enti non profit attraverso formule diverse dalle procedure competitive, ricorrendo, segnatamente, all’istituto di accreditamento, inteso quale istituto autorizzatorio/concessorio che stabilisce un munus pubblico in capo alle organizzazioni non profit, che in particolare sono chiamate ad erogare servizi sociosanitari.
L’altro pronunciamento, molto più recente, è dell’Avvocato generale Laila Medina del 3 febbraio 2022, n. C-436/20 e riguarda una domanda di rinvio pregiudiziale presentata da un tribunale spagnolo relativa alla compatibilità con il diritto europeo di una norma che esclude gli enti che perseguono scopi di lucro dalla conclusione di accordi di amministrazione condivisa previsti da una Comunità autonoma spagnola. Si tratta di “materia” molto complessa, considerato che la Corte è chiamata a definire il rapporto tra attività economiche e questioni sociali, nonché tra diritto dell’Unione e diritto nazionale. In apertura delle proprie conclusioni, l’avvocato generale richiama l’avvocato generale Tesauro, il quale, oltre 20 anni fa, sottolineava il fatto che il settore previdenziale non costituisce “un’isola impermeabile all’influenza del diritto [dell’Unione]”1.
L’avvocato generale Medina conferma quanto sostenuto dal prof. Tesauro, ribadendo che “[c]iò era vero allora e lo è, a maggior ragione, oggi. Sebbene gli Stati membri restino autonomi per quanto riguarda l’organizzazione dei loro sistemi di previdenza sociale, tale autonomia non osta all’applicazione delle libertà fondamentali previste dai Trattati, delle quali le norme relative agli appalti pubblici costituiscono parte integrante”. Non si ritiene di poter aderire a questa affermazione, atteso che proprio l’organizzazione dei sistemi di protezione sociale possono involgere l’esigenza di attivare percorsi collaborativi diversi da quelli previsti dalla Direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici.
In questo senso, è opportuno segnalare che l’avvocato generale ha ritenuto che la Direttiva sugli appalti pubblici si applica indipendentemente dal “modo in cui gli Stati membri scelgono gli enti aggiudicatari, bensì dall’oggetto principale degli appalti.” I quali rimangono “a titolo oneroso”, anche se è previsto il solo rimborso delle spese sostenute per fornire il servizio convenuto. L’avvocato generale individua il carattere sinallagmatico di un contratto pubblico nella creazione di obblighi giuridicamente vincolanti per entrambe le parti del contratto, la cui esecuzione deve poter essere esigibile in sede giurisdizionale. Avuto riguardo alla legge spagnola di cui si discute, l’avvocato generale ha sostenuto che “gli accordi di azione concertata creano obblighi in capo agli enti erogatori dei servizi di cui trattasi”. L’avvocato generale ritiene altresì neutrale lo scopo delle organizzazioni nel senso che l’assenza di finalità lucrativa risulta irrilevante ai fini dell’accertamento dell’esistenza dell’onerosità. Parimenti, l’avvocato generale ritiene irrilevante la circostanza che gli utenti possano non pagare il servizio erogato. A ciò si aggiunga che, ancorché l’attività sia svolta senza scopo di lucro, l’avvocato generale – peraltro, in linea con precedenti pronunce della Corte UE sul punto – ha riconosciuto che non sia possibile escludere che l’attività possa essere qualificata come attività economica.
Dopo queste segnalazioni, tuttavia, l’avvocato generale riconosce che, nel caso di specie, esiste “un quid pro quo” poiché, da un lato, gli enti erogano i singoli servizi sociali alle condizioni definite dall’amministrazione pubblica e, dall’altro, tali enti percepiscono una remunerazione in forma di rimborso spese da parte dell’amministrazione pubblica. Una siffatta circostanza, considerando il contesto nazionale italiano, porterebbe a supporre, comunque, una “riserva” legittima a favore degli enti non profit, che operano su “mandato” (cfr. sentenza della Corte UE C-57/12 sopra richiamata) degli enti pubblici a fronte di un mero rimborso delle spese sostenute. In ciò ritenendo la finalizzazione degli accordi al perseguimento di uno scopo di solidarietà. Anche su questo aspetto, tuttavia, l’avvocato generale dissente, sostenendo “che il mero fatto che tali accordi siano fondati sul principio di solidarietà non significa che questi ultimi debbano essere esclusi dalla nozione di appalto pubblico ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, n. 5), della direttiva 2014/24.” Lungo questo reasoning, l’avvocato generale della Corte UE – invero – ritiene che, in una dimensione concorrenziale, “si potrebbe sostenere che gli enti con scopi di lucro possono fornire servizi di qualità elevata a un costo inferiore e, pertanto, sono in grado di perseguire” gli obiettivi sociali perseguiti dagli enti pubblici. Per converso, lo stesso avvocato generale sostiene, tuttavia, che si potrebbe anche sostenere che siano gli enti senza scopo di lucro a possedere una dimensione sociale maggiore rispetto agli enti che perseguono scopi di lucro e che, pertanto, risultino più adatti al perseguimento di tali obiettivi.
Forse è proprio in quest’ultimo passaggio che è possibile rintracciare la “chiave interpretativa” fornita dall’avvocato generale alla questione sottoposta alla decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea. Le autorità pubbliche degli Stati membri possono legittimamente escludere dagli accordi collaborativi gli enti che perseguono scopi di lucro, a condizione che l’esclusione in parola “contribuisc[a] a garantire gli obiettivi di politica sociale e di occupazione perseguiti da [tale disposizione]”2.
In conclusione, l’avvocato generale suggerisce alla Corte, che dovrà adottare la decisione finale in merito alla questione sollevata dal giudice spagnolo, di confermare la compatibilità tra le previsioni di cui alla direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici e una normativa nazionale che consente a un’amministrazione pubblica di aggiudicare, senza attenersi ai requisiti procedurali imposti dal diritto dell’Unione, un appalto pubblico in forza del quale tale amministrazione affida unicamente ad enti senza scopo di lucro l’erogazione di determinati servizi sociali in cambio del rimborso delle spese sostenute da tali enti, purché tale normativa rispetti i principi di parità di trattamento e di proporzionalità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
Se, da un lato, le conclusioni dell’avvocato generale in argomento evidenziano la difficoltà di riportare i servizi sociali e gli organismi non lucrativi nei meccanismi e nelle procedure previste per il resto dei servizi e delle imprese commerciali, dall’altro, riconduce gli accordi di amministrazione condivisa nello schema degli appalti pubblici. Riteniamo che sia proprio questo il punctum dolens dell’interpretazione eurounitaria, in considerazione del fatto che, anche concedendo che si possa trattare di attività economica, che le organizzazioni non profit siano operatori economici ai fini dell’inquadramento eurounitario, che gli accordi di amministrazione condivisa prevedono obblighi per le parti, che il rimborso delle spese possa considerarsi alla stregua di un sinallagma, rimane pur sempre decisiva la motivazione secondo la quale ovvero per la quale (causa) che spinge le pubbliche amministrazioni a valorizzare l’apporto degli enti non profit. Come sostenuto dall’avvocato generale nelle proprie conclusioni (par. 104), la conditio sine qua non per legittimare l’esclusione dei soggetti privati a scopo di lucro risiede nella realizzazione di obiettivi di coesione sociale e occupazione. A ciò dovremmo – considerando la normativa italiana in materia di co-progettazione e di convenzioni – aggiungere che proprio in ragione dello specifico ruolo e delle peculiari funzioni pubbliche assegnate agli enti non profit (così come ribadito nella sentenza C-57/12), l’ordinamento giuridico può legittimare il ricorso a procedure amministrative diverse da quelle previste nella Direttiva 2014/24 sugli appalti pubblici.
Provando ad “applicare” le conclusioni dell’avvocato generale al contesto giuridico italiano, si potrebbero isolare due distinte questioni relativamente alla “specialità” dei principi di amministrazione condivisa, dalle quali discenderebbe la scelta di utilizzare istituti distinti da quelli della concorrenza, che, pertanto, in ottica europea, sembrerebbero trovare una specifica giustificazione: 1) coinvolgono non tutti gli operatori economici, ma soltanto quelli appartenenti al Terzo settore e 2) questi ultimi si rapportano con le amministrazioni pubbliche in forma collaborativa e non competitiva.
In assenza di un “diritto del terzo settore europeo” e di una previsione nei Trattati simile al precetto costituzionale di cui all’art. 118, comma 4, la prima questione è affrontata in modo residuale e “speciale”, nel senso che i servizi sociali e sociosanitari sono sì considerati “diversi”, ma in termini “derogatori”. In modo particolare, la deroga si riferisce alla modalità “classica” di affidare i servizi, che è quella rappresentata dalle logiche di mercato, che – come si evince dalle conclusioni dell’avvocato generale in argomento – possono essere “contraddette” soltanto in presenza del risparmio offerto dall’azione degli enti non profit.
Sulla seconda questione, teoricamente, ci potrebbe essere maggiore apertura, se si pone a mente che anche alcuni istituti giuridici delle direttive europee, trasposti nel Codice degli appalti, implicano forme più dialogiche tra operatori economici ed enti pubblici rispetto alla competizione, ancorché si tratti più di “incursioni” in un quadro giuridico disegnato per altri fini.
In ultima analisi, in attesa della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, possiamo accogliere con un cauto (molto) ottimismo l’apprezzamento dell’amministrazione condivisa, con la consapevolezza che il cammino verso un pieno riconoscimento di questa modalità alternativa alle logiche competitive sia ancora lungo.