Gli immigrati nell’agro-industria italiana: un apporto da riconoscere e tutelare


Maurizio Ambrosini | 24 Luglio 2024

Numeri, provenienze e status legali dei lavoratori agricoli immigrati

La tragica morte di Satnam Singh nei campi di Latina ha risvegliato per un breve periodo l’interesse verso le condizioni di lavoro degli immigrati in agricoltura. Era già accaduto in occasione di eventi simili, e anche questa volta l’impressione è che passata l’emozione del momento la questione sia stata rapidamente rimossa. Troppi gli interessi e le convenienze intrecciate dietro fatti come questo, esito estremo del funzionamento distorto di un pezzo del sistema agro-industriale italiano. Il dato di partenza è che l’eccellenza del cibo italiano, orgoglio nazionale celebrato nel mondo, in realtà dipende sempre più dal lavoro straniero, nella produzione di vino, formaggio, salumi e tanti altri prodotti di successo: un fatto costantemente ignorato dalla pubblicità patinata e dagli eventi ufficiali del made in Italy. Secondo le fonti ufficiali, gli stranieri occupati nel settore agricolo erano quasi 362.000 alla fine del 2022, e prestavano il 31,7% delle giornate di lavoro registrate. Nelle rilevazioni sulle forze di lavoro dell’ISTAT, l’incidenza degli immigrati sul totale degli occupati nel settore era del 18%, contro un valore medio del 10% per l’insieme del mercato del lavoro. Il settore agricolo risulta il secondo per incidenza del lavoro immigrato sul totale dopo i “servizi personali e collettivi”, ove rientrano i servizi domestici e assistenziali, in cui il dato supera il 30%.

Ma i dati ufficiali forniscono una fotografia parziale e sfuocata della situazione effettiva, essendo condizionati dalla mancata registrazione del lavoro sommerso e dalla registrazione fittizia di lavoratori (e lavoratrici) italiani per accedere alle risorse della protezione sociale destinata al settore (indennità di disoccupazione, maternità, benefici pensionistici…). I dati aiutano però a problematizzare qualche rappresentazione stereotipata. Non è vero anzitutto che gli immigrati che lavorano nei campi italiani siano prevalentemente africani sub-sahariani o eventualmente provenienti dall’Asia meridionale, come Satnam Singh. La componente nazionale più numerosa è quella rumena, anche se in calo da quasi 120.000 lavoratori registrati nel 2016 a 78.000 nel 2022. Seguono a distanza indiani, marocchini, albanesi, senegalesi. Ciò significa anche che la legge Bossi-Fini, spesso evocata come fonte di tutte le distorsioni delle politiche migratorie italiane, nello sfruttamento dei lavoratori agricoli c’entra solo parzialmente: i rumeni sono cittadini dell’UE, le altre componenti sono insediate da anni in Italia.

Per la stessa ragione, il ruolo dei rifugiati arrivati negli ultimi anni è magari molto visibile e coinvolto nelle condizioni peggiori di sfruttamento, ma limitato. La cosiddetta “rifugizzazione” del mercato del lavoro immigrato è una sintesi brillante, ma da circoscrivere.

Non trova riscontro nelle conoscenze disponibili neppure la tesi secondo cui lo sfruttamento dipende dalla presenza sul territorio d’immigrati irregolari e richiedenti asilo disponibili a lavorare a qualunque condizione. Se ne fa derivare che bloccando gli ingressi, finirebbe lo sfruttamento. In realtà, finché hanno trovato manodopera disponibile, proveniente da paesi dell’Europa comunitaria o comunque dotata di permessi di soggiorno, molti datori di lavoro hanno preferito reclutare in questi bacini, evitando complicazioni burocratiche e il pur remoto rischio di accuse di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Per lo stesso motivo, gran parte dei lavoratori, anche assunti senza contratto e sfruttati, dispongono di un titolo di soggiorno legale. Secondo le ricerche condotte in diversi territori, Mezzogiorno compreso, nelle campagne di raccolta è diffuso, e forse prevalente, il ricorso al lavoro “grigio”, o “grigio scuro”: qualche giornata registrata regolarmente, per stornare accuse e ispezioni, il resto in nero. La formazione di una popolazione di braccianti che ruota da un sito agricolo a un altro, a seconda dei periodi di maturazione dei prodotti e del fabbisogno di manodopera, tende a formare un sottoproletariato immigrato, con vari tipi di status legale, spesso prigioniero di una marginalità economica e sociale persistente, difficile da rovesciare, ma funzionale alla sopravvivenza di imprese agricole a loro volta marginali: lo sfruttamento della manodopera sostituisce gli investimenti in macchinari, innovazioni colturali, strategie consortili, introduzione di marchi, politiche di commercializzazione. Nella produzione dei pomodori per l’industria, nel Nord Italia la raccolta a mano è praticamente scomparsa da circa trent’anni, mentre al Sud un’importante percentuale dei pomodori, probabilmente intorno al 50%, sono tuttora raccolti a mano.

Le norme anti-caporalato e anti-sfruttamento già esistono, ma attuarle richiede una volontà politica coerente: occorre disporre di un numero adeguato di ispettori del lavoro effettivamente operativi, collaborazione tra le forze dell’ordine e le diverse istituzioni interessate, accordi più equi tra produttori e reti distributive.

I risultati di una ricerca: non solo sfruttamento

Una recente ricerca promossa dal Centro studi Confronti per conto della FAI-CISL ha collocato il fenomeno del grave sfruttamento in un panorama più variegato del lavoro immigrato nel sistema agro-industriale nazionale: Made in Immigritaly, ed. Agrilavoro. La ricerca ha approfondito nove casi locali:

  • L’area di Saluzzo, in Piemonte (provincia di Cuneo), in cui gli immigrati lavorano nella frutticoltura
  • L’ area della bassa pianura bergamasca, ove gli indiani di religione sikh sono inseriti nell’attività zootecnica
  • L’area del Trentino (val di Non), in cui gli immigrati arrivano come stagionali per la raccolta delle mele
  • L’area veneta, tra Bassa padovana e Polesine, per la coltivazione degli asparagi, e la zona vitivinicola della Valpolicella
  • L’area del Modenese, per la lavorazione delle carni
  • L’area romagnola (provincia di Forlì, e più precisamente valle del Bidente), per l’industria avicola
  • L’area del litorale domizio, intorno alla località di Castel Volturno (provincia di Caserta), un luogo-simbolo dello sfruttamento degli immigrati, nonché del loro confinamento in soluzioni abitative degradate
  • L’area della Capitanata (provincia di Foggia), per la raccolta dei pomodori, abbinata l’isolamento con l’aggregazione in insediamenti abitativi informali, i cosiddetti “ghetti”
  • L’area di Vittoria-Ragusa, per le coltivazioni in serra, con modalità d’impiego più continuative e insediamenti ormai stabili, ma con persistenti forme di lavoro nero e “grigio”, isolamento sociale, difficoltà di accesso a scuole e servizi.

Gli studi di casi mostrano che il funzionamento dell’agro-industria italiana, e le modalità di gestione del lavoro immigrato, rivelano in alcuni territori le sacche di arretratezza e di fragilità socio-economica delle produzioni locali (Capitanata, Castel Volturno, in parte Vittoria-Ragusa). In altri invece indicano la capacità competitiva di produzioni e territori che sono stati in grado di affermarsi per la qualità dei prodotti, gli investimenti tecnologici e l’immagine di eccellenza associata ai marchi (Trentino, Modena, Romagna, realtà venete studiate). Queste differenze possono essere interpretate come diverse forme d’integrazione subalterna: in tutti i contesti territoriali studiati gli immigrati sono occupati come operai, addetti a lavori faticosi, nella maggior parte dei casi in forme temporanee, con scarse possibilità di miglioramento. Sono però marcatamente diverse altre dimensioni dei rapporti di lavoro, a partire dalla regolarità dell’assunzione.

Le forme dell’integrazione subalterna

La prima e più estrema forma d’integrazione subalterna consiste nello sfruttamento: il ricorso a un lavoro immigrato non regolamentato, sotto-retribuito, intermediato illegalmente, gestito con modalità autoritarie e talvolta violente, mal alloggiato in sistemazioni precarie e igienicamente deplorevoli.

La frutticoltura trentina rappresenta invece una forma decente d’impiego temporaneo, ampiamente regolare, di lavoratori immigrati: una variante socialmente regolata dell’integrazione subalterna. Qui l’istituzione di consorzi che raggruppano le cooperative dei produttori, l’introduzione di marchi DOP, l’innovazione tecnologica e colturale hanno realizzato filiere che riescono a vendere i loro prodotti a un prezzo remunerativo, mantenendo un potere contrattuale nei confronti della grande distribuzione e proteggendosi dalla competizione al ribasso. Questa seconda versione dell’integrazione subalterna può essere definita come stagionalità regolata.

Una terza forma d’integrazione subalterna riguarda il confinamento in occupazioni relativamente stabili ma socialmente sgradite, disertate dalla manodopera italiana, come il lavoro nelle stalle o nella macellazione. Anche in questo caso la regolarità è generalmente tutelata e i trattamenti salariali rispettano la contrattazione collettiva, malgrado le tendenze alla differenziazione degli statuti e dei diritti mediante il ricorso a cooperative e i subappalti.

Una quarta e ultima espressione dell’integrazione subalterna si riferisce alle forme minoritarie di occupazione qualificata, con sufficienti livelli di continuità, in grado di offrire opportunità di miglioramento e avanzamento professionale. Qui si stanno verificando processi di stabilizzazione, stratificazione e gerarchizzazione di diverse componenti della popolazione immigrata. In alcuni territori, come le colline piemontesi, gli immigrati dell’Europa Orientale hanno compiuto dei passi avanti, diventando operatori specializzati, addetti a operazioni come la potatura, e anche titolari d’imprese che operano nel settore, mentre i nuovi arrivati, soprattutto africani sub-sahariani, si sono inseriti nei livelli più bassi delle filiere.

In conclusione, lo sfruttamento è diffuso, ma non è generalizzato. Soprattutto, non è un destino. Un ruolo attivo delle istituzioni pubbliche, nella repressione delle pratiche illegali d’impiego del lavoro e nella promozione dello sviluppo agricolo, una capacità negoziale delle parti sociali, un tessuto imprenditoriale capace di competere innovando e non comprimendo il costo del lavoro, una capacità contrattuale dei territori, con i loro marchi, nei confronti del sistema distributivo: sistemi produttivi socialmente regolati e accompagnati dalle istituzioni possono competere salvaguardando i diritti e la dignità dei lavoratori, compresi i più deboli.