All’inizio di un nuovo anno, è spontaneo domandarsi che cosa ci attende nel 2018. Essendo le migrazioni un tema sempre caldo del dibattito pubblico, la questione si pone in modo molto avvertito anche per i movimenti di popolazione. Cadendo poi nel prossimo marzo la scadenza delle elezioni legislative, gli interrogativi e le preoccupazioni sul tema assumono inevitabilmente marcate implicazioni politiche.
Cerchiamo allora di fare il punto sulla situazione e di avanzare qualche previsione sulla base dei dati e delle informazioni disponibili. Partiamo dallo scenario globale. I migranti internazionali, secondo le statistiche delle Nazioni Unite, sono oggi 243,7 milioni nel mondo. Aumentano nel tempo in valore assoluto (erano 175 milioni nel 2000), ma crescendo nello stesso tempo la popolazione mondiale, che ha superato i 7 miliardi, il rapporto resta sostanzialmente stabile da parecchi decenni: poco più del 3%. La cifra circolata nelle scorse settimane, di un miliardo di migranti nel mondo, o è sbagliata, oppure comprende anche le migrazioni interne. Queste per esempio in un paese come la Cina sono un fenomeno effettivamente di grandi proporzioni e di difficile gestione politica e sociale. Ma sul piano internazionale il dato di fondo è che il 97% degli esseri umani non si sposta dal paese in cui è nato e cresciuto, per male che ci viva.
In Italia, contrariamente a ciò che comunemente si pensa, il volume della popolazione immigrata è da anni stazionario. Poco sopra i 5 milioni di persone, compresi 1,2 milioni di cittadini rumeni e altri immigrati dall’interno dell’UE. La lunga crisi economica ne è la spiegazione principale. Sono diminuite persino le nascite da genitori stranieri: erano quasi 80.000 nel 2012, sono scese a 69.000 nel 2016, il 14,7% del totale. Gli immigrati patiscono la crisi, hanno rallentato i ricongiungimenti familiari e ridotto o differito i progetti genitoriali. Subiscono i vincoli strutturali, ma tendono anche ad adeguarsi agli stili di vita italiani. Dunque non ci salveranno dal declino demografico, ma neppure sono avviati a sostituire la cosiddetta “razza bianca”.
Nel passato, quando il mercato del lavoro tirava, governi di ogni colore hanno promulgato sette sanatorie in 25 anni, più altri provvedimenti minori o nascosti per mettere in regola gli immigrati non autorizzati. Ricordo le cifre: quattro sanatorie varate tra il 1986 e il 1998, per un totale di 790.000 persone messe in regola; 630.000 concesse nel 2002, a seguito della cosiddetta legge Bossi-Fini, circa 300.000 nel 2009 (decreto Maroni) e circa 120.000 nel 2012 (decreto Monti-Riccardi).
Le sanatorie italiane avevano un preciso legame con l’economia, essendo delle deroghe concesse ai datori di lavoro, imprenditoriali e familiari, autorizzati a formalizzare l’impiego di immigrati che erano già arrivati (perlopiù con visti turistici, se necessari) ed erano stati assunti informalmente da qualcuno che in Italia evidentemente aveva bisogno del loro lavoro. Lo Stato italiano fissa ogni anno delle quote d’ingressi autorizzati per lavoro, stagionale o a tempo indeterminato, ma evidentemente il mercato per almeno 25 anni non si è accontentato e ha stravolto le prudenti previsioni delle quote. Così lo Stato periodicamente, anche per la pressione dei sindacati e degli stessi datori di lavoro, ha riconosciuto il fatto compiuto, consentendo ai datori di lavoro di mettersi in regola e ai lavoratori di emergere alla legalità. Lo Stato ne ha beneficato a sua volta in termini di imposte e contributi previdenziali. Dopo gli ingressi per lavoro sono avvenuti i ricongiungimenti familiari, che hanno rappresentato negli ultimi 15 anni il maggiore motivo di ingresso in Italia. Mentre l’economia ha smesso di attrarre nuovi immigrati, per qualche anno i lavoratori insediati hanno promosso l’arrivo di coniugi e figli.
Con l’avvio e l’inasprimento della crisi economica, sono seguiti anni di stagnazione e di sostanziale azzeramento sia delle quote d’ingresso, sia della domanda di nuovi arrivi di manodopera, con l’eccezione di qualche migliaia di lavoratori stagionali. Va notato che in regioni in cui l’economia esprime fabbisogni di manodopera limitati nel tempo e prevedibili, come il Trentino-Alto Adige, si ricorre all’importazione di lavoratori provenienti da paesi dell’UE, oggi soprattutto rumeni, che non hanno bisogno di particolari autorizzazioni.
Per il 2018 è uscito in gennaio il decreto-flussi, che mantiene sostanzialmente una linea prudenziale: i nuovi ingressi autorizzati riguardano in prevalenza lavoratori stagionali da impiegare nei settori agricolo e turistico-alberghiero (18.000). A questi si aggiungono 500 lavoratori dipendenti che hanno seguito programmi di formazione nei paesi di origine finanziati dal governo italiano, 2.400 lavoratori autonomi, in modo particolare investitori (almeno 500.000 euro e tre posti di lavoro), artisti, creatori di start-up innovative, 100 lavoratori di origine italiana dal Sud-America. In totale, 21.000. Inoltre, quasi 10.000 stranieri in possesso di altri titoli di soggiorno, per esempio per studio o per lavoro stagionale, potranno convertire in permesso per lavoro il loro attuale documento.
Malgrado la ripresa, rimaniamo dunque su previsioni molto contenute. Solo se l’economia produrrà un sostanzioso aumento della domanda di lavori a bassa qualificazione una nuova immigrazione per lavoro si manifesterà in modo significativo. Si può azzardare la previsione che il primo ambito a risentirne positivamente sarà quello domestico: una crescita dell’occupazione delle donne italiane di classe media produrrà una nuova domanda di aiuto per i compiti familiari. Di fatto dunque, come regola generale, l’occupazione degli immigrati è correlata positivamente con quella degli italiani. Non per nulla a livello territoriale gli immigrati si concentrano nei territori in cui c’è più lavoro, reddito e benessere per la popolazione italiana.
Nel 2018 tuttavia tutto lascia presagire che la situazione del mercato del lavoro non tornerà a un livello tale da produrre effetti di attrazione di nuovi arrivi di lavoratori, tenendo conto che tra gli immigrati già insediati i tassi di disoccupazione rimangono alti: 14,1% per i cittadini dell’UE, 16,0% per i cittadini di altri paesi. E’ probabile che il mercato assorba prima buona parte di questi disoccupati, in possesso di documenti regolari e insediati sul territorio da tempo.
Oltre all’economia, anche la politica incide sui numeri dell’immigrazione. Questo avviene anzitutto in una forma a cui si presta poca attenzione: le acquisizioni di cittadinanza. Stanno ormai venendo a maturazione da alcuni anni le condizioni per l’accesso alla cittadinanza italiana da parte di parecchi immigrati arrivati negli anni passati, quando gli ingressi raggiungevano cifre di 400.000 all’anno. Sono diventati italiani 178.000 immigrati nel 2015, 200.000 circa nel 2016. Complessivamente all’incirca un milione di italiani sono arrivati dall’estero o sono figli di immigrati.
Sotto il profilo statistico, questi processi, definiti con il curioso termine di “naturalizzazioni”, hanno l’effetto di diminuire il numero degli “stranieri” residenti. Di fatto in una certa misura lo diminuiscono effettivamente, perché il passaporto italiano serve ad alcuni di loro per trasferirsi liberamente in altri paesi. L’analisi della composizione della popolazione in ogni caso si complica. In futuro dovremo abituarci a distinguere, per quanto possibile, tra “immigrati” e “persone di origine immigrata”: il secondo gruppo può aumentare per dinamiche endogene (nuove nascite), anche se il primo ristagna.
Quando si parla di immigrati, quasi d’istinto negli ultimi anni si guarda al mare, agli sbarchi e alle richieste di asilo. In realtà, anche negli ultimi anni si tratta solo di una frazione della popolazione immigrata che risiede in Italia. A fine 2016, 250.000 tra richiedenti asilo e rifugiati riconosciuti (dati UNHCR, 2017). Oggi forse intorno ai 300.000.
Il rapporto tra sbarchi e domande di asilo non è di sovrapposizione: si può sbarcare e non chiedere asilo, oppure arrivare e chiedere asilo per altre vie. Fino a due anni fa solo una minoranza degli sbarcati chiedeva asilo in Italia. Nel 2014, su 170.000 sbarcati meno di 70.000 avevano richiesto protezione internazionale al nostro governo. Poi l’UE ci ha imposto gli hotspots, i nostri vicini hanno inasprito i controlli alle frontiere, e le domande di asilo sono cresciute, raggiungendo nel 2016 la cifra di 123.482. La quota rispetto agli sbarchi è passata dal 37% del 2014 al 56% del 2015 al 68% nel 2016. Nel 2017 sono sbarcate 119.000 persone, contro 180.000 nel 2016. Da luglio in poi il calo è stato rapidissimo, tanto che si può suddividere l’anno in due periodi: da inizio anno a giugno sono sbarcate sulle nostre coste 83.000 persone, il 18% in più rispetto allo stesso periodo del 2016. Da luglio a dicembre, nonostante mesi estivi tradizionalmente favorevoli alle traversate, i nuovi arrivi sono scesi a 36.000, il 67% in meno rispetto allo stesso periodo del 2016.
Gli accordi con il Niger e soprattutto con governo e tribù libiche, il riarmo della Guardia costiera libica e la decisione di ricondurre in Libia le persone intercettate in mare, senza dimenticare la campagna di discredito nei confronti delle ONG impegnate nei salvataggi, hanno drasticamente ridotto le traversate. La principale ragione delle chiusure è l’idea che si tratti di “migranti economici” e non di “veri rifugiati”. Le domande di asilo accolte come è noto sono sensibilmente inferiori rispetto alle richieste, ma non così tanto come spesso si sostiene: a fine 2017, il 39% dei richiedenti hanno ottenuto qualche forma di protezione. Bloccare le rotte dei migranti significa quindi inevitabilmente negare il diritto di asilo a persone che avrebbero titolo per ottenerlo.
Chiusa una strada, chi fugge da situazioni critiche ne cerca un’altra. Va in questo senso la ripresa, sia pure modesta, della rotta verso la Spagna e di quella dalla Tunisia. L’effetto principale delle politiche di contrasto dei transiti terrestri e marittimi è quello di rendere i viaggi più costosi e pericolosi. E’ improbabile però che basti un anno per trovare rotte alternative, allestire le basi logistiche necessarie, acquisire la compiacenza delle autorità in grado di favorire od ostacolare il passaggio, far circolare le informazioni e far ripartire l’industria delle migrazioni a pieno regime. Il principale rischio per la strategia della chiusura italo-europea è che finiscano i soldi investiti per riconvertire gli ex-spietati trafficanti in partner necessari e persino rispettabili. L’ampio consenso di cui godono le nuove politiche di chiusura, anche tra gli elettori e gli opinionisti di centro-sinistra, è un eloquente e triste indicatore della considerazione in cui sono tenuti i diritti umani. Gli esiti probabili delle prossime elezioni politiche produrranno nuovi inasprimenti, anziché una contro-svolta umanitaria.
Se anche il quadro dovesse evolvere nel corso dell’anno, i migranti trovassero nuove rotte, le istituzioni internazionali riuscissero a scardinare gli accordi con i libici, i soldi finissero, è comunque improbabile che nel 2018 gli sbarchi si riportino ai livelli del 2016 e della prima parte del 2017.
Nel complesso quindi il 2018 non fa prevedere un aumento delle migrazioni, ma un contesto di stasi o addirittura di flessione.
complimenti per la lucidità di analisi sempre riconoscibile.
mi aspetto dal prossimo governo una specie di sanatoria che svuoti tutti i centri di accoglienza dei richiedenti asilo e liberi i tribunali della mole dei ricorsi. Mi sbaglio?
mi aspetto un governo che applichi le regole e non faccia sanatorie.
Chi ha diritto all’asilo ok, gli altri progressivi rimpatrii