I corridoi umanitari: un’iniziativa innovativa per l’accoglienza dei rifugiati
Maurizio Ambrosini | 7 Marzo 2019
Molti osservano che la chiusura verso l’accoglienza dei richiedenti asilo deriva dalla percezione di migrazioni disordinate, non autorizzate e tantomeno richieste. Per definizione però la fuga da guerre e persecuzioni non può essere programmata. I richiedenti asilo arriveranno sempre in forme imprevedibili, in gran parte mediante canali non ortodossi, specialmente se i governi dei paesi verso cui vorrebbero dirigersi continueranno a tenere bloccati gli accessi legali.
Parlare di “ingressi non autorizzati dal mare” suona contraddittorio, per non dire ipocrita: a chi, come e dove le persone in fuga da guerre e persecuzioni dovrebbero presentare una domanda di autorizzazione per poter entrare regolarmente? Va anche aggiunto obiettivamente che persone traumatizzate da conflitti e pulizie etniche, torturate, ferite, terrorizzate, non saranno tutte in grado di rendersi autonome e di guadagnarsi da vivere da sole e in poco tempo. Alcune avranno bisogno di anni. Altre ci riusciranno solo in parte, altre ancora non ci riusciranno mai. Anzi, più sono “veri rifugiati”, meno saranno in grado di convertirsi in una risorsa economica per se stessi e per le società ospitanti.
Ciò che si può proporre per limitare il disordine, tagliare i profitti dei passatori e soprattutto ridurre i rischi per la vita delle persone in fuga, consiste nelle misure di reinsediamento: ossia l’accoglienza in un secondo paese, in base a quote prefissate, di chi ha trovato provvisorio rifugio in un primo paese di asilo. In genere confinante, poco sicuro anch’esso, povero di risorse per misure adeguate di protezione. Va ricordato in proposito che l’85% dei rifugiati internazionali, circa 20 milioni secondo l’UNHCR, trovano asilo in paesi in via di sviluppo, perlopiù confinanti con quello di origine: è il caso della Turchia (3,5 milioni di rifugiati), del Pakistan (1,4 milioni), dell’Uganda (1,4 milioni), del piccolo Libano (1,0 milioni, ma uno ogni 164 abitanti, senza contare i palestinesi).
Le misure di reinsediamento da tempo vengono auspicate dall’ONU e sono di fatto attuate da alcuni paesi, come contributo al riequilibrio delle sperequazioni globali nell’accoglienza dei rifugiati. Gli scenari internazionali più recenti si muovono tuttavia in direzione opposta. Nel 2017 si sono infatti ridotte le possibilità di reinsediamento: i posti disponibili sono scesi a 75.200, su 1,2 milioni di richiedenti, accusando un calo del 54% in confronto al 2016 (163.200). I rifugiati effettivamente reinsediati sono stati 65.100, distribuiti in 34 paesi diversi. Secondo l’UNHCR è l’effetto del deterioramento del clima politico internazionale nei confronti dell’argomento. In modo particolare gli Stati Uniti, tradizionalmente principali protagonisti dei reinsediamenti, con la presidenza Trump hanno annunciato un dimezzamento delle ammissioni.
Come esempio extraeuropeo positivo va ricordato invece il caso canadese, in cui il governo Trudeau ha varato una politica di collaborazione tra Stato e sponsor privati (associazioni accreditate, oppure almeno cinque persone) per l’accoglienza di famiglie di rifugiati siriani: circa 40.000 persone ne hanno beneficiato fino al 2017. Il governo provvede al viaggio e assicura alcuni servizi, gli sponsor si impegnano a garantire vitto e alloggio per un anno, ad accompagnarli nell’apprendimento della lingua, nella ricerca del lavoro e nell’integrazione sociale: un costo stimato in circa 20.000 euro per una famiglia di 4-5 persone. In Europa 25 paesi nel 2017 hanno attuato misure di reinsediamento, ricollocando circa 26.400 rifugiati: un numero ancora modesto, ma in crescita rispetto alle 17.100 persone reinsediate nel 2016 in 23 paesi.
In questa cornice si inserisce l’iniziativa italiana dei corridoi umanitari, varati alla fine del 2015 da alcune organizzazioni religiose in accordo con le autorità governative (Ministero degli Esteri e Ministero degli Interni): Federazione delle Chiese Evangeliche, Chiesa Valdese, Comunità di Sant’Egidio, poi anche Conferenza Episcopale Italiana e Caritas. I promotori hanno inviato sul posto degli operatori, che hanno preso contatti con le reti locali di accoglienza e predisposto una lista di potenziali beneficiari poi trasmessa alle autorità italiane. Dopo i necessari controlli, il governo italiano ha rilasciato dei visti umanitari validi solo per l’Italia. Una volta approdati in Italia mediante normali voli aerei, in condizioni sicure, legali e ordinate, i beneficiari del progetto hanno potuto presentare la domanda di asilo.
I rifugiati, finora circa 2000, sono arrivati dai campi profughi del Libano e dell’Etiopia. La selezione dei beneficiari ha privilegiato nella prima fase il criterio della vulnerabilità, dando quindi la priorità a persone ferite, torturate, traumatizzate dalla guerra, a famiglie con persone malate o portatrici di disabilità, a madri sole con figli e altre situazioni particolarmente meritevoli di tutela. In un secondo momento invece è stata posta maggiore attenzione al criterio dell’integrabilità, ossia a famiglie in cui vi fossero adulti in grado di inserirsi nel mercato del lavoro. Sono stati ospitati in maniera diffusa in varie località italiane, inizialmente per dodici mesi, e accompagnati nell’apprendimento dell’italiano, nella ricerca del lavoro, nell’orientamento ai servizi. Nel caso del corridoio dall’Etiopia, è stata individuata per ciascun caso una famiglia-tutor incaricata di seguirli a titolo volontario, soprattutto sotto il profilo della socializzazione e delle attività di tempo libero. Il tutto fra l’altro senza oneri per lo Stato.
Il modello è stato seguito da Francia, Belgio, Andorra. Anche il ministro Salvini ha proposto una sua versione dei corridoi umanitari, accettando di accogliere alcune decine di rifugiati provenienti dalla Libia, in collaborazione con una rete cattolica di comunità di accoglienza.
Nell’attuale conflitto politico sull’accoglienza dei rifugiati, l’iniziativa dei corridoi umanitari introduce degli elementi innovativi di notevole interesse. Il primo è indubbiamente quello di prevedere degli ingressi ordinati e sicuri, tagliando fuori gli operatori del trasporto illegale. Anche le polemiche riguardanti il disordine degli arrivi, la mancata programmazione, il senso di turbamento dell’ordine sociale, mediante i corridoi umanitari trovano una risposta rassicurante. Gli arrivi non sono calati dall’alto, ma condivisi con le comunità locali.
Il secondo elemento riguarda il coinvolgimento della società civile come protagonista dell’accoglienza, grazie alla partecipazione attiva dei cittadini.
Questo elemento rimanda a un terzo aspetto significativo: la diffusione sul territorio. Un’altra motivazione delle chiusure prende di mira le grandi concentrazioni di richiedenti asilo e il loro impatto sulle società locali. I corridoi umanitari lavorano con piccoli numeri di persone e in collaborazione con attori del territorio che si fanno carico dell’accompagnamento dei rifugiati verso l’autonomia.
Infine merita apprezzamento la dimensione ecumenica della prima iniziativa, quella del Libano, in cui cattolici e protestanti hanno collaborato insieme in nome di valori umanitari comuni, uno schema che ha significativamente influenzato l’analogo accordo francese.
Il progetto dei corridoi umanitari presenta però anche alcuni risvolti problematici. Il primo riguarda la selezione alla partenza. I corridoi umanitari richiedono alcune condizioni preliminari esterne: i beneficiari devono ricevere una prima accoglienza in un paese terzo, lì devono poter essere raggiunti e ascoltati. Qualcuno infine deve prendere l’ardua decisione su chi accogliere e chi lasciare indietro. La questione della responsabilità della selezione, apre interrogativi etici e politici drammatici.
Un aspetto è comunque già emerso, e chiama in causa una grande sfida dell’accoglienza umanitaria: occorre privilegiare le persone più vulnerabili o quelle con maggiori potenzialità di integrazione nella società ricevente, anzitutto in ambito lavorativo? Se a volte si ricorre alla retorica dei rifugiati come risorsa, bisogna invece essere consapevoli che i rifugiati ottengono in media risultati inferiori agli altri immigrati sul piano occupazionale. Difficilmente potrebbe andare diversamente.
Si apre così un ultimo interrogativo, già notato per esempio nei reinsediamenti canadesi. E’ il problema della fase successiva all’accoglienza e dell’avviamento all’autonomia. Le persone sono diverse, per capitale umano, formazione precedente, capacità di apprendimento, spirito di adattamento. Non è detto che tutte riescano a rendersi autonome nel tempo stabilito. Un’altra variabile di cui tenere conto è il contesto di inserimento, poiché le economie locali hanno una diversa potenzialità occupazionale. Cercare un lavoro al Sud non è come cercarlo in molte aree del Centro-Nord.
Altra questione è quella del bilanciamento tra sostegno, accompagnamento, avvio all’autonomia. Il rischio della dipendenza assistenziale incombe anche nel caso dei rifugiati, forse più ancora che per altre categorie di soggetti vulnerabili. In ogni caso bisogna tenere conto che rimarrà un certo numero di beneficiari che non riusciranno a conseguire una piena autonomia.
In conclusione, un progetto innovativo come quello dei corridoi umanitari sollecita altre innovazioni e investimenti sociali per raggiungere i suoi encomiabili obiettivi.
Di solito l’equilibrio sta nel mezzo cioè nel rivolgersi all’uno e all’altro nella stessa “quantità”. Ossia dando accoglienza sia a chi può essere riconosciuto in grado di raggiungere una certa autonomia sia a chi invece forse non la raggiungerà. Il nostro parere potrebbe rivelarsi molto relativo e i risultati capovolgersi a favore di un migliore inserimento per chi invece sembrava impossibile.Potrebbe anche non essere così ma offrire senza discriminare, pur operando a numero, chiuso forse creerebbe meno sensi di colpa in chi opera sul campo.