I rifugiati abbandonati
Uno sguardo da Erbil, Kurdistan iracheno
Maurizio Ambrosini | 19 Aprile 2022
Lo straordinario slancio di solidarietà espresso dalle società europee -istituzioni politiche, associazioni, mass-media, semplici cittadini- nei confronti dei profughi ucraini rappresenta una svolta importante nella controversa vicenda dell’accoglienza delle persone in cerca di asilo. Oltre quattro milioni di persone accolte finora, senza proteste, polemiche, mugugni. Porte aperte, diritto alla mobilità e alla scelta del luogo d’insediamento, accesso al mercato del lavoro e ai servizi sociali.
Proprio per questo stride ancora di più il trattamento riservato ai profughi di altre guerre.
Propongo alcune impressioni a partire da un viaggio a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. La città, una delle più antiche del mondo, come dicono i cultori locali della memoria storica, è stata per alcuni anni al centro delle cronache internazionali a motivo del conflitto scatenato dall’ISIS: qui arrivavano centinaia di migliaia di rifugiati dalla Siria e di sfollati interni dalla piana di Ninive e dalla regione di Mosul. Ora i riflettori dei media e della politica internazionale si sono spostati altrove, ma i profughi sono ancora qui (250.000 siriani, e la maggioranza degli sfollati, 1.100.000 in Iraq). ISIS è stato sconfitto, ma non debellato. Ripiegato ai confini con la Siria, dà segni di ripresa. Ogni tanto compie attacchi, come quello clamoroso a una prigione nel Kurdistan siriano, dove erano detenuti centinaia di suoi militanti. Dal canto suo l’Iran ogni tanto fa sentire la sua presenza sparando qualche missile.
La città sembra invece ansiosa di riaffermare il suo ruolo di capitale regionale, di destinazione turistica per i benestanti provenienti da altre regioni irachene, e di principale città curda politicamente semi-autonoma. L’attività edilizia è ripresa in grande stile: sorgono nuovi grattacieli e centri commerciali a un ritmo vertiginoso, finanziati dall’aumento del prezzo del petrolio e dagli scarsi controlli sui flussi di capitali. Ma l’instabilità politica cova sotto la cenere: le comunità etniche e religiose divise dai conflitti non hanno ancora trovato una via verso la pacificazione. Chi è stato perseguitato non soltanto lamenta i torti subiti, ma spesso cerca di rivalersi contro chi appartiene alle comunità dei persecutori. Questi, ora diventati vittime, covano risentimento e sogni di rivincita. Ogni comunità si è dotata di una propria milizia, che a sua volta necessita di finanziamenti: è il modello libanese, nel suo volto più inquietante.
Fuori città, a diversi chilometri di distanza e senza trasporti pubblici, sorgono ancora i campi profughi, dove le famiglie vivono in angusti containers che in estate diventano roventi. Il governo locale ha tentato di rimandare gli sfollati interni nelle zone di origine, con promesse e azioni di forza. Ma non è facile ricominciare, quando città e villaggi sono distrutti, i terreni agricoli minati, le infrastrutture devastate, l’economia azzerata. Non sono pochi i casi di ritorni falliti e di rientri nei campi profughi, che le autorità vorrebbero chiudere.
Tra i casi più spinosi risalta quello delle donne e dei minori arrivati da Mosul, senza il padre e marito. Queste famiglie, o i loro brandelli, sono stigmatizzate in quanto sospettate di militanza attiva o quanto meno di complicità con l’ISIS e le sue violenze. Molte sono rinchiuse in campi a loro destinati, ancora più desolanti degli altri, con un limitato accesso a servizi e opportunità lavorative. I minori se non hanno un padre che li riconosca non possono essere registrati all’anagrafe, ottenere documenti d’identità e accedere alla scuola. Un terreno d’impegno delle ONG che operano sul posto, come Terre des Hommes Italia, è quello di trovare il modo di far ottenere dei documenti d’identità a questi bambini, conducendo faticose battaglie legali caso per caso.
Anche per i minori siriani o provenienti da altre regioni dell’Iraq la scuola è un diritto problematico. Varie ragioni ostacolano la frequenza: per i più poveri, pesa la necessità di contribuire al bilancio familiare, con lavoretti, tentativi di vendita di qualche povera mercanzia, o, nei casi più disperati, chiedendo l’elemosina. Non mancano neppure le ragazze date in sposa giovanissime, per poter beneficiare di una dote che sollevi l’indigenza della famiglia.
A indebolire la scolarizzazione concorrono anche altri fattori. Anzitutto burocratici: non solo i minori senza documenti non sono ammessi, ma anche quelli che a causa della guerra hanno perso anni di scuola e sono rimasti indietro. Poi pesano i fattori culturali e linguistici, nella complessa geografia della regione: se le famiglie provengono dalla Siria o da altre regioni dell’Iraq parlano arabo, mentre i curdi parlano un’altra lingua, del ceppo iranico. Di conseguenza, l’incertezza sul futuro e la speranza di rientrare nei luoghi di origine rallentano la scolarizzazione.
L’incertezza grava anche su chi ha ottenuto il sospirato visto per un paese occidentale: per esempio, cristiani che sono riusciti ad acquisire un visto per l’Australia. Qui è il Covid-19 ad aggiungersi alla lunga scia degli eventi avversi: l’Australia da due anni ha chiuso le frontiere, e l’autorizzazione a partire non è ancora arrivata. Le persone vivono sospese, tra ciò che hanno perso, ciò che sperano di raggiungere, la vita precaria che hanno costruito a Erbil.
Forse inevitabilmente, le persone intrappolate nella condizione di profughe si nutrono di speranze. La principale è appunto quella di raggiungere l’Occidente. L’immaginario si riempie di rappresentazioni dorate delle condizioni di vita nei paesi economicamente avanzati. I racconti dei parenti che “ce l’hanno fatta” invariabilmente rafforzano il mito: gli emigrati dedicano ogni cura a diffondere un’immagine di successo presso le comunità di origine.
Al risultato contribuiscono inoltre instabilità politica e incertezza economica, che alimentano una cultura della precarietà: a Erbil nessuno mette i risparmi in banca. Non solo per l’inflazione. È già successo che il governo, in una delle periodiche crisi finanziarie intrecciate con quelle belliche, abbia confiscato i risparmi depositati sui conti correnti. Anche per questo si vive alla giornata, cercando di spremere il massimo possibile dalle parentesi di tranquillità.
Il risultato è che anche le classi medie, con lavori dignitosi e relativamente sicuri, sognano di partire: sono disposte a barattare il loro relativo benessere con la sicurezza e la stabilità dei paesi del Nord del mondo. I profughi che cercano di entrare in Polonia attraverso la Bielorussia, braccati nei boschi dalle guardie di confine, vengono prevalentemente da qui. Tentano di mettere a profitto il fatto che la Bielorussia è un raro caso di paese europeo aperto al turismo iracheno. Il cerchio in un certo senso si chiude: i confini europei sono diventati accoglienti per i profughi ucraini, ma restano arcigni e anche violenti per chi arriva dal Kurdistan, definito come “arma ibrida” nei discorsi di chi ha cercato di giustificare l’uso delle maniere forti contro i rifugiati mediorientali.
La commissione per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha presentato nei giorni scorsi un rapporto che documenta migliaia di casi di violazione dei diritti umani ai confini dell’UE. Come ha sintetizzato Vincenzo Spagnolo su “Avvenire”, in vari paesi «respingere rifugiati, richiedenti asilo e migranti è una politica ufficiale». In altri casi esistono «prove credibili» che si tratti di una pratica consolidata.
Anche il Danish refugee council ha riportato 30.309 casi di respingimento indiscriminato alle frontiere dell’UE tra il dicembre 2019 e il settembre 2021, citando fra l’altro diversi casi di ricorso eccessivo alla violenza.
Il caso ucraino ha introdotto una nuova prasi in questa tormentata materia. Resta da vedere se si tradurrà in uno sguardo diverso verso tutti i profughi, o si consoliderà in un approccio profondamente disuguale, incline a discriminare tra i fuggiaschi chi è più e chi e è meno meritevole di essere accolto.