I rifugiati nel mondo continuano a crescere. Ma l’Europa e il Nord del mondo ne accolgono pochi


Maurizio Ambrosini | 20 Giugno 2024

La dichiarazione conclusiva del  G7 pugliese ha dedicato un paragrafo all’immigrazione, ma non ha menzionato la parola “rifugiati”, né tantomeno il diritto d’asilo. Il linguaggio adottato è emblematico dell’approccio oggi prevalente nei paesi sviluppati. I loro leader hanno lanciato  “la Coalizione del G7 per prevenire e contrastare il traffico di migranti”, affermando:  “ci concentreremo sulle cause profonde della migrazione irregolare, sugli sforzi per migliorare la gestione delle frontiere e frenare la criminalità organizzata transnazionale e sui percorsi sicuri e regolari per la migrazione”. L’ultimo aspetto, il più importante, viene solo dopo la sorveglianza dei confini e la lotta contri gli arrivi non autorizzati. Parlare di “percorsi sicuri e regolari” per gli ingressi significa prevedere qualche sbocco per i lavoratori, ma allo stesso tempo chiudere le porte a chi arriva come può, perché fugge da guerre, repressioni, violazioni sistematiche dei diritti umani. Ossia gran parte dei rifugiati, richiedenti asilo e altre persone che necessitano di protezione umanitaria.

I numeri dei rifugiati nel mondo

In stridente coincidenza con il vertice, è uscito negli stessi giorni il rapporto annuale dell’UNHCR sui rifugiati nel mondo, a ridosso della giornata mondiale del 20 giugno sul tema. La distanza tra i dati esposti e la visione del fenomeno da parte dei leader (traballanti) del mondo ricco non potrebbe essere più profonda. La prima inquietante notizia è che  il numero delle persone costrette a fuggire dalle proprie case ha continuato a crescere nel corso del 2023: a fine anno, ha raggiunto la cifra di 117,3 milioni, e con gli aggiornamenti riferiti all’aprile di quest’anno ha già superato i 120 milioni. Otto milioni in più del 2022, con  una tendenza alla crescita che prosegue ininterrotta ormai da dodici anni.

Questa umanità fragile e sofferente di cui i grandi della terra non sembrano volersi accorgere, né tanto meno farsi carico, è formata da diverse componenti. La maggioranza (68,3 milioni)  consiste in realtà, come in passato, di rifugiati interni (in inglese IDP: Internally Displaced People): chi fugge da pericoli imminenti in genere non si è preparato a partire, dispone di poche risorse, è seguito dai familiari (circa il 40% dei rifugiati sono minorenni), e spesso non desidera neppure allontanarsi troppo, perché spera di rientrare nella propria casa e di poter riprendere la vita precedente. Il fatto che non varchino i confini induce una sottovalutazione dei loro bisogni, perché si tende a sopravvalutare la temporaneità dei loro spostamenti e anche a pensare che debba farsene carico il governo dei rispettivi paesi. Non si applicano le convenzioni internazionali sul diritto di asilo. Così, paradossalmente, alla fine sono meno tutelati dei rifugiati internazionali e sottoposti agli arbitri di governi che raramente si distinguono per l’impegno nella tutela dei diritti umani.

Il secondo gruppo (31,6 milioni) è quello dei rifugiati internazionali riconosciuti come tali e assistiti dall’UNHCR, a cui bisogna aggiungere 6,9 milioni di richiedenti asilo: persone che hanno attraversato un confine di Stato e chiesto protezione alle autorità di un altro paese, ma non hanno ancora ricevuto una risposta e quindi si trovano in una condizione di attesa, una sorta di limbo legale. Un terzo gruppo comprende “le altre persone bisognose di protezione internazionale”: soprattutto venezuelani riparati all’estero, privi di una chiara definizione del loro status. Un caso particolare è infine quello dei 6 milioni di palestinesi, rifugiati nel loro stesso paese, la cui tutela è affidata a un’altra agenzia dell’ONU, l’UNRWA colpita da tante polemiche nei mesi scorsi.

La mappa dei paesi di origine dei rifugiati è anche la mappa dei più gravi punti di crisi della geopolitica mondiale (tab.1), alcuni più noti e mediaticamente richiamati all’attenzione dell’opinione pubblica, altri raccontati a ritmi altalenanti, altri ancora dimenticati.

Spicca quest’anno la salita al primo posto dell’Afghanistan, tornato sotto il controllo dei taliban e pressoché scomparso dai notiziari, ma interessato da un consistente flusso di profughi in uscita verso i paesi vicini: soprattutto Iran e Pakistan.  Oppressione e mancanza di diritti, instabilità, peggioramento della già precaria situazione economica, disastri naturali, si saldano in quello che nel 2023 ha rappresentato il più cospicuo flusso di profughi riparati all’estero.

La Siria, per la prima volta dallo scoppio della guerra civile, è così scesa al secondo posto per qualche migliaio di unità, avendo ancora però 6,4 milioni di rifugiati all’estero. Al terzo posto troviamo un altro caso misconosciuto, quello venezuelano, che non ha tratto beneficio dal miglioramento dei rapporti con gli Stati Uniti e dall’alleggerimento delle sanzioni economiche. In quarta posizione si trova l’Ucraina, con dati sotto il profilo statistico stabilizzati (soltanto un + 5% rispetto al drammatico esodo del 2022), ma con un andamento interno più movimentato, per effetto della libertà di spostamento tra i paesi di accoglienza (tra cui risalta la Germania, con oltre un milione di rifugiati ucraini accolti) e di fenomeni di andata e ritorno verso la stessa Ucraina.

Un dato nuovo e tragico è invece quello riferito al Sudan, dove la sanguinosa guerra civile in corso ha provocato lo sradicamento di 1,5 milioni di persone, fuggite perlopiù nel poverissimo Ciad o nell’ancora più povero Sud Sudan.                     

Tabella 1 – I cinque principali paesi di provenienza dei rifugiati internazionali (2023)

Paese

Numero rifugiati all’estero (in milioni)

Afghanistan

6,4

Siria

6,4

Venezuela

6,1

Ucraina

6,0

Sudan

1,5

Fonte: UNHCR 2024

 

La distribuzione sperequata dell’accoglienza

Ma, al di là delle distinzioni e delle provenienze, c’è un dato che sintetizza la situazione dei rifugiati nel mondo: la loro accoglienza grava in maniera sproporzionata sui paesi a medio e basso reddito, che ne ospitano il 75%. Solo uno su quattro quindi ha trovato asilo in un paese ad alto reddito. Più ancora, il 21% è accolto nei paesi poveri, e il 17% in paesi poverissimi, che rappresentano il 9% della popolazione mondiale e soltanto lo 0,5% del Prodotto lordo mondiale, come Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan e Uganda. Incide su questa anomala distribuzione dell’onere dell’accoglienza il fatto che il 69% ha trovato asilo in un paese confinante: per le ragioni già ricordate, che inibiscono a gran parte dei rifugiati il viaggio verso destinazioni più remote, ma anche per gli investimenti dei paesi sviluppati e delle istituzioni internazionali a mantenere i rifugiati lontani dai  loro confini.

Non è un dato nuovo, ma non smette di stupire la distanza tra la narrazione dell’invasione e del sovraccarico di rifugiati (rappresentati per di più come protagonisti di un’immigrazione irregolare) e i dati pubblicati da UNHCR. Già il Global Compact dell’ONU sui rifugiati, del resto, aveva come argomento centrale il riequilibrio dell’onere dell’accoglienza tra il Sud e il Nord del mondo. Le autorità politiche e le opinioni pubbliche dei  paesi più prosperi non solo accolgono meno rifugiati dei paesi meno dotati di risorse, ma continuano a essere convinte del contrario: cercano di esternalizzare gli obblighi di protezione verso i paesi confinanti, come confermano il nuovo Patto su immigrazione e asilo dell’UE e i finanziamenti destinati a Tunisia, Egitto, Turchia, Libia, nonché l’accordo Italia-Albania.  Solo la Germania figura nelle prime posizioni della graduatoria dei paesi di accoglienza: al quarto posto, con 2,6 milioni tra rifugiati e richiedenti asilo (tab.2).

In questa classifica l’Iran figura oggi al primo posto, a causa degli arrivi dall’Afghanistan già ricordati,  avendo scavalcato la Turchia, che ha invece operato per ridurre le dimensioni della popolazione soprattutto siriana accolta sul suo territorio. Al terzo posto troviamo la Colombia, principale destinazione dei profughi venezuelani, ma assai poco menzionata nei dibattiti sull’asilo. Dopo la Germania, verso cui l’invasione dell’Ucraina ha provocato un nuovo afflusso di rifugiati, compare un paese fragile come il Pakistan, anch’esso coinvolto dal dramma afghano.

Tabella 2 – I cinque paesi che accolgono il maggior numero di rifugiati internazionali (2023)

Paese

Numero rifugiati accolti (in milioni)

Iran

3,8

Turchia

3,3

Colombia

2,9

Germania

2,6

Pakistan

2,0

Fonte: UNHCR 2024

 

Forse ancora più eloquente risulta il dato relativo alla proporzione tra il numero dei rifugiati e la popolazione residente: se si eccettua il caso della piccola isola-Stato di Aruba, nei Caraibi, con un rifugiato ogni cinque abitanti, proveniente generalmente del Venezuela, il poco invidiabile primato continua a toccare allo sfortunato Libano, vaso di coccio dei conflitti mediorientali, con un rifugiato ogni sei abitanti. Segue un altro caso poco noto, quello del Montenegro, ingaggiato dall’UE nella sorveglianza dei suoi confini, che si trova a fronteggiare l’accoglienza di un rifugiato ogni nove abitanti. Al quarto posto si colloca un’altra isola-Stato caraibica, Curaçao, con un rifugiato ogni 13 abitanti, mentre la gravità della situazione umanitaria nel Medio Oriente è confermata dalla presenza della Giordania in quinta posizione, con un rifugiato ogni 16 abitanti.

Una questione complessa, ma non priva di possibili risposte

Come già ricordato, buona parte dei rifugiati sperano di tornare nei luoghi di origine, una speranza condivisa da governi e istituzioni internazionali, che non vedono l’ora di sgravarsi dell’obbligo di assisterli. I dati però non inducono all’ottimismo: quasi i due terzi dei rifugiati (66%, in cifre 24,9 milioni) si trovano impaniati in condizioni di esilio protratte, definite come situazioni in cui più di 25.000 persone provenienti dallo stesso paese sono insediati da oltre cinque anni in un paese a basso  medio reddito. A volte da decenni, come i rifugiati somali in Kenya. Il rapporto UNHCR enumera 58 di queste situazioni, riferite a 37 paesi, con un aumento di 1,6 milioni di persone coinvolte. Il dato in sé non dice molto, ma le conseguenze di questo fatto sono molto pesanti per le persone e le famiglie: si traducono in  scarsa o precaria scolarizzazione dei figli, ansietà e incertezza, declino delle competenze e capacità lavorative, deterioramento della salute e del benessere psichico.

Il rapporto UNHCR per la prima volta prende in considerazione anche  le situazioni in cui gli spostamenti forzati hanno tra le loro cause le questioni ambientali e  climatiche, spesso intrecciate con gli scontri armati e i conflitti etnici. In questi casi, i rifugiati sono in gran parte sfollati interni, perché chi perde le poche risorse che possiede, greggi o campi o attività commerciali e artigianali, difficilmente può sobbarcarsi lunghi spostamenti e attraversamenti di confini. Ciò non significa che  questi flussi dalle cause miste, come i conflitti tra pastori e allevatori nell’Africa Occidentale, possano essere trascurati: anch’essi meritano attenzione e assistenza. Casi come quello del Sudan, della Repubblica Democratica del Congo, della Somalia e dello Yemen, mostrano come la fragilità ambientale esasperi le tensioni politiche ed etniche, e viceversa.

Un ultimo capitolo riguarda le possibili risposte ai drammi delle migrazioni involontarie1. Risposte che già sono previste dagli attuali strumenti del diritto internazionale, ma stentano a trovare attuazione. Tra queste, vanno ricordati i reinsediamenti in paesi sviluppati di persone accolte in un primo tempo in situazioni precarie, nei campi profughi o in altri contesti deficitari di risorse:  nel 2023 158.700 rifugiati ne hanno beneficiato, segnando un  39% in più rispetto al 2022.   Vi hanno contribuito i corridoi umanitari italiani, promossi dalla Chiesa cattolica e da quella protestante, con il coinvolgimento di altri partner, tra cui nell’ultima edizione anche l’associazione ARCI.

I numeri sono però molto inferiori alle necessità: i richiedenti che l’UNHCR ha vagliato e ammesso al reinsediamento sono 1,5 milioni. Serve quindi un impegno, da parte dei governi e delle istituzioni internazionali, che vada in una direzione ben diversa da quella configurata dal G7.

  1. Per un’analisi più articolata delle vie di risposta alla questione dei rifugiati, mi permetto di rimandare al recente libro: M. Ambrosini. Stato d’assedio. Come la paura dei rifugiati ci sta rendendo peggiori, EGEA 2023