I rifugiati nel mondo. Le buone notizie scarseggiano, le sorprese non mancano


Maurizio Ambrosini | 14 Luglio 2019

Il numero dei rifugiati nel mondo continua a crescere: questo è il primo dato che emerge dal rapporto annuale presentato dall’UNHCR, l’agenzia dell’ONU che se ne occupa, in occasione della giornata mondiale dei rifugiati celebrata il 20 giugno. A fine 2018 le persone obbligate a lasciare le loro case erano 70,8 milioni, 2,3 milioni in più dell’anno scorso. Tra di essi 13,6 milioni sono stati sradicati nell’ultimo anno, pari a 36.000 al giorno. Moltissimi i minorenni, fragili tra i fragili: uno su due. Nel numero non sono ancora conteggiati i venezuelani che stanno lasciando il loro paese, e che l’UNHCR menziona come una popolazione a rischio, in una situazione sempre più simile a quella dei rifugiati veri e propri.

 

Il Terzo Mondo è da anni l’area di origine della maggior parte dei migranti forzati. Due su tre vengono da cinque paesi soltanto, nell’ordine Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar, Somalia (tab.1). Non è difficile riconoscere nei principali paesi di provenienza i punti più acuti di crisi di uno scenario internazionale che dopo la fine della guerra fredda continua a produrre conflitti di varia intensità e natura. Non esistono conflitti soltanto locali, privi di ripercussioni per le regioni circostanti. Ogni intervento armato, ogni commercio di armi, ogni azione di destabilizzazione, provoca non solo vittime sul terreno, ma anche spostamenti di popolazione destinati a restare per anni in condizioni di precarietà e bisogno di protezione.

 

Tab.1 – I cinque principali paesi di origine dei rifugiati nel mondo

Paese Cifra (in milioni)
Siria 6,7
Afghanistan 2,7
Sud Sudan 2,3
Myanmar 1,1
Somalia 0,9

 

Il terzo dato riguarda i luoghi di accoglienza, e qui le sorprese non mancano rispetto alle rappresentazioni più diffuse. Il gruppo più numeroso consiste in realtà negli sfollati interni (nel gergo internazionale, IDP: Internal displaced people), coloro che scacciati dalla loro terra hanno trovato accoglienza in un’altra zona del proprio paese. Si tratta di 41,3 milioni, il 58,3% del totale. Poi ci sono coloro che varcano i confini: 25,9 milioni di rifugiati e 3,5 milioni di richiedenti asilo.  Anch’essi in realtà non vanno molto lontano: quattro su cinque si fermano nei paesi che confinano con quello di origine. I paesi più impegnati nell’accoglienza sono quelli più prossimi ai paesi sconvolti da guerre, scontri etnici, persecuzione delle minoranze, governi oppressivi.

 

Il quarto punto deriva dal precedente: i paesi in via di sviluppo sono in primo piano come luoghi di origine, ma sono anche in prima fila nell’accoglienza, ospitando l’84% dei rifugiati internazionali. Nella lista dei dieci paesi più impegnati nella gestione dell’asilo, nove rientrano tra i paesi in sviluppo. Da diversi anni ormai troviamo al primo posto la Turchia (3,7 milioni, perlopiù siriani), seguita dal Pakistan (1,4 milioni, in gran parte afghani) e dall’Uganda (1,2 milioni, provenienti soprattutto da Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo) (tab.2) e dal Sudan (1,1 milioni, dovuti soprattutto agli arrivi dal Sud Sudan). L’unico paese a sviluppo economico avanzato, oltre che appartenente all’UE, è la Germania. Fa impressione specialmente l’impatto delle migrazioni forzate sui paesi più deboli, quelli che occupano le ultime posizioni nella graduatoria basata sull’Indice di sviluppo umano dell’ONU: 6,7 milioni di persone, ossia un rifugiato su tre, hanno trovato rifugio in paesi come Uganda, Bangladesh, Etiopia, Ciad, Yemen.  Questi paesi rappresentano il 13% della popolazione mondiale e appena l’1,25% dell’economia globale. E’ vero che ricevono aiuti internazionali, ma i rifugiati in ogni caso pesano sui sistemi sanitari ed educativi, e soprattutto sul mercato del lavoro, oltre a modificare equilibri etnici e culturali spesso delicati. Quando non ricevono servizi dedicati, restano privi di protezione o diventano concorrenti delle popolazioni locali per le scarse risorse disponibili; quando invece le ONG o altri attori esterni allestiscono dei servizi per loro, il rischio è che i cittadini dei paesi riceventi li vedano come privilegiati rispetto a loro, dotati di servizi migliori di quelli di cui dispone la popolazione maggioritaria.

 

Tab.2 – I dieci primi paesi di accoglienza dei rifugiati internazionali nel mondo

Paese Cifra (in milioni)
Turchia 3,7
Pakistan 1,4
Uganda 1,2
Sudan 1,1
Germania 1,1
Iran 0,98
Libano 0,95
Bangladesh 0,906
Etiopia 0,903
Giordania 0,715

 

Per comprendere meglio il diverso impegno dei paesi del mondo nell’accoglienza, è interessante prendere in considerazione un altro indicatore: la proporzione dei rifugiati rispetto al complesso della popolazione residente (tab.3). Da diversi anni alla testa di questa graduatoria figura il piccolo Libano, con 156 rifugiati ogni 1.000 abitanti, esclusi i palestinesi insediati nei campi profughi da diversi decenni. Segue la Giordania con 72, poi la Turchia con 45. Il Medio Oriente, con la crisi siriana in primo piano, vede un impatto molto rilevante della popolazione sfollata sui paesi limitrofi.

 

Gli unici paesi dell’UE tra i primi dieci in questo caso sono la Svezia, con 25, e Malta, con 20.

A questo punto occorre domandarsi come si colloca l’Italia. A dispetto delle narrative enfatiche e vittimistiche, la risposta è: lontano dalle prime posizioni. Il rapporto certifica la presenza in Italia di 295.599 richiedenti asilo e rifugiati a fine 2018, pari a circa 5 persone su 1.000 residenti. Per offrire qualche termine di paragone, non ci precede solo la Germania (1,1 milioni, più 300.00 richiedenti asilo), ma anche la Francia (459.000) e la Svezia (318.000). In proporzione alla popolazione, parecchi altri paesi.

 

Tab.3 – I primi dieci paesi per rifugiati accolti ogni 1.000 abitanti

Paese Cifra
Libano 156
Giordania 72
Turchia 45
Ciad 29
Uganda 26
Sudan 26
Svezia 25
Sud Sudan 23
Malta 20
Gibuti 19

 

Molti rifugiati rimangono per anni nei campi o in altre situazioni precarie. E’ importante però cercare di comprendere quali sbocchi possano trovare le migrazioni forzate. Il rappporto dell’UNHCR ne analizza due: il ritorno e il reinsediamento in altri paesi. In entrambi i casi, le buone notizie scarseggiano. I ritorni continuano a riguardare soltanto una modesta proporzione dei rifugiati, nonostante gli sforzi dei governi per rimandarli nei luoghi di origine. Nel 2018 hanno coinvolto 593.800 persone, in diminuzione rispetto alle 667.400 del 2017.

 

Sul fronte degli sfollati interni i ritorni sono più numerosi, riguardando una popolazione che fin dalla partenza aveva probabilmente l’intenzione di ritornare alla propria terra e soprattutto si trova più sottoposta alle pressioni del proprio governo, priva delle tutele previste per i rifugiati internazionali. I ritorni interessano in questo caso 2,3 milioni di persone, ma sono anche in questo caso in netta diminuzione rispetto ai 4,2 milioni del 2017. Il ritorno non è tuttavia in molti casi un lieto fine: spesso case ed edifici pubblici sono stati danneggiati o distrutti, le infrastrutture (elettricità, acqua, gas) compromesse, i campi minati. L’economia locale è generalmente da ricostruire. Come nota l’UNHCR “in alcuni casi, i rifugiati e gli sfollati interni sono tornati in situazioni che non consentivano ritorni sicuri e sostenibili”.

I reinsediamenti, ossia il trasferimento in un paese terzo dopo quello di primo asilo, hanno riguardato 25 paesi di accoglienza e 92.400 persone, mentre l’UHCR stima che ne avrebbero bisogno 1,4 milioni. Mentre fino a due anni fa gli Stati Uniti erano di gran lunga il primo paese al mondo nell’accoglienza di rifugiati reinsediati, con la presidenza Trump il loro impegno è stato molto ridimensionato. Il Canada è oggi alla testa della graduatoria, con 28.100 persone reinsediate, davanti agli Stati Uniti (22.900), seguiti dall’Australia (12.700), dal Regno Unito (5.800) e dalla Francia (5.600).

 

In questa cornice si inserisce l’iniziativa italiana dei corridoi umanitari, varati da alcune organizzazioni religiose in accordo con le autorità governative: Federazione delle Chiese Evangeliche, Chiesa Valdese, Comunità di Sant’Egidio, poi anche Conferenza Episcopale Italiana e Caritas. I rifugiati, finora circa 2.500, sono arrivati dal Libano e dall’Etiopia, scelti sulla base di criteri prima di fragilità, poi anche di integrabilità. Sono stati accolti in maniera diffusa in varie località inizialmente per dodici mesi, di fatto anche oltre, e accompagnati nell’apprendimento dell’italiano, nella ricerca del lavoro, nell’orientamento ai servizi. Nel caso del corridoio dall’Etiopia, è stata individuata per ciascun caso una famiglia-tutor incaricata di seguirli. Il tutto fra l’altro senza oneri per lo Stato. Il modello è stato seguito da Francia, Belgio, Andorra. Se si estendesse, potrebbe rappresentare una risposta a varie paure e pregiudizi. Anche il ministro Salvini ha proposto una sua versione dei corridoi umanitari, accettando di accogliere alcune decine di rifugiati provenienti dalla Libia, in collaborazione con una rete cattolica di comunità di accoglienza.

 

Un’estensione di queste esperienze potrebbe rappresentare un’alternativa ai rischiosi viaggi per mare e alla cosiddetta chiusura dei porti.


Commenti

sarebbe bello avere anche il dato del posizionamento dell’Italia così da poterlo rendere noto a chi fa informazione per una corretta contestualizzazione di quella che succede