Il lavoro sociale con gli stranieri


Eduardo BarberisPaolo Boccagni | 13 Novembre 2017

Domanda d’aiuto, domanda di formazione

È opinione comune, nei servizi sociali, che la domanda d’aiuto della popolazione straniera si stia facendo più cospicua, complessa e diversificata. Non sempre, però, la formazione degli operatori sociali tiene il passo con questi cambiamenti. Non è così raro trovare, in anni di “accoglienza straordinaria” dei richiedenti asilo, nuovi operatori reclutati ad hoc, o riadattati da ambiti diversi, ma non adeguatamente formati. Se il dibattito pubblico sull’immigrazione continua a replicare una logica emergenziale, discutere di formazione di studenti ed operatori sociali aiuta a oltrepassare questo approccio a favore di orizzonti di più lungo periodo: per rafforzare la qualità degli interventi sociali, motivare gli operatori, potenziare le capacità di apprendimento dei servizi, al di là delle iniziative occasionali e della buona volontà dei singoli.

Al tempo stesso, è importante evitare di “esotizzare” le risposte, non meno che le domande d’aiuto. Più che nuove figure professionali, servono percorsi di formazione attenti agli atteggiamenti e alla riflessività professionale, non meno che a competenze metodologiche, organizzative e normative. Tema tanto più importante se si considera che riguarda ormai la generalità degli assistenti sociali – che lavorano con utenti stranieri nei servizi “generali” – e non solo gli specialisti dei servizi dedicati.

Nuovi bisogni formativi, tra università e aggiornamento professionale

Una maggiore attenzione al lavoro con la diversità etnico-culturale è necessaria nella formazione universitaria, in una fase in cui gli sbocchi occupazionali di servizio sociale sono meno ovvi che in passato e tra gli studenti si avvertono motivazioni pragmatiche più che idealistiche. Discutere di formazione e di nuovi bisogni formativi è importante anche per gli assistenti sociali già operanti. Non sempre gli anni di esperienza, anche con l’utenza immigrata, sono sufficienti per leggere le nuove sfide poste dai fenomeni migratori.

Ci capita spesso di domandare, nelle classi di servizio sociale, perché i cittadini stranieri si rivolgano ai servizi in modo più che proporzionale rispetto agli italiani. Le risposte tendono a essere tautologiche: “perché sono immigrati”, o al più per difficoltà di integrazione, per incomprensioni linguistiche, per differenze culturali, perché non riescono a trovare lavoro… Quasi mai la risposta è la più elementare: per via della povertà, in media molto più diffusa che nella popolazione autoctona. Nel confronto con gli assistenti sociali già attivi nella professione, invece, spesso prevale un discorso semplificatorio sulla diversità culturale, con la ricerca di strumenti agevoli per lavorare con specifici gruppi cui – per ridurre la complessità – si applicano etichette tanto facili da usare quanto inefficaci e discriminatorie.

Inoltre, le specificità teoriche, metodologiche e organizzative del lavoro sociale con popolazioni straniere oggi rimangono piuttosto marginali nella ricerca e nella didattica: come se il servizio sociale italiano fosse stato attento più all’insorgere del fenomeno migratorio e alla prima accoglienza che al suo successivo consolidamento. L’offerta di aggiornamento professionale, invece, appare ricca, persino difficile da monitorare nella sua complessità, ma proprio per questo motivo tutt’altro che chiara o scontata nei suoi esiti.

Verso una formazione più specializzata, ma non “settoriale”

Diversi fattori contribuiscono a questo divario tra mutamenti dell’utenza e dei bisogni e offerta formativa: la complessità e l‘evoluzione dei fenomeni migratori, ma anche inerzie organizzative, tendenze alla standardizzazione dei percorsi formativi, nonché un patrimonio storico relativamente limitato, nel servizio sociale italiano, di ricerca, didattica e pratica professionale con utenti non autoctoni.

A fronte di questo scenario, la domanda di formazione degli studenti e di (ri)qualificazione degli operatori sollecita maggior attenzione, ma non settoriale. Non si tratta solo di conoscere meglio le caratteristiche psico-sociali, giuridiche, familiari della popolazione straniera. Più che considerare “gli immigrati” come un gruppo di utenti a sé stante, si tratta di esaminare come il retroterra migratorio, e/o la condizione di minoranza etno-culturale, linguistica, religiosa…, interagiscono con altre fonti di vulnerabilità, comuni a una quota crescente della popolazione: povertà economica, precarietà o emarginazione lavorativa, debolezza delle reti di sostegno informale, disagio abitativo, indebitamento e così via. In altre parole, l’attributo di straniero è, più che una identità o una condizione in sé, una possibile fonte aggiuntiva di vulnerabilità sociale (ma anche di specifiche risorse).

Sul piano dei modelli formativi, le esperienze più innovative di questi anni rimandano a una didattica interattiva e aperta al lavoro di gruppo, che accompagni i soggetti in formazione nel rielaborare i pregiudizi (negativi o positivi) di cui sono portatori, da un lato; nell’essere consapevoli dei dilemmi che l’utenza straniera pone alla professione, e del raccordo tra lavoro di campo, funzioni organizzative e advocacy, dall’altro lato.

Nella formazione universitaria, al di là dell’importanza dell’apprendimento pratico-esperienziale in tirocinio, un buon grado di personalizzazione e contestualizzazione è necessario anche per la didattica in aula. Chiunque di noi, nella vita quotidiana, può avvertire il divario tra rappresentazioni dell’immigrazione come fenomeno omogeneo e indifferenziato e singole persone straniere con cui capita di interagire. È quindi importante partire – nei lavori di gruppo, nelle simulazioni di caso, nelle visite ai servizi territoriali – non da “l’immigrato” (o “il rifugiato”, o “il minore straniero non accompagnato”, ecc.) come figura astratta, bensì da esempi specifici di persone reali, magari conosciute e incontrate dagli stessi studenti. Rispetto a queste persone concrete è più realistico e gratificante ricostruire le effettive domande sociali, le traiettorie di vulnerabilità, le risorse attuali e potenziali, le frustrazioni quotidiane. Una personalizzazione che tuttavia deve evitare le semplificazioni idealistiche di testimonianza: ascoltare e far parlare i membri delle minoranze è fondamentale, ma farlo con un “campione” dell’integrazione serve meno. Un utente o un operatore di origine straniera con un percorso particolarmente positivo viene interrogato, per esempio, su quanto sia stato di successo il suo percorso. In forme in cui può solo dire che sì, ovviamente, è andato tutto bene. Una prassi che limita la visibilità degli ostacoli personali, sociali, istituzionali.

Lavorare (anche) sugli atteggiamenti e gli stereotipi verso gli stranieri

È inoltre importante, già dai primi incontri con i soggetti in formazione, evitare che l’impianto prescrittivo dell’etica professionale porti a trascurare l’esistenza di stereotipi e atteggiamenti ostili – più o meno impliciti – verso specifici gruppi; a partire dal nativismo, cioè l’assunto di senso comune secondo cui “vengono prima i nostri”. Si tratta di reazioni che sovente si associano all’interazione con gli stranieri, e richiedono di lavorare sulla consapevolezza di sé e sulla riflessività professionale. Le trappole cognitive ed emotive insite in atteggiamenti miserabilistici, culturalistici, iper-politicizzati, esotizzanti, talvolta anche razzisti andrebbero riconosciute come possibile rischio con cui misurarsi, anziché essere negate o ignorate perché “contrarie all’etica professionale”.

Può essere interessante ad esempio, nel lavoro di gruppo con gli studenti, ricostruire le loro preferenze o affinità identitarie, culturali o religiose – anche a partire da affermazioni più o meno stereotipate, ma spontanee – e da qui costruire il terreno per atteggiamenti più equilibrati e consapevoli dei pregiudizi di cui si è portatori, degli effetti che possono avere sul lavoro sociale e dunque degli strumenti cognitivi e operativi necessari per gestirli. È poi importante mostrare che eventuali atteggiamenti ostili – anche tra gli assistenti sociali – tendono a essere alimentati da aspetti personali, sociali e istituzionali come rigidità caratteriale, scarsa preparazione, pressioni esterne, sovraccarico di casi e di mansioni, logoramento emotivo, mancanza di supervisione.

Fra gli strumenti, consigliamo di utilizzare simulazioni e attività di autovalutazione della sensibilità culturale (alcuni dei quali dettagliati e adattati per il pubblico italiano nel nostro volume Il lavoro sociale con le persone immigrate). Si possono invitare i soggetti in formazione a identificare a quale gruppo culturale o nazionale si riferiscano delle frasi, presentate genericamente come articoli di stampa – tratte in realtà da articoli resi celebri da L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, di Gian Antonio Stella, che evidenziano stereotipi e pregiudizi statunitensi dell’inizio del XX contro i migranti italiani.

L’esercizio si presta a essere attuato, con gli adattamenti del caso, in contesti diversi: con studenti di scuole di vario ordine e grado, in percorsi formativi per volontari, operatori socio-sanitari, mediatori interculturali… Esso facilita la riflessione sul funzionamento degli stereotipi in generale (evidenziando il ripetersi nel tempo e nello spazio di alcuni stigmi che postulano la pericolosità delle minoranze) e sulla loro diffusione in specifici contesti.

Esistono anche strumenti formativi pensati per rendere esplicita la posizione di privilegio dell’assistente sociale, non solo come incaricato di pubblico servizio che regola l’accesso alle risorse di welfare, ma anche come membro della maggioranza “autoctona”, che tende a naturalizzare la propria identità culturale (cosa ancora più comune in Italia, dove i figli dell’immigrazione nella professione sono – ancora – una esigua minoranza). Il lavoro con il gruppo classe dei discenti potrebbe porsi domande come: cosa caratterizza l’identità italiana? E l’identità europea? C’è una identità e una cultura bianca? Quali difficoltà troviamo nel rispondere a queste domande e perché? Gli italiani, gli europei, i bianchi sono (stati) vittime di razzismo e in che contesti? Esiste un uso politico di queste identità? Quale posizione privilegiata esse garantiscono?

È anche a partire dalla riflessione sulla posizione occupata dagli assistenti sociali, e sulla loro identità personale e professionale, che si può sviluppare un atteggiamento più aperto e meno categorizzante verso gli utenti non italiani.