Il mondo ineguale dell’accoglienza dei rifugiati
La giornata mondiale del 20 giugno e i dati del rapporto UNHCR
Maurizio Ambrosini | 21 Giugno 2022
La guerra in Ucraina ha riportato in primo piano la questione dei rifugiati, dopo un periodo di declino mediatico, dovuto al Covid e alla diminuzione degli sbarchi sulle nostre coste. Ma si trattava di un’illusione ottica, come spesso avviene quando si parla d’immigrati e di rifugiati. Le crisi umanitarie non si erano affievolite, soltanto non raggiungevano la soglia della nostra attenzione.
Il dato che sintetizza un dramma globale è stato pubblicato da UNHCR qualche settimana fa: nel 2022 nel mondo le persone che cercano asilo hanno superato la cifra di 100 milioni, per la prima volta da quando vengono raccolte sistematicamente le cifre del fenomeno.
C’entra l’invasione dell’Ucraina e gli spostamenti di massa dallo sfortunato paese slavo (4,8 milioni di persone in fuga all’estero, secondo gli ultimi dati UNHCR, molti altri sfollati all’interno del paese), ma non solo. Secondo una logica forse comprensibile, ma comunque ingiusta, la regola “chiodo scaccia chiodo” ha precipitato nell’ombra le vittime di tante altre crisi belliche e umanitarie, che tuttavia restano aperte e scacciano milioni di persone e di famiglie dalle loro case. Secondo la Banca Mondiale, nel 2021 ventitre paesi, con una popolazione complessiva di 850 milioni di abitanti, erano coinvolti in conflitti armati di intensità alta o media.
Il 20 giugno, giornata mondiale dei rifugiati, l’UNHCR pubblica il suo rapporto annuale, riferito ai dati dell’anno precedente, in questo caso il 2021. Già prima della fatidica data del 24 febbraio 2022 e dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina, nel mondo si contavano 89,3 milioni di rifugiati, ed era già la cifra più alta di sempre. Per di più, aggiungendo altre popolazioni bisognose di protezione, come gli apolidi o i rifugiati ritornati in patria ma ancora bisognosi di assistenza, si raggiungeva la cifra di 94,7 milioni. Ma per comprendere più a fondo il dramma occorre entrare nei dettagli.
La regola generale è che i rifugiati fanno poca strada: a volte non vogliono farne di più, perché sperano di rientrare nel luoghi di origine, ma soprattutto non riescono ad andare molto lontano. Le ragioni sono varie: non si sono preparati a partire, non dispongono di risorse adeguate per compiere lunghi viaggi, sono molte volte intere famiglie con bambini al seguito, e talvolta anche anziani e persone con disabilità. Ma l’ostacolo più serio sono i confini da attraversare e le misure che gli Stati adottano per non farli passare: una politica sempre più rigida, su cui i paesi sviluppati hanno investito ingenti risorse e dispiegato la loro capacità d’influenza politica ed economica. Basti pensare agli accordi dell’UE con Turchia, Libia, Niger, Tunisia, Marocco e altri governi, o all’azione di respingimento di Frontex ai confini dell’UE. Un emblema di questa volontà di chiusura è la recente politica adottata dal Regno Unito: accordi con il Ruanda per deportare laggiù i richiedenti asilo che sbarcano dal mare. Con esplicite finalità di deterrenza verso nuovi arrivi. Malgrado lo stop del primo volo per l’intervento dell’Alta Corte di Strasburgo, il governo di Boris Johnson ci riproverà.
Questa somma di motivi spiega perché degli 89,3 milioni di rifugiati oltre la metà, precisamente 53,2 milioni, sono sfollati interni, ossia persone che hanno cercato scampo in altre regioni del loro paese. Potrebbe sembrare una condizione meno disagevole di quella di chi ripara all’estero, ma in genere non è così: rimangono in balia dei loro governi, che non sono stati in grado di proteggerli e a volte sono direttamente responsabili del loro sradicamento. Non sono coperti dall’ombrello delle convenzioni internazionali che proteggono i rifugiati all’estero e non ricevono la medesima assistenza da parte delle organizzazioni umanitarie. I loro governi possono pertanto decidere di ridurre o tagliare del tutto gli aiuti nei loro confronti, possono spostarli, o forzarli a ritornare nei luoghi di origine, anche se ancora pericolosi o privi delle condizioni per riprendere una vita normale.
I rifugiati internazionali sono in tutto 36,1 milioni, distinti in diverse categorie: 21,3 milioni sotto il mandato dell’UNHCR, 5,8 milioni di palestinesi, 4,4 milioni di venezuelani fuggiti all’estero, 4,6 milioni di richiedenti asilo dallo status ancora in via di definizione. Ciò che più conta però è il dato relativo a chi accoglie. Non dissimile da quello degli scorsi anni, ma ugualmente scioccante per la sua distanza dalle rappresentazioni correnti del fenomeno: l’83% è accolto in paesi a basso o medio reddito; il 27% in paesi classificati tra i più poveri del mondo; il 72% nei paesi confinanti con quello di origine. L’Europa a fine 2021 accoglieva appena il 13% dei rifugiati del mondo.
Tra i paesi di origine, il 2021 è stato l’anno della nuova fuga dall’Afghanistan, un paese sfortunato che da diversi decenni conosce l’espatrio forzato di migliaia di suoi cittadini. Da notare che fino alla conquista del potere da parte degli insorti talebani, diversi paesi europei avevano negato l’asilo ai profughi afghani e disposto il loro rimpatrio, ritenendo sicuro il paese di provenienza. Tra i conflitti esplosi o aggravati nel 2021 vanno poi ricordati almeno quello che contrappone il governo centrale dell’Etiopia alla regione ribelle del Tigray e quelli in corso nella regione del Sahel, dove la guerriglia jihadista sta mettendo in seria difficoltà i governi nazionali, soprattutto in Mali, Burkhina Faso e Ciad. In entrambi i casi, i conflitti hanno provocato milioni di sfollati interni.
Altre crisi si sommano nel comporre la cartografia dell’esilio. I primi cinque paesi della graduatoria a fine 2021 erano all’origine del 69% dei rifugiati internazionali: la Siria per prima, con 6,8 milioni di cittadini fuggiti all’estero; il meno noto caso venezuelano, con 4,6 milioni; l’Afghanistan già ricordato, salito a 2,7 milioni, il Sud Sudan, sconvolto da una guerra civile dimenticata, con 2,4 milioni, il Myanmar, in cui la persecuzione della minoranza musulmana royingia si è sommata con la repressione seguita al colpo di stato militare, con 1,2 milioni. L’Ucraina potrebbe quindi ora collocarsi al secondo posto dopo la Siria nella mappa mondiale dell’espatrio forzato.
Poche novità, fino al dicembre 2021, riguardavano i paesi di accoglienza. Il carico gravava sui soliti noti: la Turchia rimaneva al primo posto, con 3,8 milioni di rifugiati, malgrado la profonda crisi economica in cui versa; seguiva la Colombia, che ospitava 1,8 milioni di venezuelani. Al terzo posto comparivano due paesi a basso reddito, Uganda (che accoglie profughi dai vari conflitti dell’Africa centrale) e Pakistan (che accoglie soprattutto profughi afghani), con 1,5 milioni di rifugiati. Solo al quinto posto si poteva trovare un paese europeo, la Germania, con 1,3 milioni di rifugiati. Di certo ora la crisi ucraina ha modificato il quadro, portando l’Europa in primo piano, ma senza cancellare le crisi umanitarie del resto del mondo.
Ancora più significativo il rapporto tra rifugiati e abitanti. Lasciando da parte le isole caraibiche di Aruba e Curaçao, che accolgono quote importanti di profughi venezuelani in rapporto alla loro ridotta popolazione, le situazioni più critiche riguardano il Medio Oriente: il Libano, malgrado la drammatica situazione economica e sociale in cui si trova, ospita un rifugiato ogni 8 abitanti; la Giordania uno su 14; la Turchia uno su 23.
Tra i pochi dati positivi, si può ricordare che 5,7 milioni di rifugiati, in gran parte sfollati interni (5,3 milioni), sono rientrati nelle zone di origine, un dato che ritorna ai livelli pre-Covid. Il 70% circa, almeno ufficialmente, lo ha fatto di propria volontà. Anche se così fosse, il fatto che il 30% non sia ritornato volontariamente getta un’ombra su questo apparente miglioramento. Sul versante positivo va poi segnalato il fatto che più di 80.000 apolidi hanno ottenuto una cittadinanza, o hanno potuto confermarla: un problema su cui l’UNHCR dal 2014 conduce una campagna di sensibilizzazione.
La crisi umanitaria in Ucraina si somma dunque a una situazione internazionale già segnata da molteplici zone di crisi e grandi spostamenti di profughi. Non solo ai confini dell’UE, ma a livello planetario urgono soluzioni ai conflitti e una ben più incisiva protezione.