1.1. Il PNRR: un’opportunità per il sistema integrato dei servizi alla persona


Remo Siza | 15 Giugno 2021

Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza non è una shopping list, cioè un elenco di progetti slegati fra loro, ma un piano a tutti gli effetti con obiettivi generali che orientano la pluralità delle azioni strategiche, con priorità e risorse finanziarie commisurate. È un Piano di massicci investimenti pubblici da realizzare nell’arco temporale di riferimento 2021-2026 che assume l’obiettivo di modernizzare e rafforzare il potenziale di crescita della società italiana e affrontare le sue criticità storiche: l’assenza di infrastrutture digitale adeguate, la capacità amministrativa della pubblica amministrazione, la concorrenza e le barriere di accesso al mercato. Questi sono le priorità e gli interventi specifici che sono ritenuti necessari per attivare rapidamente e rimettere in moto un meccanismo che a causa di eventi esterni al sistema economico si è fermato.

Il Piano si sviluppa nell’ambito di tre Assi strategici (digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale) e si articola in sei Missioni:

  • Missione 1: digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (40,73 miliardi;
  • Missione 2: Rivoluzione verde e transizione ecologica (59,33 miliardi);
  • Missione 3: Infrastrutture per una mobilità sostenibile (25,13 miliardi);
  • Missione 4: Istruzione e ricerca (30,88 miliardi);
  • Missione 5: Inclusione e coesione (19,81 miliardi);
  • Missione 6: Salute 15,63 miliardi).

 

Alle risorse indicate, si aggiungono quelle rese disponibili dal REACT-EU che, come previsto dalla normativa UE, vengono spese negli anni 2021-2023 nonché quelle derivanti dalla programmazione nazionale aggiuntiva.

Il Piano prevede numerose riforme relative alla pubblica amministrazione, riforma della Giustizia, di semplificazione amministrativa e normativa, di tutela e promozione della concorrenza, riforma fiscale.

Le sei Missioni del Piano condividono priorità trasversali, relative alle pari opportunità generazionali, di genere e territoriali. Le riforme e le sei Missioni sono valutate sulla base dell’impatto che avranno nel recupero del potenziale dei giovani, delle donne e dei territori, e nelle opportunità fornite a tutti, senza alcuna discriminazione.

 

Alle soglie del sociale

L’approccio che permea il Piano fortemente orientato al cambiamento sembra che si fermi alle soglie del sociale e nei confronti delle persone che non possono essere inserite nel breve periodo nel mercato del lavoro o recuperate rapidamente nei processi formativi e nella vita sociale per lasciare spazio ad interventi sperimentali, di testimonianza e di attenzione in città socialmente ingovernabili e nei confronti di masse di esclusi. L’ambiziosa strategia di riforma che accompagna i primi due assi strategici (la digitalizzazione e la transizione ecologica) si affievolisce notevolmente nell’asse strategico Inclusione soprattutto nella Missione 5 (Componente C2 Infrastrutture Sociali, Famiglie, Comunità e Terzo Settore) e, in termini meno marcati, nella Missione 6 Salute nelle sue due componenti: la componente M6C1 Reti di Prossimità e la seconda componente M6C2 Innovazione, Ricerca e Digitalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale.

Il Piano riprende le linee essenziali della configurazione di welfare prevalente in Europa (il social investment welfare state) prevedendo un incremento degli asili nido e il potenziamento dei servizi educativi dell’infanzia, un rafforzamento delle misure attivanti le capacità delle persone, politiche per i giovani, politiche organiche di contrasto della non autosufficienza e di conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare. Il Piano lascia però immutati rilevanti aspetti assistenzialistici e residuali del settore sociale, non avvia modifiche profonde ai servizi esistenti e non affronta le criticità storiche del welfare italiano:

  • la frammentazione degli interventi;
  • l’elevata consistenza delle misure monetarie;
  • la frammentazione dei soggetti gestionali attuando e migliorando le disposizioni sull’obbligo di esercizio associato delle funzioni fondamentali dei Comuni, individuando forme associative adeguate ed evitando ulteriori deroghe alle attuali norme.

 

Per certi versi sembra che la scelta delle misure e degli interventi (i più innovativi, i più avanzati in Europa) sia stata fatta indipendentemente dalle priorità del settore sociale non commisurando adeguatamente le risorse finanziarie e organizzative alla complessità delle problematiche che si intendono affrontare (mi riferisco, in particolare, all’housing temporaneo, alla realizzazione di nuove strutture di edilizia pubblica, di rigenerazione urbana).

Anche ad una prima lettura del Piano emerge da una parte l’esigenza di modernizzare la società italiana superando squilibri economici e ambientali, dall’altra gli scarsi riferimenti alla qualità del lavoro, al livello medio delle retribuzioni, alle condizione di vita delle famiglie italiane, alla loro crescente precarietà economica e sociale. Si parla molto brevemente di contrastare il lavoro sommerso, di condizioni estreme ben individuate come le persone senza dimora, poco di povertà ma ancora meno di condizioni di vita molto più diffuse che coinvolgono la maggioranza delle famiglie italiane. In realtà, è la normalità delle posizioni lavorative che preoccupa. In queste stesse settimane la Banca d’Italia nella quarta edizione dell’indagine straordinaria sulle famiglie italiane (Banca d’Italia, 2021) ha rilevato che oltre il 60 per cento dei nuclei dichiara di avere difficoltà economiche ad arrivare alla fine del mese, 10 punti percentuali in più rispetto al periodo precedente la pandemia; la percentuale è aumentata di oltre 20 punti (al 65 per cento) per i nuclei il cui capofamiglia è un lavoratore autonomo.

 

Dal sistema integrato alla sommatoria di interventi

Nella Missione 4: Istruzione e ricerca, si rileva che l’Italia è il Paese con il più alto numero di NEET (Not in Education, Employment or Training) dell’Unione europea, il 27,8 per cento contro una media Ue del 16,4 per cento. Il tasso di abbandono scolastico raggiunge il 3,8 per cento nelle scuole secondarie di primo grado, dove è fortemente correlato a diseguaglianze reddituali. La percentuale di giovani compresi tra 18 e 24 anni che hanno un livello di istruzione non superiore a quello secondario di primo grado è, in Italia, del 14,5 per cento, mentre la media europea è pari al 10 per cento. Il superamento dei gap nelle competenze di base e la riduzione di alti tassi di abbandono scolastico richiedono un approccio integrato e la costruzione di reti collaborative fra le istituzioni. Ci sono chiaramente divari digitali che è necessario colmare, esigenze di riqualificazione dell’edilizia scolastica, di nuove aule didattiche e laboratori, ma, allo stesso tempo, non si può sottovalutare il contributo che possono assicurare le attività ordinarie della rete dei servizi sociali, la collaborazione fra i due sistemi nella prevenzione del disagio, lo scambio di informazioni e la definizione di percorsi di cura rispetto a forme evidenti o a condizioni più sfumate e iniziali di disagio.

 

Il Piano di Ripresa e Resilienza comunque inverte tendenze di questi ultimi anni alla riduzione delle risorse e non intende ridurre prestazioni e interventi a favore alle famiglie e alle persone più svantaggiate. Questo principio è chiaramente esplicitato in tutte le parti del documento.

Forse possiamo ricominciare partendo da una riflessione sulla organizzazione complessiva del sistema integrato dei servizi sociali. Il welfare italiano ha bisogno di una strategia ambiziosa che riordini complessivamente la materia così come previsto per la transizione ecologica e quella digitale, che avvii una progressiva ricomposizione in una strategia organica di infiniti interventi settoriali. Ciò che si ripropone a più di 20 anni dalle legge 328/2000 è la costruzione di un sistema integrato di servizi alla persona che individui attraverso norme puntuali soggetti gestionali solidi, ambiti territoriali di riferimento ampi e stabilmente strutturati al fine di affrontare organicamente vecchi e nuovi rischi sociali, per promuovere strategie di prevenzione e azioni collettive.

Il Piano può essere un contesto adeguato per avviare una riflessione sul complesso delle misure monetarie assicurate dallo Stato (pensione di invalidità, assegno mensile, indennità di accompagnamento, pensione ai ciechi assoluti, assegno sociale…) e sulla consistenza della rete dei servizi sociali assicurati a livello periferico. Nel 2018, ultimo anno disponibile, l’Istat nella sua ricerca annuale ha rilevato che la spesa dei Comuni italiani per i servizi sociali è stata pari a 7 miliardi e 742 milioni di euro. Le ricerche coordinate da Emanuele Ranci Ortigosa (2016) stimavano che nel 2016 le prestazioni monetarie erogate a livello nazionale erano superiori a 72 miliardi e ulteriori incrementi sono stati rilevati negli anni successivi (Ranci Ortigosa, 2018). La Corte dei conti rileva che nel 2020 la spesa complessivamente erogata dalle Amministrazioni pubbliche centrali esclusivamente per prestazioni assistenziali in denaro è risultata pari a 67,3 miliardi di euro, con un incremento annuo del 28,4 per cento rispetto al 2019 (Corte dei conti, 2021).

 

L’attuale rete dei servizi con difficoltà potrà svolgere un ruolo centrale nella progettazione e gestione delle ulteriori risorse e aree d’intervento che il Piano attribuisce ai Comuni, collaborare attivamente con il terzo settore. Mi riferisco, in particolare, ai previsti investimenti di rigenerazione urbana, volti a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale, ai Piani integrati urbani, agli interventi per combattere la povertà educativa.

La riforma della normativa sulla disabilità e la riforma del sistema degli interventi in favore degli anziani non autosufficienti non può essere anche questa volta semplicemente anticipata da interventi specifici come recita il Piano e agganciata soltanto alle risorse finanziarie previste dal Fondo disabilità e non autosufficienza (800 milioni per il triennio 2021-2023). Il welfare territoriale non ha bisogno di ulteriori linee di intervento frammentarie, finanziate con risorse non commisurate agli obiettivi stabiliti e da una moltiplicazione di fondi vincolati destinati in modo esclusivo a target circoscritti.

 

Il potenziamento dei servizi territoriali in un sistema sanitario dualizzato?

Il Piano riconosce il valore universale della salute, la sua natura di bene pubblico fondamentale e la rilevanza macro-economica dei servizi sanitari pubblici. La Missione 6 Salute dell’asse strategico Inclusione sociale prevede il potenziamento delle strutture e dei servizi sanitari di prossimità e dei servizi domiciliari, l’ammodernamento del parco tecnologico e digitale ospedaliero prevede l’ammodernamento del parco tecnologico e digitale ospedaliero, il potenziamento della dotazione di posti letto di terapia intensiva e semi-intensiva.

L’investimento più consistente è costituito dall’incremento delle prestazioni rese in assistenza domiciliare, dall’attivazione di 381 Ospedali di comunità e 1.288 “Case della Comunità”. L’investimento Casa come primo luogo di cura prevede il potenziamento dell’assistenza domiciliare, l’attivazione di 602 Centrali Operative Territoriali (COT), una in ogni distretto, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari e sociali assicurando, progetti di telemedicina al fine di promuovere un’ampia gamma di funzionalità (tele-assistenza, tele-consulto, tele-monitoraggio e tele-refertazione) lungo l’intero percorso di prevenzione e cura.

Il Piano non affronta aspetti strutturali non secondari del sistema sanitario italiano. Mi riferisco, in particolare, agli effetti che ha avuto la crescente dualizzazione nell’accesso ai servizi sanitari. In quest’ultimo decennio la maggioranza delle famiglie ha potuto contare su un sistema pubblico universalistico sempre meno efficiente e che ha garantito una copertura dei rischi sempre meno estesa. Le famiglie con redditi e condizioni lavorative soddisfacenti hanno potuto integrare le prestazioni pubbliche con assicurazioni private e con ulteriori benefici, quali il welfare aziendale, derivanti dalla loro posizione lavorativa. Il modello di riferimento delle trasformazioni auspicate da molte forze politiche e sociali è stato  quello adottato da anni da molte nazioni europee in cui il sistema pubblico ha subito di politiche di austerità molte severe mentre il sistema privato è stato favorito con politiche fiscali e condizioni normative favorevoli sui fondi assicurativi (OCSE; 2019; GIMBE, 2019).

Su questo aspetto, il Piano dovrebbe individuare più chiaramente la linea di sviluppo che intende privilegiare. Il Piano si limita a presentare i dati sulla spesa sanitaria out-of-pocket (prestazioni sanitarie direttamente a carico del paziente) pari a 35 miliardi senza prevedere una riduzione tendenziale della sua entità nell’arco temporale di riferimento. La quota dei pagamenti a carico dei pazienti nella spesa sanitaria è passata dal 21 % del 2009 al 23,5 % del 2017, una percentuale nettamente superiore alla media dell’UE, pari al 16 %. Nonostante la copertura completa per le prestazioni sanitarie di base, il 7% degli italiani segnala bisogni sanitari non soddisfatti per motivi di natura economica, geografica (distanze eccessive) o di attesa. Tale percentuale è superiore alla media europea (inferiore al 4 %) e negli ultimi anni ha riportato un aumento, risultando particolarmente elevata nella fascia di reddito più bassa: oltre il 15,0%, contro meno dell’1,5% nella fascia di reddito più elevata (OCSE, 2019).