3.6. Linee di azione per puntare a comunità in salute


Fulvio Lonati | 10 Settembre 2020

C’è stato un momento durante il quale ogni Mmg del territorio bresciano aveva in carico alcune decine di assistiti con sintomi Covid-19 compatibili: purtroppo senza dispositivi di protezione individuale, senza supporti organizzati, senza possibilità di prescrivere tamponi o altre indagini, senza possibilità di giungere ad una diagnosi esatta. Soprattutto senza indicazioni su come procedere, clinicamente e logisticamente.

 

Eppure in quella drammatica fase si sarebbe potuto disporre di un esercito, nel solo bresciano, di più di 800 medici e pediatri di famiglia che, anche in virtù della loro presenza capillare e della conoscenza dei propri assistiti nei loro luoghi di vita, se guidato, supportato e ben coordinato con gli altri attori, avrebbe potuto fare molto. A partire dalla possibilità di monitorare in tempo reale, in tutta la popolazione, l’evoluzione dell’epidemia. Con la segnalazione dei casi sospetti, i medici e pediatri di famiglia avrebbero potuto rappresentare una chiave di volta della sorveglianza epidemiologica se solo si fosse utilizzata in modo “sistemico” la piattaforma informatica per la segnalazione delle malattie infettive. E se, a livello nazionale, tutti i medici avessero segnalato i casi sospetti, e se tali segnalazioni fossero state razionalmente utilizzate, avremmo avuto, istante per istante, un quadro della situazione aggiornato.

Non solo. I medici di famiglia avrebbero potuto diventare oltre che “antenne epidemiologiche diffuse”, anche primi valutatori e orientatori all’interno di un disegno coordinato, primi attori di cure, primi pubblici ufficiali autorizzati a disporre la quarantena, primi formatori su quali comportamenti adottare. Ma andavano guidati, supportati, coordinati.

 

Invece, in Lombardia si è dato per scontato che ciascun medico di famiglia dovesse arrangiarsi: si è lasciato che ciascuno potesse, e dovesse, trovare da sé la strada per dare risposte coerenti.

Peraltro, qualcosa di analogo è accaduto anche per le farmacie e, ancor più, nelle Rsa: si è lasciato, anzi si è preteso, che ciascuna struttura potesse, e dovesse, trovare da sola le modalità corrette per affrontare la “propria” epidemia.

 

Che cosa non ha funzionato?

È mancata una “regia di sistema”!

E, non riconoscendo le potenzialità dei servizi territoriali, questi sono stati abbandonati, puntando solo sull’ospedale, o meglio, sui livelli specialistici di maggior intensità di cura. Ovviamente, essendo questa l’unica risposta strutturata, “l’imbuto non poteva che intasarsi”.

 

Quanto accaduto stride in particolare nel contesto bresciano dove, per anni, si era andata sviluppando una comunità professionale con medici di famiglia ai quali si chiedeva sì di curare bene i singoli assistiti, ma soprattutto, di essere i primi responsabili della salute nell’insieme della popolazione affidata.

Infatti, era andata maturandosi un’esperienza atipica1, rimasta incistata nel bresciano nonostante i tentativi di diffonderla, in cui l’Ordine dei Medici come gli specialisti invitavano ai loro convegni l’azienda sanitaria e i Mmg perché portassero, anche con i loro dati locali aggiornati, le loro valutazioni ed esigenze; i Mmg erano al contempo relatori e discenti, insieme agli specialisti e ad altre figure professionali, dei loro eventi formativi, strutturati in piani annuali preventivamente concordati e diretti dall’azienda sanitaria, realizzati con iniziative replicate in più edizioni in modo da raggiungere la maggioranza degli operatori; medici e pediatri di famiglia estraevano automaticamente (qualcosa ovviamente rimane tuttora) dati clinico-gestionali dai loro archivi informatici e li trasmettevano periodicamente, anonimizzati, all’azienda sanitaria locale che li assemblava e li elaborava per produrre ritorni informativi personalizzati a ciascun medico, che se ne avvaleva per l’audit individuale e per il confronto tra pari in piccoli gruppi di miglioramento a livello di  ogni Distretto sociosanitario; gli strumenti di indirizzo professionale ed organizzativo, come i Percorsi Diagnostico terapeutico assistenziali territorio-ospedale, erano prima definiti collaborativamente, poi approvati dalle rappresentanze sindacali e dalle direzioni sanitarie delle strutture pubbliche e private, quindi implementati con apposite iniziative formative, infine verificati a posteriori circa l’attuazione e la ricaduta in termini di salute2; inoltre, i Mmg, per i malati con compromissione dell’autonomia o con bisogni assistenziali complessi, si avvalevano di un punto unico distrettuale di valutazione multidimensionale e accesso ai diversi servizi locali (Sad, Adi, Cdi, Rsa, Cdd, Rsd,…)3.

Risultato: mentre la spesa farmaceutica e il ricorso al ricovero si erano progressivamente ridotti, la presa in carico dei malati cronici era andata crescendo rapidamente raggiungendo, in modo documentato, i livelli attesi dalla letteratura. Con un diffuso consenso dei Mmg.

 

In sintesi, si era venuta a creare una condizione per cui ciascuna componente, ovviamente con qualche eccezione, si sentiva parte del sistema, non “controparte”: la parola d’ordine, “governo clinico”, stava ad indicare che ogni operatore è invitato ad operare bene non solo nei confronti del singolo, ma ad avere anche una visione di sanità pubblica, ovvero sia capace di valutare, sulla base di quanto registrato informaticamente durante la pratica quotidiana, se l’insieme degli assistiti affidati raggiunge i risultati attesi in termini di: prevalenza di cronici individuati e presi in carico sistematicamente; disponibilità di dati di processo; riscontro di buona pratica clinica; risultati di salute, nei singoli e nell’insieme.

Ciò avveniva con una contestualizzazione territoriale ben definita, un Distretto sociosanitario di 50-100.000 abitanti, punto di riferimento e integrazione per tutti i servizi territoriali: per pediatri e medici di famiglia e di continuità assistenziale, per le farmacie e le “protesiche”, per la specialistica ambulatoriale, per la rete dei servizi per anziani, disabili e malati con bisogni complessi.

 

Quali gli ingredienti di questa formula che appariva, pur tra le criticità che ovviamente permanevano, vincente?

L’azienda sanitaria locale, a fianco dell’adempimento dei compiti istituzionali-amministrativi, si era posta come regista dell’insieme dei servizi. Elemento ispiratore: l’unitarietà degli interventi attorno all’assistito, specie quando necessita di cure prolungate nel tempo e/o di diverse prestazioni contemporanee, può essere garantita solo se, a monte, l’organizzazione complessiva è guidata nel promuovere soluzioni non parcellari, ma organicamente integrate e coinvolgenti le diverse componenti. Con tale orientamento, l’azienda sanitaria locale si è trovata nella posizione baricentrica per promuovere la reciproca interazione e guidare il miglioramento consensuale e continuo dei diversi nodi e delle molteplici professionalità presenti, attribuendo alle cure primarie, organizzate in forma interdisciplinare e dipartimentale, il compito di cerniera. Un’azienda sanitaria locale che aveva quindi puntato sulla valorizzazione delle professionalità e sull’alleanza con gli operatori: coinvolgere i diversi professionisti nel processo di governo clinico, chiamandoli a rendersi protagonisti consapevoli, responsabili – e orgogliosi- del miglioramento continuo della qualità dei loro servizi e degli standard sanitari raggiunti, in modo da garantire i migliori risultati a fronte di un uso oculato delle risorse.

 

La positiva esperienza bresciana però non si è andata diffondendo: regione Lombardia non l’ha mai sostenuta, non essendo sintonica alle sue linee programmatiche, e l’ha sopportata, in considerazione dei risultati raggiunti e del diffuso consenso locale; anche i sindacati dei Mmg (a parte quelli bresciani, che invece chiedevano il rafforzamento ed un maggiore riconoscimento del “governo clinico”, di cui andavano fieri) non l’hanno sostenuta, perché si basava sul rendere trasparente e visibile, nel bene e nel male, il lavoro del Mmg.

L’esperienza positiva bresciana si sta quindi progressivamente perdendo, soprattutto dopo la riforma del Ssr Lombardo del 2015, che ha portato alla spartizione delle ex Aziende sanitarie locali in Agenzie di Tutela della salute di “programmazione-acquisto-controllo” (Ats) e Aziende sociosanitarie territoriali (Asst), aziende pubbliche, da sole, in competizione con la ricca e composita schiera degli altri “enti erogatori accreditati e a contratto”. L’Ats si è rivelata essere non adatta per un effettivo governo locale, mentre le Asst, cui la legge regionale ha assegnato anche funzioni di coordinamento locale senza però attribuirne corrispondenti strumenti, di fatto è incentivata solo ad “erogare prestazioni”, ben al di fuori di una prospettiva di salute pubblica. Cioè, nessuno degli “enti erogatori”, pubblici o privati, sono orientati ed incentivati a muoversi in una prospettiva di salute pubblica.

 

Nel contempo si sono sviluppate macro-organizzazioni con una visione da “supermercato sanitario”, incapaci di agire tramite servizi radicati nelle comunità locali. I pochi Distretti che erano riusciti a sopravvivere -come quelli bresciani- sono in progressivo smantellamento. Si è cercato di sostituirne le funzioni puntando su grandi realtà gestionali -centri servizi polivalenti, pervasivi laboratori analisi, poliambulatori “totitpotenti”, reti distribuite di attività sanitarie o socio-sanitarie a chiaro fine di lucro- che potessero garantire “economie di scala” e costi “competitivi”; e si va così perdendo il legame con le comunità locali. Persino le cooperative dei medici di medicina generale, promosse fortemente dalla regione Lombardia per la “Presa in carico dei cronici”, sono state completamente sradicate dai Distretti, travalicano addirittura le provincie in una logica di competizione mercantile: ne consegue che nello stesso comune, anche piccolo, puoi trovare medici di famiglia aderenti a 3-4 differenti cooperative, ciascuno forse collegato ad altri colleghi lontani, ma senza legami con gli attori della propria comunità. Non si è voluto vedere il territorio, o meglio la comunità locale, come luogo di integrazione, di prevenzione, di soluzione dei problemi. Ad esempio, è ben lontana l’idea che lavorare per avere punti di ritrovo accoglienti possa favorire dimissioni precoci dalle strutture riabilitative della salute mentale. O che il contrasto alle dipendenze e il controllo del bullismo possa trovare validissimi alleati nei centri di aggregazione giovanile, nelle attività sportive, cioè in una rete di attività e riferimenti. Il Distretto sociosanitario sarebbe di grande aiuto.

 

Paradossalmente, proprio quanto accaduto in Lombardia – tanto più con l’insegnamento che possiamo trarre dalla vicenda Covid-19 – può forse aiutarci a capire quali strade sono da evitare per puntare a “comunità in salute”.

  1. C. Scarcella, F. Lonati, Governo Clinico e Cure primarie, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN), 2010
  2. Vedi anche i seguenti link: Pdta Diabete – Asl Brescia; Pdta Scompenso Cardiaco – Asl Brescia; Pdta Bpco – Asl Brescia; Pdta Ipertensione – Asl Brescia
  3. C. Scarcella, F. Podavitte, M. Trabucchi, Strategie per la fragilità, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN), 2010

Commenti

L’analisi della realtà è molto lucida e mostra tutte le debolezze e le distorsioni del sistema sanitario regionale dovute a queste politiche scellerate. La legge di riforma è fallita ma nessuno dei politici lo vuole ammettere assumendosene la responsabilità, continuando imperterrito sulla strada intrapresa,senza fare i conti con gli effetti devastanti che tale paradigma produce giorno dopo giorno, nonostante l’evidenza dei fatti lo dimostri. Del resto, se gli interessi in gioco sono quelli descritti, è del tutto velleitario sperare in un cambiamento di rotta che dovrebbe trovare linfa vitale nelle proposte sapienti e lungimiranti come quelle contenute nell’articolo di Fulvio Lonati.