La pandemia ha messo a nudo gli elementi di maggiore fragilità e inefficienza del nostro sistema sanitario e assistenziale, tra questi in particolare il complesso dei servizi territoriali, dall’igiene pubblica alle cure primarie, alla medicina di famiglia. L’assenza di un filtro territoriale che identificasse i casi, i conviventi e i contatti (l’ABC della sanità pubblica), intervenendo e curando a domicilio e inviando solo quando necessario in ospedale, ha disorientato la popolazione, ha messo nel panico i pazienti e ha prodotto alla fine il collasso degli ospedali.
“I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di patient-centered – ha scritto un gruppo di medici ospedalieri di Bergamo. Ma un’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un approccio community-centered care. Stiamo dolorosamente imparando che c’è bisogno di esperti di salute pubblica ed epidemie.”
In queste terribili settimane tutti hanno potuto constatare quali danni hanno causato il sotto-finanziamento del SSN e la totale disattenzione nei confronti dei servizi territoriali. “Se non avessimo tagliato tanto la spesa sanitaria – si legge sul Corriere della Sera – non saremmo stati costretti a misure che rischiano gravi effetti, economici, politici e sociali, che ancora ci sfuggono. Con dotazioni simili, ad esempio, alla Germania, non avremmo dovuto fermare tutto così a lungo, per non far morire la gente per mancanza di spazi, persone, attrezzature”1.
Le falle più grosse nel sistema sanitario si sono mostrate in Lombardia, particolarmente nelle province di Bergamo e Brescia, con i più alti i livelli al mondo di mortalità da Covid-19. E il mondo è rimasto ammutolito nel vedere un disastro del genere verificarsi in una regione così ricca di denaro, di imprese e di strutture sanitarie. “Perfect storm: Virus disaster in Italy’s Lombardy region is a lesson for the world” (“La tempesta perfetta: il disastro dell’epidemia nella regione italiana della Lombardia è una lezione per il mondo”): questo il titolo di un articolo pubblicato il 26 aprile sul Los Angeles Times in cui, tra l’altro, si legge: “Healthcare deficiencies collided with political and business interests to expose Lombardy’s 10 million people to COVID-19 in ways unseen anywhere else, particularly the most vulnerable in nursing homes.” (“Le carenze dell’assistenza sanitaria si sono aggiunte agli interessi politici e commerciali al punto di esporre 10 milioni di cittadini lombardi all’epidemia di Covid-19 in una misura mai vista altrove, in particolare i più vulnerabili nelle residenze per anziani”).
Le falle dell’assistenza territoriale della Lombardia sono ben descritte sul Corriere per la penna di Milena Gabanelli e Milena Ravizza: “Intanto la Regione Lombardia abdica al ruolo di sorveglianza dei contagi sul territorio, dove è cruciale rintracciare e accertare un’eventuale positività dei cittadini a rischio, perché vicini a colleghi di lavoro e familiari ammalati. Per loro non è sempre previsto il tampone, e i contatti stretti troppo spesso non sono neppure chiamati dalle Asl (ora Ats) per il monitoraggio della quarantena. La rete dei medici di base e dei distretti, cruciale nell’intercettare un paziente all’esordio dei sintomi ed evitare che degenerino, è stata smontata nel corso degli anni. L’arrivo in ospedale di casi già troppo gravi scandisce i racconti delle cronache lombarde degli ultimi 50 giorni. I medici di base sono lasciati andare allo sbaraglio per settimane intere: chi segue scrupolosamente i pazienti lo fa rischiando la vita (e spesso rimettendocela), gli altri lasciano i malati a loro stessi, con il consiglio dei virologi di prendere la tachipirina e restare a casa. La delibera che dà indicazioni precise sulla gestione territoriale del Covid-19 è del 23 marzo, un mese dopo il focolaio di Codogno. Per le visite domiciliari vengono costituite le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale): una squadra di medici ogni 50 mila abitanti. Duecento per la Lombardia: ancora oggi quelle attive sono solo 37”.
In Lombardia è nota la desertificazione dei servizi territoriali, pianificata da tempo e realizzata con assoluta determinazione. Ma la fragilità e l’inefficienza del “territorio” messe così drammaticamente in luce dalla pandemia, non riguardano solo la Lombardia, sono una questione nazionale. Una questione che non si risolve iniettando un po’ più di risorse, che pure sono necessarie. Perché si tratta di porre rimedio allo stato di arretratezza culturale e scientifica di cui soffre l’intero settore delle cure primarie e al suo interno, in particolare, l’ambito della medicina generale. Il rafforzamento del “territorio” è quindi un tema estremamente complesso perché coinvolge una grande molteplicità di attori e di interessi, al momento difficilmente allineabili. Comporli per il raggiungimento di un fine comune – il miglioramento del servizio sanitario pubblico – richiede tempo, molto tempo probabilmente. Il tempo necessario per consentire un dibattito approfondito, aperto e franco tra tutte le parti in causa, inclusa la parte più interessata, i cittadini.
Per questo è necessario distinguere tre fasi nell’opera di rafforzamento: di breve, medio e lungo termine.
- Nel breve termine è tanto necessario quanto urgente mettere il “territorio” nelle condizioni di far fronte alla Fase 2 che significa: a) garantire l’assistenza ai casi della coda della Fase 1 (nuovi casi, si spera pochi; i dimessi dall’ospedale; il controllo di quelli in quarantena) e b) trovarsi preparati in presenza di una seconda ondata dell’epidemia. Ora non basta mettere a regime in tutte le regioni, potenziandole, le Unità speciali di continuità assistenziale (USCA), bisogna mettere in piedi al più presto l’organizzazione per il tracciamento “manuale” dei contagi per prevenire la seconda ondata, evitando lo sviluppo di nuovi focolai incontrollati dell’epidemia. Per questo intervento serve molto personale: medici igienisti, assistenti sanitari, educatori professionali, ma si può attingere anche agli specializzandi e agli studenti di varie discipline (medicina, infermieristica, etc). “Serve un esercito, afferma l’epidemiologo Alessandro Vespignani. Serve una determinazione ossessiva e spietata. Io in Italia oggi questo esercito non lo vedo. C’è un’eccezione, il Veneto, che è riuscito a contenere i contagi proprio grazie ai test massicci mirati. Poi bisogna darsi da fare per il tracciamento. Appena sei positivo c’è qualcuno che ti chiama e ti chiede: “Quante persone hai visto? E chi sono?”. E poi si chiamano, si isolano e si seguono anche quelli. Le persone isolate, però, non vanno lasciate sole: si devono monitorare, misurare (livelli di ossigeno, febbre, etc), assistere in modo che non debbano uscire di casa per le necessità fondamentali. L’isolamento, inoltre, non può essere fatto in casa, che altrimenti diventa un nuovo focolaio di infezioni, ma in alberghi, caserme o qualsiasi altra struttura deputata. La app da sola inoltre non può bastare – prosegue Vespignani – deve essere il supporto tecnologico di un’attività che richiede tantissimo personale dedicato. Serve una tutela a distanza che non si può realizzare solo con un algoritmo o con le faccine sul telefonino. Lei se lo immagina uno che si alza la mattina e tutto tranquillo si autoisola perché lo schermo del telefonino gli diventa rosso? Magari sono un padre e ho una famiglia da far campare. Magari sono un precario e devo uscire. In gran parte d’Italia le persone sono state lasciate sole: «Sono isolato a casa, in quarantena, non faccio il tampone, nessuno sa come sto, e poi magari chiamo la Asl che non mi risponde perché ha tante telefonate – conclude Vespignani -. Folle». Nel Regno Unito, come in Italia, si sta discutendo della app per il contact-tracing, ma intanto loro si affidano saggiamente al metodo manuale reclutando 18 mila operatori sanitari, come riferisce un articolo del Financial Times del 24 aprile. Perché – come afferma Jason Bay, l’ideatore dell’app TraceTogether, sviluppata a Singapore – : “Se mi chiedi se un sistema di tracciamento dei contatti Bluetooth implementato o in fase di sviluppo in qualsiasi parte del mondo è pronto a sostituire la contact-tracing manuale, dirò che la risposta è no, non ora e neanche per il prossimo futuro”.
- Nel breve-medio termine è necessaria la profonda riorganizzazione delle cure primarie e della medicina di famiglia. Anche qui – come nel caso del Piano pandemico nazionale, lasciato ammuffire negli scaffali del Suo Ministero – c’è un Piano prodotto dal Suo Ministero che da quattro anni aspetta di essere attuato. Si tratta del Piano nazionale cronicità che si occupa proprio della riorganizzazione del “territorio”, dove deve avvenire la presa in carico delle persone affette da patologie croniche. Il Piano indica le strategie d’intervento e il modello assistenziale, basato sulla sanità d’iniziativa il cui principio cardine è la costituzione di team multidisciplinari (medici di famiglia, infermieri, specialisti, operatori sociali) con lo scopo di identificare e trattare precocemente i problemi di salute della popolazione, per prevenirne o ritardarne l’aggravamento. A ben vedere una simile organizzazione, ideata per far fronte all’epidemia di malattie croniche, è quella che ci vuole anche per affrontare l’attacco di un’epidemia infettiva.
- E ora veniamo alla parte più difficile e spinosa, quella che richiederà più tempo: il rinnovamento culturale e scientifico delle cure primarie e della medicina di famiglia. Quando ho parlato di “arretratezza culturale e scientifica” so bene di aver suscitato l’indignazione di molti miei colleghi (ho fatto il medico di famiglia per diversi anni). Ne conosco tanti che studiano e si aggiornano, che fanno tesoro della loro esperienza, che si prendono cura per anni e con successo della salute dei loro assistiti, che praticano il “metodo incrementale” ben descritto da Atul Gawande nel suo libro “Il medico che ti salva la vita”. Ma una disciplina non si può basare sulla buona volontà, la vocazione, talvolta il genio di singoli individui. La verità è che le basi professionali della medicina di famiglia di oggi sono ancora quelle del medico della mutua. Così mentre in tutto il mondo la medicina di famiglia (Family medicine in USA, General Practice in UK) – dagli anni 70-80 del secolo scorso – diventava una specializzazione accademica, con il naturale supporto di quotate riviste internazionali e di autorevoli società scientifiche, in Italia nello stesso periodo storico si optava per un surrogato di formazione in medicina generale, svolto al di fuori dell’università, gestito autoreferenzialmente dai medici di medicina generale (MMG), a livello regionale. Per responsabilità distribuite equamente tra sindacati dei MMG, università (disattenta a tutto ciò che orbita fuori dell’ospedale) e politica (disattenta a tutto ciò che non riguardi il consenso immediato), i giovani medici che vogliono prepararsi alla professione di medico di famiglia sono due volte penalizzati: a) perché ricevono una formazione nel migliore dei casi mediocre e priva di qualsiasi stimolo alla ricerca e all’innovazione; b) perché in termini economici le loro borse di studio sono la metà di quelle che vengono erogate agli specializzandi universitari.
In questo contesto alquanto degradato non deve stupire la recente notizia (23 aprile) di un protocollo d’intesa di prospettiva triennale siglato tra Sanofi, multinazionale del farmaco, Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie (Simg) e Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (Fimmg). “Attraverso la sottoscrizione di questo accordo – ha commentato Claudio Cricelli, Presidente Simg – stiamo contribuendo a costruire le basi per una revisione sostanziale del Sistema Sanitario, del ruolo delle singole professioni e delle relazioni tra professionisti, autorità sanitarie e tutti gli attori che compongono il mondo della salute”. L’accordo – ha spiegato Silvestro Scotti, Presidente Fimmg – “aiuterà a considerare anche la variazione dei modelli di offerta di salute e di evoluzione dello stesso rapporto medico paziente nella medicina generale”. Infine Marcello Cattani, Direttore Generale di Sanofi in Italia, ha dichiarato: “Siamo felici di poter annunciare la sottoscrizione di questo protocollo d’intesa che ci vedrà coinvolti in un’inedita alleanza a tre nel fronteggiare le trasformazioni necessarie e le sfide che il nostro Sistema Sanitario dovrà affrontare già nell’immediato futuro”.
Che i rapporti tra sindacati/società della medicina generale e industria del farmaco fossero molto stretti non è una novità, ma non si era mai arrivati a un accordo tra le parti finalizzato a una revisione sostanziale del Sistema Sanitario, inclusa la formazione dei futuri medici di famiglia. Per questo motivo un nutrito gruppo di giovani medici di famiglia del Movimento Giotto e della campagna PHC Now or never ha sentito la necessità di contestare questa inaudita alleanza strategica tra professionisti e industria del farmaco rivolgendosi ai Presidenti degli Ordini dei medici con una lettera che esordisce così: “Gentile Presidente e Collega, Ti scrivo per esprimere una sincera e profonda preoccupazione di cui sento un dovere etico-professionale di condivisione: riguarda l’indipendenza della formazione presente e futura in Medicina Generale”. E si conclude con questa denuncia: “Inoltre, nell’articolo si dichiara testualmente che “Attraverso la sottoscrizione di questo accordo, stiamo contribuendo a costruire le basi per una revisione sostanziale del Sistema Sanitario, del ruolo delle singole professioni e delle relazioni tra professionisti, autorità sanitarie e tutti gli attori che compongono il mondo della salute”. Mi chiedo se tale dichiarazione riportata dalla testata sia veritiera perché in tal caso essa minerebbe in modo esplicito i principi fondativi della nostra professione che deve essere condotta “in scienza e coscienza”, e pertanto dovrebbe essere respinta con forza da codesta FnomCeO in qualità di garante dei fondamenti etici della nostra professione”2.
Un silenzio imbarazzato e imbarazzante ha accolto le tantissime lettere – sotto forma di mail-bombing – che sono giunte ai Presidenti degli ordini professionali. Ma il malumore deve essere montato, e forte, all’interno della “categoria” se dopo qualche giorno Cricelli&Sanofi – con due note quasi identiche pubblicate su Quotidiano Sanità sono stati costretti a fare una repentina retromarcia: non più accordo strategico per “costruire le basi per una revisione sostanziale del Sistema Sanitario”, ma solo “una lettera di intenti senza valore vincolante e contrattuale che ha come obiettivo di sviluppare progetti di formazione ECM sulle principali patologie croniche e sui relativi fattori di rischio”.
Conclusioni
Tutti si sono resi conto della necessità del potenziamento e riorganizzazione della rete assistenziale territoriale, e infatti nella bozza del Decreto Rilancio alla voce “Disposizioni urgenti in materia di assistenza territoriale” si prevede che “le Regioni adottino piani di potenziamento e riorganizzazione della rete assistenziale territoriale, per un monitoraggio costante e ad un tracciamento precoce dei casi e dei contatti, al fine della relativa identificazione, isolamento e trattamento. Dovranno essere incrementate le attività di sorveglianza attiva e di monitoraggio presso le residenze sanitarie assistite e le altre strutture residenziali.”
Ecco: il potenziamento riguarda la prima fase del rafforzamento dei servizi territoriali. Niente si riesce ancora a dire su tutto il resto, lasciando così a Cricelli&Sanofi un preoccupante spazio di manovra. Se ne sono perfettamente resi conto i giovani medici di famiglia che si battono per un profondo rinnovamento della loro professione, a partire dalla formazione. E che si sono ribellati a quella manovra. Questo è un elemento di enorme novità che i politici dovrebbero considerare con grande attenzione e coraggio.
- Bragantini S, Cosa si impara dai tagli alla sanità, Corriere della Sera, lunedì 4 maggio, p. 32.
- Il testo della lettera dei giovani MMG Preoccupazione per l’indipendenza della formazione in Medicina Generale.
Il medico di famiglia deve sentirsi il REGISTA della cura della persona che a lui si affida e che sarà visto e seguito da Specialisti con i quali lui deve PARLARE e raccordarsi.
Per la presa in carico del Paziente può farsi aiutare anche da un Assistente Sociale (Il professionista della presa in carico globale del paziente).