1.2. Emergenza coronavirus e transizione epidemiologica


Stefano Neri | 28 Luglio 2020

Entrati ormai nella fase 2 della pandemia, il Servizio Sanitario Nazionale sembra uscito dall’emergenza. Vale così la pena di riflettere su quanto accaduto e di cominciare a ragionare sulla riorganizzazione del sistema sanitario, in previsione non solo di una possibile “seconda ondata” del contagio, ma anche e soprattutto di nuove epidemie nel futuro.

 

Tra febbraio e marzo la prima esplosione dei contagi mise in evidenza l’inadeguatezza del nostro sistema sanitario a fronteggiare la pandemia. In Lombardia e in parte anche in altre Regioni del Nord, i posti letto negli ospedali e nelle terapie intensive arrivarono al limite della loro capienza o si dimostrarono insufficienti a rispondere al massiccio afflusso di pazienti, anche per l’incapacità dell’assistenza territoriale di intercettarli e di contenere il numero dei casi di maggiore gravità.

Questa situazione fu attribuita principalmente alla limitatezza delle risorse del SSN, spolpato da un decennio di restrizioni e di tagli, inferti ad un sistema che presentava già una dotazione di risorse e un livello di spesa decisamente bassi. Alcune cifre sono in effetti eloquenti.

 

Se consideriamo i più grandi paesi europei, nel 2018 la spesa sanitaria pubblica pro capite era pari a 2545 dollari, poco più della metà di quella della Germania (5.056 dollari), molto inferiore anche a quella della Francia (4.141 dollari) e più bassa anche del Regno Unito (3.138 dollari). Solo la Spagna aveva un livello di spesa sanitaria pubblica pro capite inferiore al nostro (2341 dollari). Nel 2017, i posti letto per acuti (escludendo riabilitazione e lungodegenza) erano 3,2 per 1000 abitanti, un valore molto più basso di Germania (8,0), Francia (6,0) e più alto invece di quello di Regno Unito (2,5) e Spagna (3,0). Anche il personale sanitario risultava assai carente, soprattutto negli infermieri, il cui numero di 5,8 per 1.000 abitanti era molto inferiore a quello di Germania (12,9), Francia (10,5) e anche Regno Unito (7,8), ponendosi solo poco sopra la Spagna (5,7) (OECD health data; vedi anche Vicarelli e Pavolini, 2015).

 

In condizioni di “normalità”, un sistema dotato di risorse così limitate riusciva ancora a fornire un contributo significativo al conseguimento di risultati apprezzabili in termini di salute della popolazione, seppure con difficoltà sempre più evidenti e con forti diseguaglianze sociali e territoriali (Giarelli, 2017; Sarti, 2017). Esso tuttavia si fondava su un equilibrio sempre più fragile tra la domanda di prestazioni sanitarie e l’offerta di servizi.

Allo scoppio della pandemia, questo equilibrio si è rotto nel modo più drammatico. Oltre che in Italia, la rottura è stata particolarmente grave in paesi come Spagna e Regno Unito, che venivano da un decennio di politiche di austerità, a causa delle crisi finanziarie del 2010-11 o di scelte politiche ben precise, come nel caso inglese. Questi paesi, volenti o nolenti, si sono affidati alle capacità di programmazione e di uso “parsimonioso” (Klein, 2006) ma efficace delle risorse tipico dei servizi sanitari nazionali, in qualche modo visibili anche nel nostro sistema sanitario.

Tuttavia, nell’emergenza della pandemia i paesi dotati di servizi sanitari nazionali sono risultati svantaggiati rispetto ad altri, come la Francia e la Germania, caratterizzati da sistemi sanitari mutualistici. Questi sistemi sono tradizionalmente meno in grado di governare domanda e offerta di prestazioni e di contenere la spesa sanitaria. Però tale caratteristica, solitamente negativa, ha messo a disposizione di questi paesi un livello di risorse (finanziarie, strutturali, umane) che sono state essenziali per contenerne la diffusione del contagio entità e, soprattutto, il numero di casi più gravi e di decessi. Quello che in altri tempi poteva essere uno spreco di risorse è diventato invece una riserva essenziale cui attingere nel momento del bisogno. L’Italia, la Spagna ma anche il Regno Unito non hanno potuto contare su questa riserva, dovendo così ricorrere invece a politiche di razionamento delle risorse che, stando a quanto si è letto sui giornali, hanno posto gli operatori anche davanti a scelte drammatiche (“A chi diamo il ventilatore?” Quali pazienti intubiamo”?).

Il concetto di slack o di ridondanza organizzativa deve essere quindi rivalutato, ponendosi come un criterio fondamentale di definizione degli stanziamenti di risorse e di pianificazione degli investimenti nel SSN per il futuro. Del resto, i pianificatori inglesi degli anni ’50 e ’60 avevano bene in mente il concetto, quando valutavano che la programmazione delle risorse a disposizione del National Health Service dovesse prevedere una quota di riserva per fronteggiare le cosiddette “winter crisis”, ossia le crisi di sovraffollamento degli ospedali per patologie respiratorie nel corso dei freddi inverni britannici.

La ridondanza di risorse a disposizione di alcuni sistemi sanitari è risultata poi decisiva per ridurre i danni causati dall’impreparazione a rispondere all’esplosione di un’epidemia provocata da una malattia altamente infettiva, da parte di sistemi sanitari ormai strutturati per far fronte per lo più ad altri tipi di patologie. Vale la pena di soffermarsi su quest’ultimo punto, abbastanza trascurato nel dibattito corrente.

 

Negli anni ’80 e  ’90 del Novecento, in Italia è avvenuta una “transizione epidemiologica” (Omran, 2005), che ha portato in tutti i paesi occidentali al drastico calo dell’incidenza delle malattie infettive, con la “remissione” delle pandemie, sostituite come cause più importanti di morte dalle patologie cardio-circolatorie e cronico-degenerative. Ad esempio, nel 2017 in Italia la causa principale di morte sono state le malattie del sistema circolatorio (con un tasso standardizzato di 30,31 decessi per 10.000 abitanti) e i tumori (25,04), seguiti a distanza dalle malattie del sistema respiratorio (6,03 per 10.000 abitanti, di cui quasi la metà per malattie croniche delle basse vie respiratorie), dalle malattie del sistema nervoso (4,04) come il morbo di Parkinson e di Alzheimer e dalle patologie endocrine, nutrizionali e metaboliche (3,92) tra cui il diabete. Le malattie infettive hanno invece avuto un’incidenza molto minore sulla mortalità, per quanto i decessi per polmonite (1,74 per 10.000 abitanti) siano da tempo in aumento (Istat datawarehouse).

 

Negli ultimi decenni il sistema sanitario italiano, come quello degli altri paesi occidentali e avanzati, si è trasformato e, con molte carenze, attrezzato per adeguarsi a tale nuovo quadro epidemiologico. In particolare, la prevalenza di patologie croniche, che possono essere curate per lo più in ambito domiciliare e ambulatoriale, ha favorito e giustificato la chiusura e riconversione di numerose strutture ospedaliere, soprattutto di piccole dimensioni. Tra il 1980 e il 2000 i posti letto per acuti per 1.000 abitanti sono passati da 9,6 a 4,7, fino al valore di 3,2 nel 2017 (OECD, 2020). La de-ospedalizzazione è stata favorita dal progresso tecnologico, che ha reso possibile l’effettuazione in ambulatorio, a domicilio o in day hospital di prestazioni una volta erogabili solo mediante ricovero ospedaliero ed è stata inoltre motivata dalla volontà di garantire la qualità delle prestazioni non sempre assicurata nei piccoli ospedali (Neri e Turati, 2011).

La de-ospedalizzazione, tuttavia, ha sguarnito il territorio, penalizzando soprattutto i piccoli centri e le cosiddette “aree interne”. In molte Regioni lo smantellamento delle strutture ospedaliere non è stato accompagnato dalla creazione o dal rafforzamento di servizi di assistenza territoriale e domiciliare, di quantità e qualità adeguata ai bisogni della popolazione, in particolare per il governo delle patologie croniche. Troppo spesso infatti tali servizi sono stati sacrificati sull’altare delle politiche di austerità.

 

Dove invece, in questi anni, i distretti sanitari delle ASL, la medicina generale e le cure primarie sono state valorizzate, esse sono risultate essenziali per il contenimento della pandemia. Infatti la rete di servizi sul territorio è stata riconvertita abbastanza agevolmente al governo dell’emergenza coronavirus, come è parso evidente nei casi del Veneto e dell’Emilia-Romagna. Nel caso lombardo, invece, la separazione tra la funzione di produzione di servizi, affidata totalmente alle ASST (le ex-Aziende ospedaliere), e quella di committenza “pura” attribuita alle ATS (ex-ASL), promossa fin dalle riforme del 1996-97 e completata nel 2015 (anche con la creazione di un’agenzia regionale di controllo), hanno ostacolato l’assunzione del ruolo “di prima frontiera” di fronte all’epidemia, da parte del territorio.  Il “quasi-mercato” lombardo (si veda Neri, 2011) ha certamente favorito la costruzione di un sistema ospedaliero, pubblico e privato, di alto livello, e di un sistema sanitario efficiente sul piano gestionale, ma ha finito per relegare l’assistenza territoriale e la medicina generale in una posizione di secondo piano e di netta subordinazione agli ospedali, indebolendole fortemente nel corso del tempo. La riconversione del territorio al governo dell’emergenza degli ultimi mesi è risultata così molto meno efficace. La natura del sistema lombardo è emersa chiaramente dalle prime reazioni, si può dire “istintive”, all’esplosione dell’epidemia: per quanto tutte le Regioni abbiano potenziato le terapie intensive, non è infatti un caso che la Regione Lombardia abbia puntato, a livello sostanziale ma ancor più di immagine, soprattutto sulla costruzione dell’ospedale anti-covid nei padiglioni della Fiera di Milano (e quindi sull’ulteriore rafforzamento dell’assistenza ospedaliera).

 

Al di là dei sistemi regionali, queste brevi note suggeriscono alcune indicazioni sul modo in cui investire le risorse promesse per il futuro. Ciò, naturalmente, volendo credere che gli interventi di potenziamento del sistema sanitario approvati negli ultimi due mesi, di fronte all’emergenza, siano solo il preludio ad un innalzamento stabile e duraturo del livello di finanziamento del SSN.

Il sistema dei servizi sanitari, infatti, dovrà in qualche modo tenere conto di un mutamento parziale del quadro epidemiologico che rischia di valere non solo per quest’anno, ma anche per il futuro. Se la prevalenza delle patologie cardiovascolari e tumorali non sembra messa in discussione, nuove epidemie rendono possibile una ripresa non episodica dell’incidenza delle patologie infettive, cui è necessario essere preparati. Questo vuol dire certamente riorganizzare gli ospedali, aumentando stabilmente le risorse strutturali con la valorizzazione di reparti, come quelli delle malattie infettive, finiti in secondo piano negli ultimi anni, nonché riconsiderare la programmazione complessiva delle specialità mediche e del personale infermieristico, molto penalizzate nell’ultimo decennio salvo qualche intervento tampone dell’ultimo biennio.

 

Ma, soprattutto, ciò significa procedere speditamente alla costruzione di quel sistema di cure primarie e assistenza territoriale che, nella sua duttilità, rappresenta il punto di primo contatto con il paziente e di governo delle patologie, siano esse croniche o infettive, con ricadute straordinarie su tutto il sistema sanitario. A nostro avviso, sulla scorta delle migliori esperienze regionali, tale sistema deve puntare con decisione sui Medici di Medicina Generale (MMG), associati in vario modo tra loro e con altri professionisti sanitari, nonché dotati stabilmente di supporti specialistici. I MMG rappresentano infatti le figure in grado di garantire nel modo migliore il rapporto con il paziente, la continuità delle cure e il coordinamento degli specialisti via via necessari per la cura delle diverse patologie (Starfield, 1994). Questo vale per le grandi città, ma anche e soprattutto per i piccoli centri, che forse non a caso sono stati colpiti pesantemente dall’epidemia.

 

Infine, la riorganizzazione e il potenziamento dell’assistenza territoriale vanno concepiti in stretta integrazione con il rafforzamento delle attività di prevenzione, cui oggi si destina una quota molto bassa di risorse. Secondo le elaborazioni della Fondazione Gimbe (2019) sui dati Istat, nel 2017 alle attività di prevenzione delle malattie era destinato il 4,7% della spesa sanitaria pubblica. Se consideriamo invece la ripartizione del finanziamento dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), al macro livello “Assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro”, cui fanno riferimento le attività di igiene e sanità pubblica e molte attività di prevenzione, sono assegnate quote che si aggirano annualmente intorno al 4.1%-4,2% dei LEA, vale a dire una quota ben inferiore al 5% cui fanno spesso riferimento i documenti di programmazione nazionale.

 

Ovviamente, per essere efficace, la prevenzione dovrebbe svolgersi in modo coordinato non solo a livello nazionale, ma anzi a livello (almeno) europeo. Questo fa comprendere come, nell’epoca della globalizzazione e delle pandemie, il futuro della sanità non si gioca solo su scala locale e neanche nazionale, ma richiede stabili meccanismi di coordinamento e di finanziamento europeo e internazionale.