ANAC ha chiesto il 6 luglio al Consiglio di Stato di dirimere “dubbi interpretativi” concernenti “posizioni contrastanti da parte di vari stakeholder e del Ministero del lavoro, che teorizzano l’esclusione dall’applicazione del Codice dei contratti pubblici di ampi settori di attività affidati agli organismi del terzo settore…”. La Commissione speciale del Consiglio di Stato, in data 26 luglio 2018 (numero affare 01382/2018), ha rilasciato al proposito un parere “in ordine alla normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali alla luce del d. lgs. n. 50/2016 e del d. lgs. n. 117/2017”: limitandosi “a riaffermare, nella sostanza, che il welfare è un settore economico e che dunque, coerentemente con la lettura che viene proposta degli indirizzi comunitari, va sottoposto ai procedimenti di mercato e conseguentemente, quando si tratta di coinvolgere soggetti terzi, implica il ricorso ad appalti e (quasi) null’altro”1 .
Gianfranco Marocchi si è già efficacemente espresso su welforum.it sottolineando i limiti di questi interventi e le difficoltà che essi possono implicare, in un contesto nel quale almeno in una decina di Regioni italiane molti territori stanno procedendo a sviluppare prassi virtuose in materia di coprogettazione.
Il rischio è quello di un “ritorno conservativo” ad una relazione prevalente del tipo committente fornitore che spesso risulta rigida e limitante in particolare per esperienze innovative e di sviluppo di comunità.
Io non sono un esperto di procedure amministrative ma opero in molti territori come consulente metodologico per la progettazione sociale e dal mio punto di vista mi preme, in integrazione alle osservazioni di Marocchi, sottolineare la gravità di questo rischio, legandola alla metodologia progettuale e alle potenzialità di sviluppo dei sistemi di welfare.
Da anni, lavorando come consulente e formatore su questi temi, ho potuto constatare che Il valore aggiunto della coprogettazione consiste nella opportunità che questa fornisce di “essere partner”, ovvero soci, quasi alla pari, in un contesto che stimola gli attori a svolgere una funzione di “corresponsabilità”, consente agli attori di essere effettivi co-costruttori delle politiche sociali pubbliche.
Nella coprogettazione un soggetto (il pubblico) ha una titolarità e una responsabilità sulle politiche erogate in virtù della sua funzione pubblica di regia e regolazione del sistema, l’altro soggetto (il terzo settore) esercita anch’esso una effettiva funzione pubblica e avendo spesso una visione ampia e articolata dei problemi e dei bisogni in campo, si assume un rischio di impresa per rispondere ad esigenze di qualità ed efficacia degli interventi progettati anche nell’ottica dell’equità nelle risposte a diritti di cittadinanza.
L’assunzione di un rischio di impresa è elemento di stimolo, proattività, investimento strategico e progettuale che rappresenta una linfa essenziale per lo sviluppo delle coprogettazioni, come ho notato nelle molte esperienza che ho seguito in questi anni.
Il tipo di partecipazione proposta dalla coprogettazione è infatti un importante se non decisivo strumento per il miglioramento dell’efficacia delle politiche sociali pubbliche. Tutto ciò si basa però su un presupposto, che ci sia una funzione attiva, da attori protagonisti da parte di pubblico e di terzo settore che il tradizionale rapporto fra committente e fornitore – asimmetrico e per certi versi “garantito” – non sempre consente.
Il problema c’è e non si può semplicisticamente pensare di aggirarlo, come mi è già capitato di sentire da parte di alcuni funzionari pubblici, con affermazioni di questo tipo: “ma sì, in fondo va bene lo stesso, si fa la coprogettazione per fare il progetto, poi quello che il progetto prevede lo si mette in appalto”.
Secondo la mia esperienza un approccio di questo tipo presenta infatti molti limiti: o vi è il patto (illegale e inconfessabile) che l’appalto venga poi pilotato per avvantaggiare chi ha coprogettato, o i coprogettanti contribuiscono ai tavoli in modo parziale per esempio mandando seconde linee che non hanno libertà di azione e non propongono elaborazioni significative. Tale dinamica si determina perché si ritiene più utile non scoprire le proprie carte con il rischio che poi possano utilizzarle altri, e invece giocarle in sede di gara quando però il perimetro progettuale è già definito e per certi versi, bloccato.
Ho invece spesso constatato che la progettazione partecipata (intesa come metodo di lavoro), non si improvvisa, richiede fiducia, identificazione, senso di appartenenza, corresponsabilità, protagonismo.
Chi oggi costruisce e redige progetti partecipati nel sociale ha acquisito da tempo che improvvisazione e scarso investimento metodologico, non consentono progettazione partecipata efficace, ha appreso che coprogettare in una logica di partenariato e di corresponsabilità, significa investire in un metodo di lavoro collaborativo, essenziale strumento di efficacia per realizzare buone politiche sociali pubbliche e anche, non secondariamente, veicolo di promozione di una cultura della collaborazione e della fiducia, antidoto delle tendenze individualistiche e di semplificazione della complessità oggi dilaganti in molti campi.
E’ pertanto un dato di fatto che sia gli enti locali sia i soggetti del terzo settore che intendano svolgere un’efficace funzione pubblica, si trovano oggi ad agire in una cornice che va molto oltre il tradizionale rapporto committente-fornitore e che li stimola ed interroga verso la costruzione di un welfare pubblico che non è esclusivamente dell’ente pubblico, ma della comunità tutta.
Pubblico e terzo settore nei progetti in coprogettazione sono oggi insieme, imprenditori di nuovo welfare, mobilitatori di risorse e competenze, promotori di processi virtuosi di cittadinanza attiva, costruttori di politiche generative. E’ un patrimonio che non si può disperdere!
C’è pertanto da sperare e da agire affinché l’intervento del Consiglio di Stato non si traduca in prassi che vanno a rallentare e a tarpare le ali ad un processo virtuoso di cui il mantenimento e lo sviluppo dei nostro sistema di welfare ha molto bisogno.
Antonio Tosi con lungimiranza alcuni anni fa, nel descrivere gli ostacoli legati alla burocratizzazione del nostro welfare sociale parlò di rischio di “riduzione amministrativa dei bisogni”, credo che oggi, dopo l’intervento del Consiglio di Stato, si possa ridefinire tale concetto parlando di rischio di “riduzione amministrativa della coprogettazione”: è un “lusso” che non ci possiamo permettere, e pertanto è un rischio da fronteggiare per non disperdere un patrimonio e una potenzialità importante per lo sviluppo del welfare.
Gianfranco Marocchi conclude il suo intervento dicendo che “La partita è quindi aperta, non vi è che da sperare che i diversi soggetti coinvolti la giochino con impegno e lungimiranza”. Io sono d’accordo e ribadisco che dipenderà dagli attori a tutti i livelli (territoriali e sovraterritoriali, del pubblico e del terzo settore, tecnici, politici e amministrativi) fare in modo che rimanga aperta e che anzi, si possa vincere. Penso infine che gli strumenti che abbiamo a disposizione per giocare tale partita non siano solo legati all’uso e alla interpretazione delle norme e dei processi amministrativi, sono anche legati alle energie progettuali, formative, di sensibilizzazione e di promozione che riusciremo a mettere in campo.
- G. Marocchi, Coprogrammazione, coprogettazione e gli anticorpi della conservazione, welforum.it
sull’argomento mi permetto segnalare quanto pubblicato settimana scorsa
cordialità
Prof. Alceste Santuari
http://www.aiccon.it/procedure-affidamento-dei-servizi-agli-enti-del-terzo-settore/