Dalla competizione alla collaborazione, nel rispetto dei principi della P.A.
Luciano Gallo | 29 Novembre 2018
Competizione e collaborazione, due diversi principi per le amministrazioni locali
In premessa va richiamato come l’interesse pubblico possa essere perseguito tanto con strumenti basati sulla competizione, come gli appalti, tanto con strumenti fondati sul principio di collaborazione, come nel caso della coprogettazione. Si tratta di due possibili opzioni da valutare a seconda delle caratteristiche degli interventi sociali realizzate e che saranno di seguito analizzate.
Va innanzitutto affermato come il passaggio dalla competizione alla collaborazione sia assolutamente doveroso e possibile da un punto di vista giuridico, oltre ad essere un imperativo etico; ma, prima di approfondire gli aspetti legati alla collaborazione, è utile soffermarsi brevemente sul polo della competizione e sui relativi strumenti.
La competizione e le sue contraddizioni
Gli strumenti della competizione sono notoriamente gli strumenti del Codice dei contratti, il D.lgs. 50/2016, che vede per la prima volta in Italia al proprio interno i servizi sociali – prima “settore escluso” – ancorché nella pratica gli affidamenti di servizi si rifacessero al preesistente D.lgs. 163/2006, seppure con alcune specificità e alleggerimenti nelle procedure. Se partiamo dall’art. 30 del D.lgs. 50/2016, uno degli articoli chiave perché ne contiene i principi generali, troviamo scritto con norma qual è l’elemento caratterizzante il Codice dei contratti: la concorrenza.
I ricorsi. E le gare ad evidenza pubblica per affidare i servizi di welfare sono a tutti gli effetti procedure concorrenziali: uno vince e gli altri sono sconfitti, e, come è noto, a questo nella gran parte dei casi fa seguito un ricorso al TAR. Tutto ciò è coerente con un assetto competitivo, dove ciascuno considera gli altri soggetti come competitori e la pubblica amministrazione come soggetto controinteressato, con i conseguenti costi – ad esempio, appunto, quelli legati ai contenziosi di cui difficilmente viene fatta un’analisi seria, dalla quale emergerebbe con ogni probabilità la sproporzione tra i costi di gestione della procedura – inclusi i contenziosi e il costo del servizio da offrire ai cittadini. Un secondo elemento fondamentale del Codice dei contratti, che è una conseguenza dello strumento competitivo della gara ad evidenza pubblica, è il concetto di utile d’impresa.
I costi di progettazione. Ma l’esempio dei contenziosi non è certo l’unico affaticamento delle procedure basate sulla competizione. Consideriamo l’art. 23 – altra novità del codice – dove leggiamo che se le amministrazioni pubbliche vogliono fare gare, devono fare anche dei progetti di servizi; e all’interno dei progetti bisogna calcolare tutti i costi della commessa, partendo dal costo del personale, e includere nell’importo a base di gara l’utile d’impresa. Questo da una parte costituisce un onere organizzativo (farsi carico della progettazione del servizio), dall’altra evidenzia una quota di costo aggiuntivo che, sotto forma di utile, diventa estraneo alle risorse impiegabili per la progettazione dei servizi.
Il pasticcio del sotto soglia. Un ulteriore “mostro giuridico”, nato da una lettura evidentemente emotiva, è l’approccio che il Codice dei Contratti ha rispetto al sotto-soglia. Nel momento in cui è emerso che l’80% degli affidamenti nel welfare sono sotto-soglia si è voluto evitare che ciò determinasse una ampia “terra di nessuno” sottratta al Codice e potenzialmente luogo di affidamenti clientelari, ma il rimedio è stato peggiore del male, forzando i comuni al principio di rotazione che rende problematico e sempre da giustificare anche l’atto più ovvio per un buon amministratore e cioè la possibilità di reinvitare chi sta gestendo (magari bene, con soddisfazione dei cittadini) un certo servizio di welfare.
Le commissioni esterne. Consideriamo ancora l’obbligo – sempre ispirato a principi di trasparenza – di ricorrere per l’aggiudicazione a commissioni esterne, ovvero a soggetti che non sanno nulla di quel servizio e di quella amministrazione.
Insomma, pur mossi dalla condivisibile volontà di evitare favoritismi, mancanza di trasparenza e ogni altro aspetto deteriore degli appalti, l’esito è una sorta di “OGM – organismo giuridicamente modificato” che rende gli appalti – tanto più nel welfare – uno strumento che non conduce all’automatico perseguimento degli interessi pubblici.
La collaborazione e la Riforma del Terzo settore
Andando dunque verso il perimetro della collaborazione, è bene sottolineare che anche il Codice dei contratti conosce il valore di strumenti collaborativi quali i partenariati pubblico-privato, nonché le forme del partenariato pubblico-privato istituzionale (es. società miste e imprese sociali). Ma, accanto al Codice dei contratti, la cassetta degli attrezzi della collaborazione si arricchita di importanti strumenti.
La sussidiarietà orizzontale. Accanto a quelli, già trattati in altri interventi, fondati sulla 328/2000 e sul DPCM 30/3/2001, vi è un altro fondamento che è utile mettere in evidenza, che si richiama al principio di sussidiarietà orizzontale promosso dalla legge 3/2001. Ma anche da leggi di settore, sia statali sia regionali, che hanno introdotto forme di partenariato e di collaborazione, e da esperienze di progetti. Tutto questo avviene però all’interno di interventi spot, settoriali ed episodici. Prima del 3 agosto 2017 – data di entrata in vigore del D.lgs. 117/2017, il Codice del terzo settore – vi erano diverse prassi diffuse a livello locale, agite da volenterosi amministratori; ma si trattava di prassi che, oltre ad essere spesso occasione di scontro politico, erano oggetto di ricorrenti dubbi circa la loro legittimità.
Il Codice del Terzo settore e i suoi strumenti. La Riforma del terzo settore si compone di diversi strumenti normativi; quelli che principalmente riguardano il tema qui trattato sono il D.lgs. 112/2017 sull’impresa sociale – che consente imprese sociali a governance mista pubblico privata – e soprattutto il Codice del terzo settore (D.lgs. 117/2017). Il Codice non è un semplice testo unico che si limita a riunire le norme vecchie dandogli una forma chiara ed organica: il Codice, che molte amministrazioni già stanno utilizzando e contiene strumenti per guardare e gestire un cambiamento importante nelle relazioni tra Enti pubblici e Terzo settore. All’interno del Codice troviamo per la prima volta una definizione degli enti di terzo settore (art. 4), un perimetro chiaro dell’individuazione delle attività di interesse generale dentro cui si sperimentare tali strumenti (art. 5) e un rafforzamento degli strumenti di controllo e di governance – quali l’obbligo della contabilità e del bilancio sociale. Da un punto di vista strettamente operativo relativamente ai rapporti con le pubbliche amministrazioni, troviamo strumenti quali la valorizzazione di beni culturali per esigenze sociali (art. 71), la co-programmazione, la co-progettazione e l’accreditamento (art. 55), le convenzioni con le OdV e le APS (art. 56), il social bonus, che mette insieme valorizzazione di beni ed attività di interesse generale (art. 81) ed infine la valorizzazione di beni culturali di proprietà pubblica per attività culturali in senso proprio (art. 89, comma 17).
Il fondamento solido della legge 241/1990. Appare lungimirante inoltre la scelta di fondare tali strumenti da un punto di vista procedurale – come esplicitato in particolare dall’art. 55 – sulla legge 241/1990, legge consolidata e collaudata che costituisce il granito su cui costruire l’art. 55, garantendo adeguatamente i requisiti di evidenza pubblica e trasparenza. Il procedimento amministrativo come previsto dalla legge 241/1990 si compone di tre fasi: l’iniziativa, l’istruttoria e la decisione. L’art. 55 ci dice che l’istruttoria può partire dall’amministrazione, che in questo caso è definita procedente, o da un’iniziativa privata. Un ente di terzo settore che ha un’idea può quindi bussare in modo trasparente alla porta dell’amministrazione e avanzare la propria proposta, che sarà poi sottoposta ad una istruttoria da parte dell’ente che esaminerà tale idea da un punto di vista tecnico e politico. L’art. 55 non esclude che dentro un raggruppamento di enti di terzo settore ci siano soggetti altri (es. autonomie funzionali, istituzioni, università e mondo profit), purché il soggetto capofila sia un ente di terzo settore responsabile del rapporto con la pubblica amministrazione. Il momento chiave del procedimento amministrativo è l’istruttoria, che deve consentire di chiudere il procedimento amministrativo attraverso un provvedimento finale, in cui si riporta quanto è successo. L’evidenza pubblica agisce dentro la trasparenza più totale, per cui forse non tutti sono consapevoli che se si passa dalla competizione alla collaborazione la trasparenza risulta notevolmente rafforzata, dal momento che è più facile e meno costoso fare ricorso o richiedere di visionare atti del procedimento.
Conclusioni
Alcune note conclusive di sintesi. Se questi strumenti sono utili per passare dalla competizione alla collaborazione, è evidente che tutto questo funzionerà solo se realizzata in modo autentico, nella consapevolezza che la collaborazione non è un “addomesticamento” delle procedure. Ma se utilizzata in modo consapevole e coerente, la coprogettazione ci porterà ad un salto di qualità anche rispetto alle politiche: si pensi al fatto di superare una programmazione di spesa solo triennale o alla possibilità di connettere tra loro politiche in ambiti diversi – il welfare, la casa, il lavoro, la salute – realizzando una integrazione delle politiche, che può favorire il superamento del verticalismo della pubblica amministrazione. Insomma, una politica che nella coprogettazione riconquista pienamente il proprio ruolo: un’impresa nell’impresa che la coprogettazione rende possibile.