Una legislatura deludente
La passata legislatura non ha messo la non autosufficienza nella sua agenda. La terza età è stata assorbita, in termini mediatici e di attenzione politica, dalle pensioni, tema che ha peraltro occupato almeno le fasi iniziali della campagna elettorale. La non autosufficienza non è entrata tra le priorità dell’agenda politica e questo può essere ascrivibile a ragioni diverse1, su cui qui non è mia intenzione soffermarmi. Lo stesso Piano Alzheimer, approvato nel 2015, sta attraversando rilevanti ritardi di attuazione, dentro un contesto di forte squilibri territoriali, come documentano Antonio Guaita e Franco Pesaresi in questo sito.
Uno dei pochi dati positivi è stato il fatto di aver reso strutturale il Fondo non autosufficienza, che dopo anni di andamento altalenante, si è stabilizzato per quest’anno a 450 milioni di euro, cifra che dovrebbe rimanere tale fino al 2020. Le criticità che ha attraversato il Fondo, con la controversa destinazione alle disabilità gravissime, ha portato a un accordo Stato-Regioni sulla ridefinizione di questa destinazione e a un indeito co-finanziamento del Fondo stesso, come illustra Laura Pelliccia nel suo articolo in questo Dossier.
Di fatto poco o nulla è stato fatto per ridurre le forti discrepanze regionali nella dotazione dei servizi alla persona, per qualificare il mercato privato di cura (badanti), per riformare le provvidenze economiche per l’invalidità.
Mi limito a richiamare due atti compiuti che avrebbero potuto portare qualche novità, ma che si sono invece rivelati non corrispondenti alle aspettative.
Il primo riguarda i nuovi livelli essenziali di assistenza. I LEA, oltre a riguardare solo i servizi sociosanitari (e non quelli sociali), sulla non autosufficienza, come afferma Maurizio Motta su questo sito, “non garantiscono adeguata uniformità per i cittadini nelle diverse regioni, soprattutto perché non precisano standard di offerta degli interventi (seppur minimi) da rispettare”.
Il secondo riguarda il tentativo di arrivare un Piano nazionale triennale. Il Decreto del Ministero del lavoro del 26 settembre 2016 lo ha previsto2, con due soli obiettivi (articolo 6):
- definire i criteri per accertare la “gravissima” disabilità, che riguarda la Sla e una serie di altre patologie (art. 3). Lo stesso decreto infatti vincola le Regioni a usare il 40% delle risorse del Fondo per la non autosufficienza a beneficio di questa tipologia di destinatari, e il rimanente per la disabilità “grave”;
- lo sviluppo di interventi, a valere sulle risorse del Fondo, “nell’ottica di una progressione graduale, nei limiti delle risorse disponibili, nel raggiungimento di livelli essenziali delle prestazioni assistenziali da garantire su tutto il territorio nazionale”.
Sembra doverosa una considerazione sul target che il decreto individuava. L’assistenza alla disabilità grave, e in particolare quella gravissima, viene, o dovrebbe, essere già garantita dal servizio sanitario nazionale. Essendo il Fondo a vocazione puramente sociale, il suo utilizzo andrebbe soprattutto a sostenere i caregiver, e quelle funzioni che i servizi sanitari e sociosanitari non coprono. Gravi e gravissimi: e gli altri? Sembra così fuori dal campo di intervento la non autosufficienza parziale, le fasi di esordio, la componente preventiva e di intercettazione precoce così importante per le famiglie. Importante perché permette di attrezzarsi per tempo, ed evitare di rincorrere, continuamente, l’emergenza.
Per costruire il nuovo Piano fu attivato presso il Ministero del lavoro un gruppo comprendente tutti: Regioni, Anci, Inps, sindacati, associazioni delle persone con disabilità. I lavori si sono concentrati sul primo obiettivo, per giungere a una modalità uniforme e scientificamente validata di accertamento della disabilità gravissima, nelle more di una strumentazione oggi carente. “Occorre una criteriologia di minima, oggi assente, per differenziare i sostegni” afferma Carlo Giacobini della Fish. Obiettivo pregevole, su cui scontiamo un grande ritardo, e su cui si confrontano due approcci diversi: uno biomedico centrato sulla valutazione delle patologie e delle menomazioni, e uno di tipo sociale centrato sulle capacità residue e i bisogni di assistenza.
Il secondo obiettivo che ci si è dati non è mai stato trattato. E’ quello più ambizioso: riguardava la definizione di livelli essenziali di assistenza, però “nei limiti delle risorse disponibili”. Il che sembra un paradosso, un ossimoro: se definisco qualcosa che mi sembra il minimo da garantire a chi ne ha bisogno, e poi vincolo questa definizione a una cifra platealmente limitata, come potrò onorare i miei impegni? Ci si immaginava livelli essenziali “a partire dalle risorse disponibili, quando invece si dovrebbe fare l’opposto: partire dai livelli essenziali e cercare le risorse necessarie, attraverso un riesame di quello che viene speso oggi” afferma Attilio Rimoldi, segretario nazionale Fnp Cisl. Livelli essenziali condizionati, che stabiliscono così il paradosso di “diritti probabili”3.
La fine della legislatura ha portato alla cessazione di questo tardivo percorso. Un Piano nazionale sulla non autosufficienza rimane una grande opera incompiuta.
Cinque punti per un’agenda
In un paese che vede aumentare gli anziani di oltre 200.000 unità all’anno, sulla non autosufficienza occorrono interventi di respiro. Ne richiamo cinque.
- E’ importante promuovere finalmente una legge quadro nazionale sull’invecchiamento attivo: esiste una proposta congiunta dei tre sindacati confederali a questo proposito. L’invecchiamento attivo è un obiettivo su cui l’Unione Europea insiste da anni e su cui alcune regioni si sono mosse in modo rilevante. E’ indispensabile in termini di qualità della vita e di prevenzione delle patologie per un numero crescente di cittadini: riguarda le condizioni abitative, gli spazi pubblici, la mobilità, l’ambiente, la partecipazione sociale, l’inclusione civica, l’utilizzo delle nuove tecnologie4.
- Occorrono veri livelli essenziali di assistenza. Purtroppo, a 17 anni dalla legge 328, una operazione su questo terreno rischia di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. In altre parole, livelli uniformi di assistenza devono avere a che fare con regioni i cui investimenti sui servizi per la non autosufficienza sono abissalmente diversi: pensiamo alla dotazione di servizi residenziali, dei servizi domiciliari, alla diffusione degli assegni di cura, alla sperimentazione di piani su specifiche patologie: tutti ambiti dove “regione che vai possibilità che trovi”. Veri livelli essenziali devono pensare a un piano di graduale allineamento, riduzione delle disequità, senza che questo vada a scapito di chi ha investito di più. In questo senso occorre definire, come afferma Carlo Giacobini, “come possono convergere al meglio le risorse del Fondo nazionale con quelle delle regioni, talvolta di molto superiori”.
- Negli anni a venire il fai da te familiare non ce la farà più. Per motivi sociali, demografici, economici, il numero dei caregiver familiari e il loro impegno è destinato a calare aprendo scenari drammatici per anziani sempre più soli, sempre più affetti da patologie dementigene (Alzheimer), sempre più poveri. Questi cambiamenti chiedono una rete di servizi più forte, a supporto di caregiver che saranno sempre meno. Alla fine della passata legislatura è stato approvato il nuovo Fondo per i caregiver, con una dotazione di 20 milioni l’anno per i prossimi tre anni. Serve ora un decreto attuativo che definisca chi sono i caregiver e come saranno uste queste risorse. Intervento che dovrebbe andare di pari passo ad una revisione del sistema dei congedi parentali (legge 104/1992), che presenta come noto limiti importanti e frequenti abusi.
- Dal 2015 abbiamo un Piano nazionale sull’Alzheimer, patologia in rapida crescita e su cui già alcune regioni si sono attivate. Deve ancora in buona parte essere applicato, e devono farlo soprattutto le Regioni. Molto della possibile utilità di questo Piano sarà definito dalle norme che ancora devono attuarne gli enunciati e avviare le azioni per la realizzarne gli obiettivi.5
- Infine, occorre riformare le misure nazionali a favore della non autosufficienza oggi obsolete. In primis, l’indennità di accompagnamento. Una misura per cui si spendono più di 13 miliardi di euro all’anno. L’unica misura del genere, in Europa, avulsa da gradi diversi di gravità, da condizioni socio-economiche differenti, non tracciabile dal punto di vista dell’utilizzo che ne viene fatto, e basata su modalità di accertamento molto discrezionali. Anche i soggetti organizzati che in passato hanno espresso più resistenza nel pensare a modifiche in questa direzione stanno ora esprimendo un interessamento prezioso (la Cisl in particolare), che andrebbe valorizzato per superare le conclamate criticità di questa misura. Una declinazione di questa misura in una forma più tracciata, anche sotto forma di voucher per il pagamento di assistenza, la trasformerebbe in uno strumento potente per l’emersione e la qualificazione del mercato sommerso della cura, quello delle badanti, paradossalmente pagate oggi – in nero – proprio attraverso l’indennità di accompagnamento.
Troppa carne al fuoco? Arrivare ad uno strumento unico di accertamento della non autosufficienza assieme a uno schema-base di livelli essenziali socio-assistenziali, possibile riferimento per una legge delega, sarebbe, forse, già un risultato apprezzabile per la prossima legislatura.
- Si veda C. Gori, “L’età dell’incertezza delle politiche per gli anziani non autosufficienti”, La Rivista delle Politiche Sociali, n. 1, 2017.
- Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 30 novembre 2016.
- M. Motta, “La probabilità di avere diritti. Quando l’accesso al welfare si fonda sulla fortuna”, Prospettive Sociali e Sanitarie, n. 2, 2017.
- Si veda C. Falasca, “Per un Paese a misura di anziani”, Welfare Oggi, n. 6, 2017.
- Si veda A. Guaita, “Demenze: i lenti progressi di un piano necessario”, welforum.it, 27 giugno 2017.