Dall’inizio della crisi gli operatori sociali si interrogano su cosa significherà il distanziamento sociale in un lavoro fatto di relazione. Si può avere una relazione educativa a distanza? Si può avere un colloquio con contenuti educativi attraverso il monitor di un PC o di un cellulare?
Mentre è abbastanza scontato che ciò possa portare ad una serie di problemi, sono assai meno scontati alcuni esiti inattesi, che vengono raccontati dagli operatori.
Ma facciamo un passo indietro. Qual è il distanziamento “normale” nella relazione educativa? Due metri, un metro, quaranta centimetri? Nel momento dell’incontro ci si abbraccia, ci si stringe la mano, ma poi si ristabilisce una distanza di sicurezza.
In realtà la questione non è fisica, ma più profonda. Nella pratica educativa il distanziamento esiste da sempre, è teorizzato come elemento costituivo di questo particolare tipo di relazione, ne marca i confini, è il setting con cui i professionisti si rapportano all’utenza. È un tipo di relazione che impone tempi e limiti, che investe determinati ambiti e non altri. Questo è vero per molte professioni sociali, compresa quella educativa, ed è particolarmente enfatizzato in alcuni setting come quello del lavoro psicologico.
In ciascuna relazione, di ciascun educatore con ciascun utente, questo confine, questo distanziamento, si è via via definito, ha preso forma nel corso degli anni, in parte conformandosi ai protocolli professionali, in parte allo stile di lavoro dei singoli operatori.
Poi è arrivato il Covid-19, e tutti i parametri e le regole di ingaggio sono forzatamente state rimesse in discussione.
Partiamo dall’aspetto più rilevante: ci si incontra via web. Cosa si vede? E come ci si presenta all’altro stando dall’altra parte della fotocamera, in questo reciproco esercizio quasi cinematografico?
Il viso dell’altra persona è visibile ad una distanza spesso inferiore a quella di cui eravamo abituati. Gli occhi s’incontrano vicini, le espressioni del viso arrivano direttamente. Paradossalmente in molti casi la “protezione” dell’essere dall’altra parte di uno schermo induce ad accordare un’intimità che prima non era prevista.
Dietro al viso, sullo sfondo, si vede la casa dell’altro, il luogo che la persona ha scelto di mettere in primo piano. Reciprocamente, infrangendo quella che in altri momenti sarebbe percepibile come regola professionale (di distanziamento appunto). Che cosa si vede, in quello sfondo? Una libreria, una cucina disordinata, uno strumento musicale, un muro spoglio o adornato, un letto? È un’intrusione nella quotidianità intima altrui, che rivela al tempo stesso le scelte estetiche dell’altra persona, che rivela altri elementi su cosa ciascuno è. Lo sfondo, l’ambiente in cui la webcam penetra, in parte ci racconta lo stile di vita, in parte ciò che ciascuno vuole mostrare, ciò che sceglie di inquadrare. Quello sfondo è come il vestito che si sceglie di indossare, che ci sembra il più idoneo in quella relazione. Anche questo è un modo per raccontarsi. Entrambi i soggetti della relazione si fanno vedere in una luce nuova in sfumature diverse, dicono qualcosa in più di sé. Il vedere la casa dell’altro è vedere un pezzo dell’altro e ce lo rende più familiare. Apre a nuove conversazioni che vanno al di là dell’obiettivo originario per il quale la relazione educativa è sorta. La casa offre lo spunto per inserire nella relazione elementi nuovi, si può parlare di un quotidiano che ci accomuna, la cura della casa, la cura del nido e delle sue relazioni o al contrario la sensazione di gabbia che la casa porta con sé.
Alcuni operatori non erano mai entrati nella casa del ragazzo o lo avevano fatto solo occasionalmente, ma soprattutto la visita a casa era generalmente finalizzata ad uno scopo specifico, generalmente il cercare conferma della propria diagnosi sociale sul nucleo familiare ed era percepita come uno spazio strutturato, come la “visita dell’operatore”. Frequentare invece la casa dell’altro in modo regolare, non strutturato come “visita”, porta a non concentrarsi su specifici particolari, ma a sentire il clima che si respira. Il fatto che anche il ragazzo veda la casa dell’operatore lo fa sentire meno utente, toglie delle difese, rende la relazione più paritaria e induce il ragazzo ad esporsi maggiormente, si allenta il giudizio reciproco e questo favorisce il venirsi incontro e quindi la relazione d’aiuto.
Questa destrutturazione della relazione porta con sé altri temi.
La relazione educativa ha tempi e attività in qualche modo codificate. Un certo numero di ore settimanali dedicate a determinate attività: compiti, accompagnamenti, ricerca di lavoro, ecc. Non sempre queste attività possono essere riversate nel nuovo format di relazione. Il tempo da dedicare rimane, l’altra persona è dall’altra parte del video, l’attività prevista potrebbe non essere accessibile. L’educatore si trova di fronte all’imbarazzo dell’io e te: è di fronte ad una persona che sa di dover trascorrere un certo tempo con l’educatore che deve proporre come riempirlo. Ci si trova di fronte alla relazione, senza la copertura talvolta rassicurante di una specifica attività da svolgere, si è di fronte ad un tempo da riempire senza un protocollo predefinito.
Cosa emerge da ciò? Bisogni, parole richieste di accoglienza, talvolta anche silenzi. Già, i silenzi. Molti operatori non si sentono preparati alla dimensione del silenzio, temono i silenzi propri e quelli dell’altra persona, temono il non sapere cosa dire, non si sentono utili. In realtà è il disorientamento di fronte all’incontro pieno con l’altro. Si tratta di un aspetto su cui dovremo riflettere. Ad oggi tendiamo a riempire in qualsiasi spazio con attività, talvolta paradossalmente senza che sia chiaro se una certa attività “serve” o se è solo un modo per occupare lo spazio, per evitare i silenzi, per l’imbarazzo di stare a contatto con sé e con l’altro; con la conseguenza che talvolta i servizi tendono ad erogare prestazioni con lo stile di un bancomat e a soffermarsi poco sulla ricerca della vicinanza tra le persone. Quella del silenzio è una prova difficile per l’operatore, ma può anche diventare un’occasione di crescita professionale, in cui trovare dei modi diversi di stare con l’altro e anche di fare i conti con il vuoto e l’impotenza. L’operatore si trova di fronte alla sfida di recuperare il piacere della relazione e soprattutto la consapevolezza che essa può avere senso anche in assenza di un’attività specifica, di un oggetto di mediazione che ci fa stare insieme.
Ma a destrutturarsi non è solo il lavoro con i ragazzi, lo è anche la relazione con le loro famiglie. Il rapporto tra educatore e famiglie è un gioco di posizionamento in cui le parti marcano ruoli, posizioni e distanze. Gli atteggiamenti di partenza possono essere molti diversi. Le famiglie possono temere chiunque sia inviato dai servizi, tendere a nascondere il più possibile e a mostrare una visione artefatta di sé; possono invece interpretare l’intervento dei servizi come strumentale ad una utilità immediata, ad esempio una copertura oraria definita per il proprio figlio, un servizio di cui fruire. O invece l’intervento può essere vissuto con partecipazione e gratitudine. Anche l’educatore tende ad inquadrare la famiglia in un certo modo. In alcuni casi può essere la fonte del disagio patito dal ragazzo, la spiegazione (patologica) dei suoi comportamenti; o l’educatore può sentirsi strumentalizzato, una sorta di improprio baby sitter; o ancora, può vedere la famiglia come alleato positivo nella scommessa che si fa con un ragazzo.
Il fatto che la relazione via webcam abbia fatto calare le difese in molti casi sta consentendo di scoprire nuove sfumature nella relazione con le famiglie; talvolta frequentando virtualmente la casa si è entrati in confidenza, a volte con la paura di diventare collusi. Si sono abbassate le difese prima garantite dal vecchio posizionamento, ci si è visti reciprocamente in modo più completo. Ci si è visti in cucina, in camera, a volte in salotto, in quello spazio intimo che è la casa, prima in molti casi luogo proibito agli estranei.
Paradossalmente, in alcuni casi il distanziamento ha creato una nuova opportunità di scambio, ci si è parlati di più, ci si è raccontati aspetti inediti e questo sta creando nuove sintonie che possono contribuire a rafforzare la corresponsabilità degli adulti.
Tutto ciò avviene nella misura in cui si è capaci di accogliere con questa situazione, accogliendo i nuovi elementi che si presentano nella relazione educativa con rispetto e senza ricadere in una logica giudicante, che purtroppo per molti operatori continua ad essere considerata più rassicurante.
Ma al di là di tutto, rimane lo stupore dell’incontro che queste nuove modalità di relazione hanno creato: l’utente che diventa persona, la famiglia che diventa persone, l’operatore che diventa persona. Una sfida splendida dove ognuno porta competenze e limiti alla ricerca di un pro.
La regola d’oro secondo cui tutto ciò che accogliamo può fare parte di noi e condurci verso un nuovo equilibrio, magari più evoluto… La distanza ha costi e benefici, e nel contatto mediato dallo schermo può ampliare o ridurre quella che già conoscevamo e praticavamo, sì. Lavorare sulla distanza con noi stessi e il nostro autentico essere, prima di ogni altra, è come sempre un buon monito.
Ogni esperienza che facciamo può arricchirci: tutto sta nel nostro approccio mentale.
Grazie Georges