Molti cambiamenti che osserviamo nell’attuazione di molte leggi non dipendono da una decisione esplicita delle istituzioni, ma dai cambiamenti del contesto, delle priorità e delle attese di istituzioni e persone.
La crisi del Covid-19, molto di più che le modifiche che sono state introdotte da vari provvedimenti normativi al decreto istitutivo del reddito di cittadinanza, ha cambiato il senso e la funzione sociale di molte sue previsioni, ha reso più rilevante il ruolo delle misure di sostegno al reddito e ridotto la fattibilità delle misure attive e delle misure condizionali individuate.
In una situazione di emergenza sanitaria e di crisi economica la rapidità e la consistenza dei sussidi economici sono diventati prioritari recuperando per certi versi la loro funzione originaria, quella di assicurare un reddito a chi per varie ragioni è privo di un reddito da lavoro, di rappresentare un “ponte” verso la ripresa di una normale vita lavorativa e sociale. Per varie ragioni, i target e gli standard quantitativi non sono stati raggiunti (drastica diminuzione della povertà, incremento della occupazione, effetto economico espansivo), ma è evidente il ruolo positivo che può svolgere il reddito di cittadinanza in questa fase di crisi. Sicuramente una misura nazionale di contrasto della povertà di questa rilevanza finanziaria poteva essere pensata in termini differenti, ma è indubitabile che questa misura stia riducendo l’impatto dell’attuale crisi finanziaria e stia correggendo un trend di crescita della povertà che sarebbe stato ancora più drammatico. In questa fase, la rapidità con la quale si erogano i benefici diventa cruciali: più a lungo un individuo rimane in una condizione di deprivazione economica, meno è probabile che lasci questa condizione in un breve periodo. Le implicazioni in termini di policy sono chiare: interventi di sostegno al reddito tempestivi, anche se di breve durata, possono instaurare circoli virtuosi e favorire un’uscita rapida dalla povertà (Siza 2009).
L’emergenza sanitaria ed economica non cambia, però, i rischi che comporta l’erogazione prolungata nel tempo di un sostegno economico ad alcuni gruppi di popolazione senza contestuali interventi attivanti (Ranci Ortigosa, 2018) e la focalizzazione di una misura nazionale di contrasto della povertà su pochi interventi standardizzati. Nella maggioranza dei casi l’erogazione esclusiva di benefici economici ad una famiglia povera non è sufficiente per superare la condizione di povertà, ha effetti controintuitivi. In altri casi, non è un intervento appropriato: un disturbo mentale grave, una dipendenza da sostanze da abuso, l’impossibilità a produrre un reddito di una madre sola con figli minori possono essere affrontate efficacemente con altre misure di welfare assegnando all’intervento di sostegno al reddito un ruolo meno rilevante e riconoscendo, invece, come snodo centrale la composizione di una pluralità di interventi in un progetto personalizzato di sostegno alle famiglie e alle persone.
Nuove forme di attivazione e di condizionalità si rendono necessarie, molto differenti da quelle previste dal decreto e fondate su una analisi più precisa delle dinamiche sociali e delle condizioni di povertà.
In Italia, le variazioni della povertà assoluta, più ancora delle variazioni della povertà relativa, sono diventate il riferimento prioritario nella progettazione degli interventi di welfare e nella valutazione dei loro impatti. Forse, dovremmo essere maggiormente consapevoli che la misurazione della povertà assoluta ha ancora un carattere ampiamente sperimentale e le informazioni che produce spesso non sono adeguate per la progettazione dei servizi. In Italia la misurazione della povertà assoluta è stata introdotta nel 2005, dopo una prima esperienza del 1996. In altre nazioni, la misurazione della povertà assoluta assume ben poca rilevanza. Escludendo le misure messe a punto dalla World Bank per paesi come la Nigeria, l’India, le Filippine (linea di povertà 1 o 2 dollari al giorno), le uniche esperienze consolidate sono quelle degli Stati Uniti, dove l’istituto di statistica pubblica annualmente stime di povertà assoluta, e quella del Canada che, pur non diffondendo dati ufficiali, calcola periodicamente la basic needs poverty measure. La definizione e la misurazione della absolute poverty sono stati introdotti da Seebohm Rowntree nelle sue ricerche realizzate a York (UK) nel 1901 e nel 1936, ma negli anni successivi, nelle analisi nazionali e nelle comparazioni internazionali, è stata utilizzata la relative poverty line introdotta da Peter Townsend (1979) nei suoi studi degli anni Sessanta e Settanta.
Le misure di povertà relative e assoluta sono prodotte da indagini trasversali che hanno un contenuto conoscitivo importante ma, allo stesso tempo, limitato: è sicuramente rilevante conoscere quante persone sono povere in un determinato momento e l’intensità della povertà di cui soffrono, le tipologie familiari a maggiore rischio. Ma, allo stesso tempo, se intendiamo superare una logica assistenzialistica dobbiamo cercare di capire se queste persone cambiano la loro condizione da un anno ad un altro, quali eventi di vita abbiamo favorito la loro condizione di povertà e quali opportunità hanno consentito una fuoriuscita da questa condizione. Le indagini longitudinali – storie di vita, biografie, analisi retrospettive, ricerche longitudinali, dati amministrativi che si riferiscono a più anni – nelle quali la rilevazione è ripetuta nel tempo sugli stessi soggetti o sono focalizzati su un percorso di vita, possono proficuamente integrare l’apporto conoscitivo assicurato dalle indagini trasversali: in Italia l’utilizzo dei dati prodotti da queste indagini è ancora molto ridotto e stenta ad affermarsi un approccio che riesca a cogliere le variazioni nel tempo di questa condizione. Le indagini longitudinali individuano forme di povertà che presentano tempi di permanenza in questa condizione più o meno lunghi con effetti sulle relazioni familiari e nelle possibilità di inserimento nel mercato del lavoro più o meno gravi e duraturi (Siza 2019). In queste indagini si individuano tre tipologie di povertà (la povertà persistente; la povertà ricorrente e quella temporanea) e si possono osservare gli eventi che hanno determinato la caduta in quella condizione e gli interventi di welfare che sarebbero necessari.
Tipologia di povertà | Definizioni più condivise | Interventi di policy |
Persistente | caratterizzata da un periodo continuato di permanenza in povertà di almeno tre anni | sostegno economico accompagnato da una pluralità di interventi personalizzati sociali e sanitari, istruzione che favoriscano una uscita da questa condizione |
Ricorrente | periodi ripetuti di povertà separati da un almeno anno di non povertà (due periodi di povertà separati da un anno); | programmi personalizzati di acquisizione di nuove abilità professionali, interventi sulle condizioni di salute o sulle relazioni familiari |
Temporanea | per un periodo di povertà consecutivo al massimo di due anni | è una condizione di norma determinata da una situazione collettiva o cause molto specifiche che incidono parzialmente sulle capacità di inserimento lavorativo e sociale e che, di norma, può essere superata con tempestivi interventi di sostegno economico |
Come è noto, l’indagine longitudinale più rilevante per gli studi sulla povertà, è l’European Statistics on Income and Living Conditions (EU-SILC). L’indagine annuale produce dati trasversali e longitudinali. Nell’anno 2018, l’indagine rileva che l’Italia ha un tasso di povertà persistente del 15,3% superiore a quello medio dell’Unione Europea (EU 28) pari a 11,3% e quasi doppio rispetto a paesi come la Francia e l’Olanda. Il tasso di povertà persistente è aumentato tra il 2008 e il 2018: chi cade in povertà ha sempre più probabilità di rimanere in questa condizione per lungo tempo; ha una probabilità di uscire da questa condizione fra le più basse in Europa e una delle più alte probabilità di ricadere in povertà dopo un anno. In Italia, la durata della povertà influenza negativamente la probabilità di uscita da questa condizione: dopo un anno in Italia esce dalla povertà la metà del campione, in paesi come il Regno Unito quasi il 75% delle persone povere; dopo due anni in Italia solo il 30% esce dalla povertà mentre nel Regno Unito il 53% e in Spagna il 44% (Eu-Silc, anno 2018; Giarda e Moroni, 2015).
Indagini longitudinali molto meno complesse possono essere avviate anche a livello locale, costruendo archivi longitudinali basati su dati amministrativi, analisi retrospettive, colloqui approfonditi, storie di vita o l’osservazione sistematica di percorsi individuali per lungo tempo. L’approccio longitudinale è un modo di osservare una condizione di vita, di condurre un colloquio o un’intervista professionale; è una concettualizzazione della povertà in termini più dinamici, come una condizione di vita che può cambiare anche rapidamente.
In molte esperienze, gli operatori riescono a cogliere la mobilità di una parte delle famiglie povere, le strategie messe in atto dalle famiglie per fronteggiarla, le capacità da valorizzare e i limiti che difficilmente sono in grado di superare. La povertà diventa, insomma, un concetto esteso che comprende famiglie con condizioni di vita e capacità molto differenti l’una dall’altra, deprivazioni stabili nel tempo e condizioni più fluide, esigenze di welfare molto differenti. Assumere questa condizione come un tutto omogeneo risolvibile con interventi standardizzati (prevalentemente prestazione economiche oppure rapidi inserimenti lavorativi) è sicuramente riduttivo, fuorviante in termine di politica sociale. Le tre tipologie di povertà (povertà persistente; povertà ricorrente e povertà temporanea) richiedono mix differenti e personalizzati fra misure passive e misure di attivazione e interventi più o meno estesi e intensivi.
La crisi determinata dal coronavirus ha ridotto drasticamente la fattibilità dei principi condizionali previsti dal decreto, ma non ha dissolto la necessità di un coinvolgimento attivo e condiviso delle persone che beneficiano del reddito di cittadinanza. I beneficiari del Reddito di cittadinanza attraverso questa prestazione di welfare ritornano dentro le loro comunità e possono svolgere attività di sostegno nell’ambito di attività istituzionali o di associazioni di terzo settore, possono rendersi utili alla collettività. La crisi può essere l’occasione per avviare programmi di attivazione e di partecipazione finalizzati alla costruzione di beni collettivi, per promuovere interventi di attivazione finalizzati alla costruzione di legami sociali e di reti di relazione e di sostegno, alla ricostruzione di un’identità, alla progressiva acquisizione del senso di responsabilità, di un equilibrio personale, di una motivazione alla partecipazione attiva al lavoro e alla vita sociale.
La condizionalità che il decreto istitutivo del Reddito di cittadinanza ha introdotto può essere declinata, insomma, in termini molto differenti. In un periodo di crisi economica e distanziamento sociale possiamo pensare ad una condizionalità molto differente, che non utilizzi esclusivamente minacce, sanzioni e revoche per raggiungere i suoi obiettivi di inclusione sociale, fondata sull’accompagnamento, su un progetto condiviso commisurato alle specifiche capacità delle persone. Una condizionalità che non è finalizzata esclusivamente ad attivare la partecipazione al mercato del lavoro, ma si estende a più sfere di vita e valorizza risorse professionali insieme alle altre risorse – affettive, relazionali, valoriali – di cui le persone dispongono.
Molte delle famiglie che beneficiano attualmente del Reddito di cittadinanza usciranno probabilmente dalla condizione di povertà. Allo stesso tempo, purtroppo, la crisi economica spingerà un numero molto superiore di famiglie verso una condizione di deprivazione economica. Ma ora non è il tempo per discussioni pubbliche sull’utilità e sui limiti del reddito di cittadinanza, o per costruire evidenze e per valutare accuratamente l’impatto di questa misura sul numero reale delle famiglie in povertà e sulle condizioni di vita delle famiglie a basso reddito: l’impoverimento economico delle famiglie a seguito dell’epidemia del Coronavirus è talmente ampio che rende difficile ogni possibile confronto fra il periodo temporale in cui il reddito di cittadinanza non era ancora in vigore e questo suo primo difficile anno di attuazione.