“Strade incidono la città come ferite, come arterie in cui scorre la vita, non uguale per tutti. Qualità della vita dove sei? Le percorro con le mani in tasca, conto i miei passi, la sera incombe. […] Mi passano accanto porte e portoni, di nessuno ho la chiave, in nessuno posso entrare”. (V. Merlo1)
In questo periodo sui giornali e sui social network sta trovando ampio spazio la narrazione di quanto sta accadendo nei servizi rivolti alle persone senza dimora a seguito della pandemia.
È un primo passo dal momento che solitamente le persone che li frequentano vengono definiti invisibili, pur se non sono invisibili affatto, casomai troppo spesso sono invisibilizzati. Inizialmente la narrazione è stata di tipo colpevolizzante nei confronti di quelle persone homeless che non rispettavano l’obbligo di stare a casa perché, guarda un po’…un’abitazione non ce l’hanno(!). Nonostante l’evidente paradosso, molte persone senza casa sono state multate in diverse città italiane tra cui Milano e Bologna.
Successivamente ha trovato spazio sulle cronache la situazione esplosiva riguardante i servizi di accoglienza divenuti veri e propri focolai. La situazione è stata definita ‹‹fuori controllo››. Il giorno precedente, invece, sullo stesso giornale erano riportate le parole di un uomo senza dimora contagiato che lamentava il fatto che non fossero state prese adeguate precauzioni e misure di sicurezza a tutela di utenti e operatori.
Da una parte troviamo dunque la comunicazione giornalistica nella sua rapidità e immediatezza, dall’altra è anche necessario soffermarsi su come si è arrivati a questa situazione di pericolo.
Chi scrive ha messo per la prima volta piede in un dormitorio nel 2009, nella città di Torino, in qualità di operatrice. A partire da quel momento ho lavorato per diversi anni in svariati servizi – gestiti all’epoca tutti da un’unica piccola cooperativa che da lì a poco sarebbe fallita – e poi nel 2015 sono tornata a lavorarci per un anno e mezzo circa. Nel frattempo, il sistema dei servizi era già mutato profondamente. La crisi del 2008 aveva lasciato il segno: nuove tipologie di utenti si affacciavano a quei servizi, numeri delle richieste in aumento e nuove realtà del terzo settore erano subentrate nella gestione dei servizi per conto dell’amministrazione locale. Rispetto al passato, molti e diversificati attori erano coinvolti nel processo di governance.
Non è qui possibile sviluppare ragionamenti più di lungo corso ma è importante evidenziare che quello cui assistiamo oggi è il frutto di una storia, di scelte precise, di conflitti e mediazioni non facili, tra attori con ruoli e concezioni della povertà, delle persone in condizione di grave emarginazione e del proprio lavoro spesso molto differenti tra di loro.
Fin dall’inizio, nel mio percorso, le esperienze di ricerca sul tema si sono intrecciate con il lavoro nei servizi, successivamente ho proseguito esclusivamente con la ricerca da sola e in gruppi multidisciplinari, e il sistema dei servizi per persone homeless è stato il caso studio della mia ricerca dottorale.
La prospettiva teorica utilizzata per la ricerca condotta, Street-level bureaucracy Theory (Lipsky, 1980), insegna a ricercatori e ricercatrici a focalizzare lo sguardo sul cosiddetto “livello della strada” al fine di riuscire ad analizzare in modo completo le politiche. Spesso, infatti, accade che l’intervento originariamente immaginato da legislatori nelle alte sfere si trasformi in modo anche sensibile lungo i vari passaggi dalla sua formulazione all’attuazione nella quotidianità lavorativa. In quali direzioni dipende sia da fattori di contesto – legati alla disponibilità di risorse, ai cambiamenti normativi e organizzativi – sia da fattori legati ai margini di manovra degli operatori, alle loro caratteristiche personali e traiettorie di vita. Lo scopo è evidenziare quel che accade sul livello dell’implementazione delle politiche: in questo caso, quindi, dar voce agli operatori in prima linea e alle persone homeless2.
Foto di: Marius P. (2012)
Cosa ci stanno dicendo in questo periodo i frontline workers? Stanno chiedendo che le istituzioni si facciano carico delle gravi problematiche che stanno vivendo nella loro quotidianità lavorativa e che la loro professionalità sia riconosciuta. Nei servizi cosiddetti a bassa soglia – ovvero quei servizi che si caratterizzano per la possibilità di accesso diretto da pare dell’utenza senza obbligo di invio formale da parte di assistenti sociali – è impossibile mantenere le norme di sicurezza che le linee guida per il contenimento del Covid-19 imporrebbero. Stando a quanto raccontato dagli operatori e dalle operatrici sociali torinesi, questo è stato fatto presente immediatamente affinché si prendessero provvedimenti necessari.
Non ci accorgiamo di certo oggi che il modello di accoglienza per le persone che si trovano sprovviste di un’abitazione presenta delle problematicità importanti (Sahlin, 2005; Meo, 2008; Lancione, 2014; Porcellana, 2016) ma, come in altri casi, le conseguenze della pandemia esasperano le condizioni in cui si trova la popolazione in condizioni di grave emarginazione sociale e rendono ancor più visibili e significative le criticità del paradigma di intervento predominante. Allo stesso tempo, come sottolineato qui, alcune possibili indicazioni di un agire diverso sono già in essere. Ci sono alcune persone che si trovano in condizioni di maggior tutela poiché hanno avuto accesso a programmi di Housing First, e dunque a un vero e proprio alloggio, e al reddito di cittadinanza.
A livello nazionale non vi è un’uniformità di interventi vincolante, per cui la predisposizione degli interventi è lasciata in gran parte all’iniziativa delle singole amministrazioni locali. Più o meno numerose associazioni ed enti privati e/o in regime volontaristico completano l’offerta di servizi a disposizione a seconda della realtà locale. Torino, nel panorama nazionale, è un esempio considerato positivo per i servizi disponibili ma, ugualmente, a seguito di quest’emergenza, la situazione nelle strutture di accoglienza è stata definita fuori controllo e pericolosa.
Il cosiddetto staircase approach3, paradigma di intervento predominante, al suo gradino più basso prevede l’accoglienza delle persone in dormitori aperti tendenzialmente dalle ore 20 alle 8. Si tratta di strutture che accolgono decine di persone – nel caso del dormitorio di emergenza gestito dalla Croce Rossa raggiungono il centinaio – generalmente non immaginate appositamente per accogliere chi si trova senza casa bensì riadattate a questo scopo, in alcuni casi in muratura, in altri si tratta di container. Le camere sono in condivisione, il bagno solitamente è un locale unico per tutti, la privacy è impossibile (Campagnaro e Giordano, 2017; Campagnaro e Porcellana, 2013). In questo tipo di strutture è impossibile garantire il distanziamento. Inoltre, in virtù dei ridotti orari di apertura, chi frequenta i dormitori si è comunque trovato nella condizione di dover trascorrere le proprie giornate fuori come spiegano gli operatori e le operatrici.
I frontline workers dell’accoglienza non sono stati in silenzio di fronte a questa situazione, e lo stesso vale per coloro che lavorano nelle Residenze per Anziani definite ‹‹emergenza nell’emergenza››. Anche nel caso delle RSA, Arlotti e Ranci invitano a interrogarsi sulle condizioni in cui tali servizi versavano prima della pandemia.
Dalla prima linea sono arrivate le testimonianze di situazioni di cui è urgente che le istituzioni si facciano carico ed è necessario ascoltarle. Le prese di posizione, le mobilitazioni che si stanno organizzando in tutto il territorio nazionale hanno in comune il rifiuto: di ammalarsi e di vedere i propri utenti ammalarsi – e nei casi più gravi morire – e la volontà di prendersi la responsabilità di rivendicare un’inversione di rotta. Rovescio di ogni margine di manovra, di ogni spazio discrezionale apertamente rivendicato è infatti l’assunzione di responsabilità. Tale assunzione di responsabilità è necessaria per affermare che il diritto alla salute e all’abitare degno devono essere garantiti a chiunque, senza che vi siano vite considerate di scarto (Bauman, 2003). E allo stesso tempo senza che vi siano servizi, e quindi lavoratori e lavoratrici, considerati di scarto o “pattumiera” (Alquati, 2001).
Il “riconoscimento sociale” come tematizzato dalle pensatrici femministe (Mouffe, 2013; Fraser, 2013) è indispensabile sia per le persone che sperimentano la condizione di trovarsi senza dimora sia per coloro che lavorano nei servizi. Non si tratta esclusivamente di stanziare fondi in un regime di occasionalità, dettato ormai dalla situazione di emergenza: si tratta di costruire le basi per un cambiamento che sia strutturale. Dal cosiddetto street-level, gli operatori e le operatrici stanno prendendo parola per dire che così non funziona. “A noi operatori è chiesto di mandare avanti dei servizi che per come sono strutturati sono a rischio”. Con le parole di Caterina, un’operatrice “Finchè non saremo tutti al sicuro non lo sarà nessuno”.
- Operatore che ha condiviso con chi scrive alcune sue poesie di cui nel presente articolo è riportato un estratto. Con l’occasione lo ringrazio nuovamente.
- Nella presente riflessione non è possibile riportare entrambi e si privilegerà il punto di vista dei social workers.
- Si tratta di un modello di intervento che prevede il “passaggio da un servizio di livello inferiore a uno di livello superiore in base ad una logica progressiva” (Porcellana, 2016, 39) fino a raggiungere una condizione di autonomia abitativa.