Chi si è messo in mutua
Chi si è fatto carico della situazione nonostante le proprie paure
Chi non ha scelto ed è stato sopraffatto dall’ansia
Ma il cielo è sempre più blu…
In un precedente articolo ho affrontato il tema di come il distanziamento imposto dall’emergenza Covid-19 sia stato affrontato da chi svolge un lavoro educativo, mettendo in luce come lo strutturare il lavoro a distanza, svolto prevalentemente attraverso lo schermo di un PC o di un cellulare e certamente problematico da un certo punto di vista, abbia anche aperto spazi di relazione sorprendenti.
Ma vi sono casi in cui il lavoro sociale ha invece continuato a prevedere il contatto tra persone e in cui si sono messe in luce dinamiche diverse.
Come è stato vissuto il lavoro sociale da parte degli operatori che lavorano in una comunità?
In queste settimane, nella mia attività di supervisione ho avuto modo di confrontarmi con operatori – generalmente si è trattato di equipe miste, composte da educatori, psicologi, alcuni peer educator e altri operatori a servizio delle strutture – di una comunità per minori, di comunità per tossicodipendenti con doppia diagnosi e di comunità madre bambino e anche in questo caso sono emersi aspetti non scontati. Non si affronta quindi qui un’altra dimensione specifica del lavoro sociale residenziale, quello con gli anziani, che richiederebbe in questo caso un esame specifico.
In comunità si è meno soli che fuori!
Partiamo dagli utenti. Costretti per settimane ad una convivenza 24 ore al giorno, sono parsi consapevoli del fatto che la loro situazione anomala di persone inserite in un percorso comunitario determinava delle differenze e anche delle opportunità non scontate, rispetto a chi vive all’esterno in una fase di distanziamento. Il gruppo dei pari è stato avvertito come una ricchezza, così come il fatto di avere una giornata in qualche modo gestita; gli ospiti si sono sorpresi nel constatare che per una volta si trovavano in una situazione migliore di molte altre persone costrette a vivere in solitudine il distanziamento, riscoprendo così paradossalmente una dimensione umana di normalità nella comunità.
Questo non vuole dire che non abbiano sentito il peso delle limitazioni personali, perché sicuramente alcuni ospiti hanno sofferto particolarmente la situazione di chiusura e hanno riversato il proprio malessere nella struttura; ma il sentimento prevalente, almeno nella fase iniziale, è stato di un “tempo sospeso” che si poteva dedicare a riguadagnare la qualità della vita quotidiana in uno spazio provvisoriamente non segnato dai propri problemi e dal progetto personalizzato predisposto per rispondervi. Una fase per altri versi segnata da angoscia e pesantezza ha acquisito (di nuovo, paradossalmente) in quel contesto una caratteristica di leggerezza. Il tempo sospeso ha favorito questa fase di calma relativa e, anche nelle comunità con utenti con doppia diagnosi, vi sono stati pochi casi di acting out, cioè di azioni aggressive e impulsive utilizzate per esprimere vissuti conflittuali e inesprimibili attraverso la parola, quali scoppi di violenza, atti autolesionistici, abbandoni, in controtendenza all’aumento dei TSO nella popolazione registrato dalle Aziende Sanitarie.
Su questo esito molto ha inciso anche lo stile di lavoro della struttura, con un impatto diverso in quelle di tipo contenitivo e in quelle più aperte al territorio. Certamente per chi era all’interno di una struttura aperta, il fatto di trovarsi improvvisamente chiuso ha generato maggiori sofferenze e anche gli operatori si sono trovati in difficoltà, dovendo reimpostare il proprio lavoro in modalità molto diverse da quella abituali.
Ovviamente questo “tempo sospeso” si sta esaurendo e riparte l’esigenza di riprendere il proprio progetto, il proprio percorso, di rimettere insieme la propria rete.
L’operatore dentro la crisi
L’operatore, a differenza degli ospiti, entra ed esce dalla comunità. È un fattore di rischio, un soggetto che può portare il virus dentro la comunità.
Nei casi in cui tale circostanza si sovrappone con una preesistente situazione di tensione, può aumentare il conflitto preesistente con l’esito di screditare ulteriormente, agli occhi degli ospiti, il ruolo degli operatori e di generare in questi ultimi un senso di frustrazione, di essere considerati non solo come poco utili, ma anche come pericolosi; in generale, comunque, questa ambivalenza si è posta e anche in situazioni non conflittuali è nata una dimensione di complessità: l’operatore è una figura che aiuta, ma al tempo stesso una fonte di pericolo, creando una dimensione non semplice da accettare.
Ma accanto a questo aspetto ci sono molti altri elementi che caratterizzano questa fase dal punto di vista dell’operatore e dei suoi vissuti.
Ci si è dovuti riorganizzare: i turni si sono allungati, sono stati riorganizzati per sopperire al personale in malattia; turni più lunghi che in un qualche modo hanno determinato un allungamento della convivenza: si sta insieme un giorno intero e non solo sei o otto ore e in molti casi questo ha fatto sperimentare agli operatori un nuovo senso dello stare insieme, di condivisione della quotidianità e non solo professionale; non si tratta solo della quantità di tempo passato insieme, ma anche di una diversa dinamica di relazioni e di una diversa scansione della giornata. Gli operatori hanno in generale sentito un minore bisogno dell’ufficio, il luogo chiuso alle altre dinamiche di relazione, quasi un rifugio per l’operatore che vi si reca sia per scopi pratici come lo svolgimento delle pratiche burocratiche, sia per i momenti di confronto con i colleghi in turno, sia quando sente il bisogno di “rifiatare”. Durante la crisi, gli operatori hanno trascorso più tempo negli spazi comuni condividendo la giornata con gli ospiti, è aumentato il senso di “casa” e di familiarità tra le persone, operatori e ospiti, che hanno vissuto insieme nel quotidiano questa fase inedita.
Certamente per molti il lavoro è stato un modo per non interrompere almeno una parte della propria quotidianità: “meno male che posso andare a lavorare, non riuscirei a stare chiuso a casa”. Ma vi è anche molto altro.
La consapevolezza che al di là di tutto le cose vanno fatte ha portato le persone a confrontarsi con la paura per sé e per i propri famigliari, senza per questo mettere in discussione che andare a lavorare fosse doveroso per gli utenti. Questo ha permesso ad alcuni di fare un salto professionale e qualitativo, ovvero di superare delle barriere mentali che altrimenti mai sarebbero state scalfite. Ci si è messi alla prova su nuove emozioni e sensazioni.
Gli operatori si sono trovati di fronte ad alcune scelte connesse con l’accoglienza degli ospiti. Mascherina sì o mascherina no? È stata un’importate riflessione interna che ha visto i vari gruppi di lavoro applicare soluzioni diverse e giustificare il proprio comportamento in modo condiviso dalle equipe. Per alcuni “se ci mettiamo le mascherine in comunità mettiamo distanza tra noi e loro”, per altri “ci mettiamo le mascherine per tutelare loro” e “mettiamo le mascherine, cosi non facciamo finta che il problema non ci sia, è anche un modo per richiamare gli ospiti al problema”. Per poi scoprire talvolta – è avvenuto in una comunità per minori – che la discussione è superata dai fatti. Un’operatrice, spaventata e a disagio nell’andare al lavoro per timore del contagio, testimonia: “sono entrata in turno con la mia mascherina e i miei buoni propositi per tutelare me e gli altri, ma appena mi hanno vista mi sono corsi incontro, saltati al collo e riempita di baci. Ero fregata, i miei codici saltati per aria, che bello vederli e stare con loro, c’era solo da lavorare e fare ciò che andava fatto, la vita è stata più forte delle mie paure”.
Cosa abbiamo imparato in queste settimane
E per concludere questo piccolo riassunto di che cosa hanno rappresentato queste settimane, esploriamo le reazioni degli operatori.
Vi è stato chi ha somatizzato, pensando di essere ammalato fino a scoprire di non esserlo e rendendosi invece conto – questa è stata la scoperta – di quanto fosse condizionato dal clima che tutti stavamo vivendo.
Vi sono stati operatori che hanno sofferto le limitazioni personali, l’isolamento, nutrendo un senso di rabbia spropositato, sfociato in atteggiamenti di svalutazione di sé e degli altri. Vi è stato chi non ha potuto, nella propria vita di tutti giorni, fare a meno di trasgredire, non rispettando le regole di distanziamento sociale via via imposte.
Insomma, anche l’operatore si è scoperto, nella sua vita personale, fragile e anche, talvolta, insofferente verso le regole sino a violarle: ha sperimentato su di sé, sia pure in una situazione estrema, le condizioni che si è tante volte trovato a rimproverare agli ospiti.
Tra negazione e supereroismi ci si è riscoperti fragili, condizionabili e simili. Questo ha aiutato gli operatori a comprendere quanto anche gli ospiti potessero vivere gli stessi condizionamenti e da questa consapevolezza empatica è forse possibile anche fare alcuni passi verso il ripensamento delle strutture. Si è compreso che una persona che in talune situazioni non riesce a rispettare le regole non è, di per sé e solo per questo, “un trasgressore”: tra le persone e i loro comportamenti ci possono essere, quindi, dei condizionamenti che portano ad agire in un modo o nell’altro. Nulla di nuovo, in teoria, per chi fa lavoro sociale, ma una cosa è leggerlo sui libri o dirlo a proposito degli altri, una cosa è provarlo su di sé.
Quello che è certo è che in questo periodo il lavoro in comunità è stato stancante più del solito, tra cambi turni, poco personale e incertezze sul domani che hanno messo gli operatori a dura prova. Ed è questo un motivo in più per guardare al loro lavoro con profonda gratitudine.
… Ma il cielo è sempre più blu…
Ho letto il primo articolo trovandolo deliziosamente esplicativo di un particolare che a molti forse sfugge : la vita vissuta in questo periodo di distanziamento ha paradossalmente dimostrato vicessitudini di una vicinanza più intima, più profonda, più ricca, più aperta più forte. A dispetto della lontananza! Questo secondo articolo mi commuove, mi permette di entrare in un mondo che pochi hanno preso in considerazione dal punto di vista relazionale in merito alle emozioni che si sono create in questi ambiti comunitari. Interessante fotografia di situazioni gonfie di significati che parlano di noi Uomini
Grazie Georges