La più grande paura di qualsiasi essere umano, anche di chi ha scelto di vivere come un eremita, non è quella di morire. È morire da soli. D. Carrisi
Quando ero un giovane medico ospedaliero, ho visto persone in fin di vita lasciate da sole in una stanza isolata. Tale misura era giustificata – mi fu detto – dal desiderio di risparmiare ai vicini di letto, nelle grandi camerate, lo spettacolo angosciante dell’agonia. Già a quel tempo avevo tuttavia la sensazione che una tale pratica mancasse di umanità: temevo che il paziente potesse provare uno stato di abbandono e che in qualche modo noi curanti ne fossimo responsabili.
È passato mezzo secolo da quando avevo iniziato a fare il medico ospedaliero e devo dire che la situazione in Svizzera è cambiata molto. Le cure palliative e l’attenzione alla qualità del fine vita hanno permesso agli anziani e ai malati di morire, il più delle volte, circondati dai loro cari o, in mancanza di questi, da medici e infermieri umanamente impegnati.
Ma questa pratica, che si era relativamente consolidata, viene oggi per forza abbandonata in terapia intensiva, e non solo. Il Covid-19 ha cambiato le regole del morire.
È una delle conseguenze delle condizioni di emergenza e di lavoro eccessivo che sfiniscono infermieri e medici in prima linea in questo periodo di pandemia. I pazienti muoiono senza un momento di addio dai loro cari, e questi ultimi, rimangono soli nel loro dolore. Fortunatamente ci sono delle eccezioni. Il 20 marzo, il telegiornale della Svizzera Romanda mostrava dei rianimatori che parlavano in videoconferenza con la figlia di una paziente in gravi condizioni, intubata e sedata, mentre gli infermieri la filmavano per lei. Mi è sembrato un atto di umanità, un gesto finale di pietà filiale, anche se da remoto, che ho trovato commovente.
Alla fine della vita, lo stato di coscienza è notevolmente alterato; in terapia intensiva poi, la sedazione è indotta medicalmente. Ma l’essere umano – cosciente o meno – non affronta meglio il passaggio se qualcuno gli tiene la mano? Eppure i pregiudizi che ci rappresentano al momento della morte come necessariamente soli sembrano duri a morire.
Ho sentito una testimonianza di un infermiere a un telegiornale della RAI: un paziente, parzialmente cosciente, urlava durante la notte per chiedere che qualcuno venisse da lui per alleviare la sua pena e la sua straziante paura. Il sanitario aveva altri compiti e non aveva la disponibilità, anche se avesse voluto, anche se sarebbe stato verosimilmente sufficiente mettergli semplicemente una mano sulla spalla e dire: “sono qui”. Questa tensione tra l’umano e il “tecnico” è spesso per gli operatori dolorosissima, anche se non sempre ne sono consapevoli.
Se l’esperienza della morte, così difficile da attraversare, riguarda principalmente l’individuo alla fine della vita, non risparmia, peraltro, coloro che lo circondano, che siano presenti o meno. Non si muore da soli perché necessariamente “moriamo con gli altri”.
L’uomo, per natura, non vive e non sopravvive da solo. La nostra morte interrompe per noi il legame essenziale che abbiamo con gli altri. Proprio questo legame – che si realizza nella presenza degli uni con gli altri, soprattutto nei momenti critici – rende la nostra vita possibile e l’esperienza del vivere unica e ricca.
Questo legame è per definizione limitato nel tempo dalla fine della propria vita biologica. Ma esso non si interrompe per coloro che restano. Per loro la separazione merita quindi uno spazio di cura, un rituale, il tempo del congedo.
Per Philippe Ariès1, la buona morte è quella che avviene “in presenza”, circondati dai propri cari, in una atmosfera di pacificazione e in un addio ritualizzato che offra lo spazio per la memoria e per una ricerca di senso. Ma questo rituale è stato bandito dall’epidemia: non c’è più un corteo funebre, i morti sono ammassati, li abbiamo anche visti traferiti dai camion militari per destinazioni lontane. La sepoltura viene rinviata sine die, la consolazione sociale non sussiste più, e nel caso, avviene solo da remoto.
Per la prima volta, in questa congiuntura, mi sento di appartenere in pieno alla classe sempre più numerosa degli anziani, quindi a una categoria a rischio … di essere trascurata. È quanto proposto – non senza una certa ambiguità – in Svizzera dalla recente raccomandazione dell’Assm2, in relazione ai potenziali limiti dei nostri sistemi sanitari: l’età è indirettamente presa in considerazione nel quadro del criterio “prognosi a breve termine” perché, nel contesto dell’epidemia Covid-19, (…) l’età avanzata costituisce un fattore di rischio per la mortalità.
In Italia, “Le raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi (TI) e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse” della Siaarti3 del 6 marzo 2020 sono in un certo senso altrettanto ambigue perché suggeriscono implicitamente che sia inevitabile il sacrificio di moltissimi anziani a causa dell’età stessa e della loro co-morbidità. Esse affermano: Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in TI. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più̀ probabilità di sopravvivenza (…) intesa come sopravvivenza individuale, per lasciar cioè posto ai più giovani.
A mio parere le due raccomandazioni sottintendono che la vita dell’individuo prende valore dal suo orizzonte di futuro, dalla sua durata. Non che questa prospettiva non abbia una sua giustificazione. Ma si potrebbero trarne delle conclusioni preoccupanti, nel senso di un certo disarmo del pensiero etico. D’altronde, si sa, di fronte a un rischio vitale totale, è l’azione che importa e non il pensiero. Bisogna intervenire rapidamente per essere efficaci.
Però lasciar morire gli anziani solo perché le loro prospettive di vita sono piú brevi, potrebbe rivelarsi un approccio discutibile sul piano morale. Sarebbe come un negare il valore o l’intensità di un’esistenza perché il tempo che le è concesso è ridotto. Anche noi vecchi sentiamo di poter ancora iscriverci in una società che riflette sul senso della vita, sul posto di ciascuno indipendentemente dall’età o dallo stato di salute.
Le due raccomandazioni etiche citate inoltre non considerano la molteplicità dei legami che sono contemporaneamente spezzati, e spesso nel modo tragico di cui si è detto. Esse invitano a lasciar morire gli anziani – che saranno perlopiù da soli – e senza in fondo prendere in considerazione che muoiono anche “con gli altri”. Un morto che viene abbandonato muore due volte.
Permettetemi perciò un ultimo pensiero che deriva dal mio lavoro di terapeuta della famiglia. Nelle nostre terapie, nelle nostre scuole non possiamo ignorare i sovvertimenti che deriveranno da queste esperienze di lutto, di solitudine, di disperazione persistente. Le famiglie, le coppie, gli individui che avranno attraversato la malattia o perso alcuni dei loro cari, dovranno anche confrontarsi con le scelte operate dalla società, come quelle indicate appunto dalle due raccomandazioni citate.
La nostra responsabilità professionale ci impone di non aspettare a vedere passivamente quali saranno le conseguenze della pandemia sul vissuto individuale, sulle relazioni familiari e nel tessuto sociale all’interno del quale avremo da intervenire.
Per noi è imperativo riflettere su quanto sta succedendo per anticipare la posizione che dovremo prendere. E non solo dal punto di vista della psicologia o dell’etica, ma anche di fronte, per esempio, alla nuova povertà che incombe. Spetta anche a noi terapeuti garantire la solidarietà di cui le famiglie, i minori, la società avranno ancora più bisogno.
- Ariès Ph. (1974) : Essais sur l’histoire de la mort en Occident. Seuil, Paris.
- Académie Suisse de Sciences Médicales, 24.3.2020
- Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva
Articolo bellissimo e necessario
Grazie, molto vero e umano!
Un senso di umanità che non solo apprezzo ma condivido come indispensabile e prezioso. Eppure molto raro.
Grazie per la chiarezza del’analisi. La solidarietà rende più accettabili le situazioni più tremende. Molte decisioni di questo periodo non hanno salvaguardato la vicinanza necessaria a chi soffre. Siamo in molti ad avere perso, malati parenti operatori.