Noli me tangere. L’asocialità imposta da un virus


Anna Paola Lacatena | 15 Maggio 2020

Tra le poche inconfutabili certezze di questi ultimi mesi c’è che per evitare i contagi, e contestualmente salvare il Servizio sanitario, bisogna distanziarsi.

 

L’ha detto la storia.

Nel 1918, infatti, ignorando i casi di contagio di Spagnola che si erano verificati tra i soldati in partenza per la I Guerra Mondiale, alti graduati dell’esercito americano organizzarono una grande sfilata per le strade di Philadelphia.

Dopo una settimana il virus aveva fatto oltre 4.500 vittime nella sola città dello Stato della Pennsylvania. Di lì a pochi mesi il mondo avrebbe contato oltre 100 milioni di vittime.

 

Lo impone la scienza.

Lo ordina perentoriamente il Coronavirus.

Le misure restrittive devono farsi tanto più rigide quanto più resta ignoto il numero delle persone infette. Sono efficaci soprattutto se vengono introdotte quando meno dell’1% della popolazione ha contratto il virus.

Con il diffondersi pandemico del Sars- CoV-2, nostro malgrado, abbiamo iniziato a prendere confidenza con termini come quarantena, isolamento, chiusura preventiva, distanza, divieto di assembramento, mascherina a cui il consueto slancio anglofono ha aggiunto lockdown, red area, droplet, database, smart working, ecc.

Tutti coinvolti, tutti a rischio, dunque, tutti il più possibile fisicamente separati.

 

Abbiamo provato a sentirci uniti con il patriottismo in musica e parole, uscendo sui balconi contemporaneamente da nord a sud, stressando la rete con lezioni, tutorial, foto, immagini, videochiamate. Abbiamo cercato di accorciare le distanze con l’ingegno, la creatività, la solidarietà, la compartecipazione, con l’assistenza. Tutto tranne che stare fisicamente vicini.

Può bastare?

Per quanto sostenuto sin dai tempi di Aristotele (IV secolo A.C.), no.

L’uomo è un animale sociale incapace di vivere lontano dagli altri.

In termini di sopravvivenza, dunque, l’attacco sferrato dal Coronavirus all’umanità non può ridursi solo ad una questione sanitaria. In ballo c’è molto di più.

 

Il mondo sociale presenta codici, regole ma soprattutto una sua struttura spazio-temporale. La vita dell’essere umano è inserita all’interno di un sistema sociale sin dall’infanzia. Il confinamento in casa, con tutte le restrizioni imposte, ha reso il tempo e lo spazio uguale, per grandi e bambini. Quando le ore, però, non sono scandite da rituali, appuntamenti con la propria storia personale e con quella degli altri ma sono appiattiti da una ripetitività di azioni, pensieri e comportamenti la conseguenza più diretta è il malessere, la sofferenza della persona, soprattutto di quella più giovane, più fragile, più sola.

La socializzazione, il gioco, il contatto, l’abbraccio non sono optional rivedibili. Sono esigenze basilari.

La vita umana si fonda sull’interconnessione e il tatto è il senso della prossimità per eccellenza. Esso chiama in causa tutto il corpo, squarcia il vuoto e permette all’essere umano l’esperienza del limite, della frontiera. È alleato imprescindibile della memoria così come della conoscenza. Attraverso il tocco percepiamo l’esistenza dell’Altro, delle cose, della vita stessa. Ciò che non possiamo toccare è irreale, illusorio.

 

Gli ultimi decenni in cui hanno trionfato scientismo e tecnicismo ci avevano illuso che potevano (dovevamo) andare oltre i nostri limiti, che superarli era una condizione desiderabile, e ora ci ritroviamo a non poter toccare le persone a noi care (fatta eccezione per i conviventi), a non poter testare la nostra controspinta identitaria, restando sospesi dinnanzi all’impossibilità di una vera sensazione di pienezza.

«Vedere non è sufficiente per avere prova della realtà, solamente il tatto ha questo privilegio. L’abolizione del tatto fa scomparire un mondo ormai ridotto al solo sguardo, ossia alla distanza e all’arbitrarietà, e soprattutto al miraggio.» (Le Breton, 2007)

Così come scrive Sartre: «La carezza non è un semplice sfiorare: ma foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la mia carne con la mia carezza, sotto le mie dita. La carezza fa parte delle cerimonie che incarnano l’altro, (…) il desiderio si esprime con la carezza, come il pensiero con il linguaggio. E la carezza rivela la carne dell’altro proprio come carne a me e all’altro.» (1984, pp.476-477)

William James ha teorizzato che non si può separare l’emozione dall’esperienza vissuta dell’oggetto o dell’evento scatenante. Per la sua “teoria periferica”, in contrapposizione alla “teoria centrale delle emozioni” (le emozioni come elementi neuronali) di Walter Cannon, si può parlare di emozione e, conseguentemente, dare alla stessa un nome, solo quando l’evento sociale o l’interazione con un altro soggetto vengono vissuti fisicamente e interpretati in base a categorie culturali e sociali.

L’emozione, dunque, passa attraverso il corpo, se fosse puramente cognitiva difficilmente sarebbe in grado di produrre modificazioni fisiologiche con conseguenti gesti espressivi orientati verso l’esterno (Dumouchel, 1995).

Martha Nussbaum giunge ad una sintesi secondo cui: «Le emozioni non sono soltanto il carburante che alimenta il meccanismo psicologico di una creatura ragionante; sono parti, altamente complesse e confuse, del ragionamento stesso di questa creatura.» (2001; trad. It. 2004, pag. 19)

 

Le scelte prodotte dai soggetti in termini di vita privata, così come i gesti che le rendono tangibili dipendono dalle regole e dalle possibilità offerte dalla società. Tutto ciò perché anche quello che consideriamo privato in realtà non lo è. Si nutre, infatti, di commenti, indicazioni, giudizi, consigli, perché interagire con gli altri e con l’ambiente impongono al soggetto di nutrirsene.

Negli ultimi decenni si è assistito ad una deriva di questi bisogni, utilizzati anche per altri fini.

Variante che dovrebbe destare preoccupazione nella società globale, per la sociologa Eva Illouz, infatti, è il capitalismo emotivo: «I repertori culturali determinati dal mercato modellano e informano le relazioni interpersonali, e le relazioni interpersonali sono al centro dei rapporti economici (Illouz, trad. It. 2007, pag.32)

Il capitalismo emotivo limita, dunque, l’irrazionalità delle emozioni a vantaggio dell’azione strumentale, le razionalizza privandole della poetica del gesto, le mercifica conferendo loro un valore d’uso, un costo, un prezzo di scambio. In termini marxiani siamo alla reificazione dell’emozione.

Nonostante la necessità del distanziamento sociale, il Coronavirus ha indotto le mani dei medici a stringersi a quelle dei pazienti per accogliere, contenere e placare le paure e, in alcuni casi l’impotenza, di entrambi. Il contatto ha permesso l’espressione di un sentire autentico e profondo che le parole mancanti o rese insignificanti dalla gravità della situazione non potevano trasmettere.

Toccare qualcuno è risultato, quasi per una sorta di paradosso anche e soprattutto al tempo della Covid-19, l’unico modo reale per prendersi cura e accogliere la parte più profonda e fragile dell’essere umano.

Per dirla alla Lévinas (1997) ogni Altro non come oggetto ma come mistero avvicinato e compreso un po’ di più attraverso il tocco.

 

E il bacio?

Il bacio può essere inteso come un gesto di affetto, d’amore, di rispetto, di devozione compiuto posando le labbra sulle labbra di qualcuno o di qualcosa.

Nel 1886, il danese Kristoffer Nyrop dedicò al segno più universale e trasversale del comportamento umano (e non solo, come invece era stato erroneamente teorizzato da Darwin) un intero trattato.

Il gesto concentra e racchiude in sé, infatti, un’infinità di significati e simbolismi che riportano all’antropologia, alla religione, alla biologia, alle neuroscienze, all’arte (pittura, scultura, cinema). La semplicità capace di serbare la storia dell’umanità.

I latini tipizzarono i baci in: osculum il bacio del rispetto; savium, il bacio dell’amore e del desiderio e basium, quello dell’affetto. Così come puntualizzava il teologo e storico spagnolo Isidoro di Siviglia, il primo è riservato ai figli, il secondo, inteso quale gesto erotico, alle prostitute, il basium alle mogli.

Esiste addirittura una scienza che studia il bacio: la filematologia.

Quando diamo un bacio, però, scambiamo con il partner all’incirca 80 milioni di batteri (cento milioni di germi al centimetro cubo), più esattamente 278 colonie, dei quali il 95% è innocuo.

Nella maggior parte dei casi un bacio non rappresenta un pericolo per la nostra salute, anzi, potrebbe essere un ottimo modo per rinforzare il sistema immunitario.

Al tempo del Coronavirus, però, quello che sappiamo con certezza è che tramite i baci, si può essere contagiati, ovviamente da persone che abbiamo contratto il virus (sintomatici, paucisintomatici o asintomatici).

I baci sono mezzo di contagio, dunque, e conseguentemente vengono sconsigliati, fatto salvo lo scambio con persone con cui si divide la casa durante il confinamento.

 

Si può ipotizzare che a conclusione del lockdown, le coppie che abbiano già vissuto i giorni dell’emergenza lontani per varie ragioni – da questioni meramente logistiche o lavorative a implicazioni dettate da relazioni extraconiugali, ecc. – dovranno ulteriormente attendere l’apertura dei confini regionali o nazionali,  facendo contestualmente i conti con la definizione di “congiunti”, guardandosi con diffidenza dato il senso di estraneità indotto dalla prolungata lontananza, lavorando sull’ansia di ritrovarsi al cospetto dell’Altro con il quale non si sono divisi gli spazi del confinamento.

I tentativi del virus di minare il capitalismo spinto, di richiamare l’attenzione del mondo sulle questioni ambientali, di spostare il focus su di una sanità pubblica tutta da ridisegnare, di ammonire sulle disuguaglianze sociali ed economiche, di ricordare le vere priorità dell’essere umano, di modellare un’economia più sostenibile e inclusiva appaiono drammaticamente leggibili.

Ciò che in questa logica di auspicato rinnovamento appare, invece, meno decodificabile è una certa inclinazione dell’agente patogeno all’asocialità. Praticamente azzerato il contatto con l’Altro – non confinato nella stessa casa – dello stesso forse però, potremmo sentirne ancor più forte il bisogno e il desiderio. Allora sì che il Coronavirus potrebbe restituirci un Noi migliore. Allora sì che restare distanti nel presente potrebbe regalare nuove future prospettive.

 

A seguito delle tristi vicende degli ultimi mesi, siamo tutti costretti a rivedere le nostre modalità di vita, ridefinire le priorità, ridimensionare l’impatto dell’uomo sulla natura, acconsentire alla decrescita della produzione e dei consumi. Non possiamo e non potremo, però, dirci esseri umani privandoci dell’esperienza della vicinanza. La conoscenza dell’Altro, infatti, può avvenire solo in modalità multisensoriale, ossia con tutti e cinque i sensi (Lowen, 1970).

Attendiamo tempi migliori, dunque, ma senza dimenticare questa umana e irrinunciabile prerogativa.