Per tanti anni abbiamo commentato e denunciato la medicalizzazione del disagio sociale; pensiamo all’uso sempre crescente di ansiolitici e di antidepressivi, o anche, almeno in passato, alla psichiatrizzazione del dissenso e la creazione dei manicomi o le diffuse diagnosi di isteria o altro. Per tutti i problemi sociali, o almeno per molti, si era trovata una “medicina” creando così un “biopotere” sui molti aspetti del sociale1.
Oggi per una criticità di un pericolo che nasce e si sviluppa solo nel “bios” non ci sono invece delle possibili medicine, né preventive nè curative, e l’unica terapia collettiva possibile sono i comportamenti sociali. È una situazione che ci fa passare dalla medicalizzazione della salute alla socializzazione della malattia. È qualcosa che era già successo in passato durante le epidemie che la storia anche recente ha visto, ma questa volta ci sono delle caratteristiche nuove che riguardano appunto il comportamento sociale.
Solo due secoli fa non c’era coscienza dell’origine microbica delle epidemie tanto che si pensava, ad esempio, che potessero esser prodotte dagli untori con malefici unguenti; nel caso delle epidemie di colera si era capito che il contagio fosse oro-fecale e nel vaiolo o nell’Aids e invece il contatto fisico. In queste epidemie “influenzali” dalla Spagnola all’Asiatica, dall’Ebola alla Sars, invece, il contagio avviene anche senza toccarsi e senza “vedere” ne il virus colpevole ne il supporto su cui si è insinuato; è vicino all’immagine del diavolo.
La funzione del nostro corpo che assolutamente non possiamo evitare di avere è la respirazione ed è proprio respirando che rischiamo oggi di ammalarci. Ci sono altre possibili fonti di contagio consistenti nel toccare superfici infette ma sembra che queste possano considerarsi marginali anche se ne dobbiamo tenerne conto provvedendo ad usare ed a consigliare le necessarie misure igieniche.
Se il pericolo viene dal respirare potremmo pensare allora che basta filtrare l’aria, e cosi risolveremmo il problema; e invece se le “mascherine” sono indispensabili per applicarle ai malati in quanto impediscono la diffusione di goccioline infette nell’ambiente, invece per chi volesse usarle per prevenzione purtroppo l’efficacia non è elevata sopratutto per le difficoltà di un uso corretto e continuativo. Sono anche “usa e getta” perché riutilizzare una mascherina può esser molto pericoloso se questa era stata prima utile filtrando ma anche trattenendo il virus. Può essere anche un aspetto negativo se la mascherina dà una sicurezza che induce poi a non avere comportamenti più appropriati come il mantenere una distanza da altri soggetti.
E allora l’unica prevenzione realmente efficace può avvenire evitando che le persone di avvicinino l’una all’altra, cioè si potrebbe dire impedendo ogni occasione di socializzazione. È curioso che la nostra generazione che ha affrontato la stagione del terrorismo invitando a non sacrificare il ritrovarsi assieme, favorendo raduni e manifestazioni, chiedendo di tornare per strada a vivere normalmente, oggi si trova in una situazione del tutto capovolta costretta ad accettare il confinamento sino a non uscire del tutto più di casa propria.
Quindi la salute non la si tutela più “ciascuno per sé”, ma quasi completamente “ciascuno per tutti”; la responsabilità diventa collettiva e quindi questo è ciò che invece produce ancor più un sentimento di socializzazione. Forse mai ultimamente come in questi giorni ci siamo sentiti appartenenti ad una sola comunità e dipendenti dalla sua salute.
Di fronte a questa epidemia si sono pure asottigliate le differenze sociali; fa specie sentire che si sono contagiati Presidenti di Regioni, Parlamentari, Giornalisti, Attori, Sportivi; di fronte a questo contagio le differenze sociali contano molto poco e siccome ogni infetto può essere un pericolo, anche l’assistenza diventa uguale e importante per tutti.
Ma cos’è cambiato, a livello sociale, rispetto alle epidemie di questo tipo che si sono viste nel secolo scorso? È soprattutto la comunicazione che fa sì che tutti si sia scesi in piazza, la “piazza televisiva”, ad ascoltare notizie e disposizioni. Abbiamo visto come è cambiato il clima sociale durante questi primi giorni dell’epidemia: dalla minimizzazione, alla difesa degli interessi economici, al fastidio per le prime misure sino al consenso pressoché generale di tutta la popolazione. Queste oscillazioni sono state prodotte, nel bene e nel male, dalla presenza massiccia dei media.
Un altro aspetto rilevante di ciò che si sta modificando è il ritorno a dare importanza alla competenza. Le cronache dell’epidemia da vaiolo in Francia a fine ottocento riportano l’intervento di un deputato dell’assemblea nazionale che di fronte ai colleghi medici che insistevano perché fossero prese determinate misure dichiarò: “sont bien envahissants ces médecins”. Il Presidente del Consiglio invece oggi, in ogni comunicazione pubblica, ripete spesso che le misure adottate dalla politica sono quelle suggerite, quasi imposte, dal comitato scientifico. Non c’è più nessuno che pensa si debba lottare contro la casta dei medici e nessuno pensa più che chiunque sia in grado di dire e di fare quello che serve per la salute della popolazione.
Ancora un’altra importante modifica nel sentire comune è il rapporto tra salute ed economia. Chi ha frequentato i tavoli del MEF negli ultimi anni sa come all’equilibrio economico siano state sacrificate molte delle risorse lesinate alla sanità. Per anni si è gridato agli sprechi della sanità e all’insostenibilità della spesa sanitaria per accorgersi oggi che per fortuna l’impegno degli operatori è riuscita, nonostante tutto, ad essere resiliente e a mantenere un sufficiente livello di qualità del SSN. Fa oggi rabbia ascoltare che chi ieri chiedeva il contenimento della spesa oggi accusa proditoriamente chi lo ha fatto, e per fortuna lo ha fatto in misura non del tutto devastante.
Ma quando finirà questa epidemia? Impossibile dirlo! Non si sa innanzitutto come si comporterà il virus, se e come muterà, se sarà sensibile o meno ai climi caldi e secchi. Se il virus rimarrà quello che è oggi, difficilmente si può pensare che l’epidemia possa terminare a breve termine. Nei modelli di analisi delle epidemie si identificano in una popolazione di “N” elementi gli “S” elementi suscettibili, i “NS” non suscettibili, gli “I” infetti, gli “R” cosiddetti rimossi, cioè che sono guariti o purtroppo che sono deceduti. L’epidemia si diffonde dai contatti tra “S” ed “I” e quindi teoricamente può esaurirsi solo quando tendono a zero gli “S” o gli “I”.
Per ridurre gli “S” la misura più efficace, se fosse possibile, sarebbe quella di far aumentare il rapporto “NS”/”S”, e ciò può avvenire o aumentando i non suscettibili, ad esempio vaccinando se fosse possibile ma oggi ahimè non lo è, o attendere la diminuzione degli “S” che però accade solo dopo che tutti i suscettibili si sono tutti contagiati. L’altra alternativa è diminuire i contatti tra “I” ed “S”, cioè confinare gli infetti o diminuire comunque i contatti tra gli “S”, dato che tra di loro potrebbero celarsi degli “I” asintomatici non riconosciuti.
Una diminuzione dei contatti potrebbe far si che per ogni infetto diminuiscano i contagi e da due/tre come adesso, riescano a scendere sotto l’unità ed in questo caso gli infetti diminuirebbero necessariamente. Se ad esempio solo un infetto su due fossero i responsabili di un solo contagio, allora il numero di infetti si dimezzerebbe progressivamente.
Se l’epidemia non creasse problemi assistenziali l’alternativa migliore sarebbe che durasse il meno possibile e quindi che i suscettibili si esaurissero il prima possibile, ma se invece come in questa epidemia da Covid-19 un 15% degli infetti ha bisogno di assistenza sanitaria e un 5% di importanti cure ospedaliere, allora diventa importante rallentare l’andamento dell’epidemia in modo che il valore assoluto corrispondente a quel 5% non superi la capacità del sistema sanitario di far fronte ai bisogni dei malati. Il grafico qui riportato illustra questo concetto:
Questo chiarisce perché il problema maggiore sia oggi quello di non superare la domanda di assistenza di terapie intensive compatibile con l’attuale offerta anche se attualmente questa sia in via di incremento. Per questo motivo è essenziale il consenso totale alle indicazioni del Governo e anche una critica che dica che queste non sono sufficienti potrebbe portare a non adeguarsi neppure a queste.
Sarà anche importante come si uscirà dall’epidemia: non saremo più come prima e dovremo far tesoro delle maggiori consapevolezze acquisite per non regredire nuovamente, anche perché se oggi il maggior nemico è il virus, oggi ce ne sono altri di cui per ovvi motivi non se ne parla, ad esempio l’inquinamento, il riscaldamento globale, le migrazioni, le guerre, la povertà, eccetera. Non c’è che da auspicarsi una maggior capacità futura di affrontare tutti questi problemi usando i valori sociali in questi giorni ritrovati e speriamo anche la maggior capacità di decidere consensualmente come per lo più sta accadendo.