Il Reddito di cittadinanza e la povertà abitativa


Antonio Tosi | 15 Novembre 2019

Se non altro perché vi è previsto, in aggiunta al contributo di integrazione al reddito, un supplemento per pagare l’affitto o il mutuo, l’introduzione del Reddito di cittadinanza solleva diverse domande sul ruolo che potrebbe avere nel contrastare la povertà abitativa e nel ridurre – grazie al sostegno previsto per affrontare i costi abitativi – la povertà in generale. Ma non è facile dare una risposta a queste domande, per diverse ragioni: perché mancano sufficienti dati di ricerca sulla povertà abitativa in Italia; perché la logica del Reddito di cittadinanza prescinde totalmente da considerazioni relative alle politiche abitative; e perché il ridimensionamento dell’operazione rispetto al progetto iniziale rende difficile valutarne l’efficacia complessiva (anche) dal punto di vista abitativo. Alcune osservazioni sono tuttavia possibili derivandole dalla impostazione generale del provvedimento.

Il punto di partenza è il ruolo che le politiche di sostegno al reddito possono svolgere per le situazioni di povertà abitativa. Altrove segnalavo il contributo importante (a maggior ragione se si considera la stagnazione delle politiche abitative sociali nel Paese) che le misure non-housing, di welfare generale, potrebbero dare per affrontare i problemi abitativi dei poveri: tra queste, appunto, le misure di sostegno al reddito. Assumendo peraltro che, nel nostro caso, fosse necessario avviarne altre che potessero migliorare la “socialità” del sistema abitativo: dall’incremento dell’edilizia sociale e dell’affitto a basso costo ad un sistema di sostegno per il pagamento dell’affitto.

 

La pertinenza del Reddito di cittadinanza: un reddito per affrontare i costi abitativi

I costi abitativi (le spese per l’affitto o il mutuo e le spese per combustibili ed energia elettrica e per la gestione della casa) sono un fattore importante, e il più “trasversale”, della povertà abitativa; e sono un importante fattore di rischio di caduta nella povertà economica o di peggioramento della condizione di povertà. Poiché offre un sostegno che permette di affrontare questi costi, il Reddito di cittadinanza può dare un contributo significativo per contrastare la povertà abitativa. È per l’integrazione al reddito – dunque il Reddito di cittadinanza nel suo insieme: al di là dei supplementi previsti per chi paga un affitto o un mutuo – che questa misura può essere considerata interessante dal punto di vista sociale abitativo. Il Reddito di cittadinanza mette a disposizione in misura (teoricamente) estesa un elemento di protezione, relativo al fattore di deprivazione più comune, che il sistema housing in questo momento offre soltanto in misura molto modesta.

L’interesse del provvedimento è evidente in un paese in cui la situazione abitativa è particolarmente grave e i costi abitativi hanno svolto un ruolo crescente nel determinare situazioni di deprivazione: come è confermato dai dati dell’ultimo Overview of Housing Exclusion in Europe (2019) curato da Feantsa e Fondation Abbé Pierre, che mostra la gravità del disagio tra la popolazione povera rispetto al complesso della popolazione (i dati sono riferiti al 2017). La “grave deprivazione abitativa” (la presenza cioè di più fattori di disagio: sovraffollamento, degrado, mancanza di servizi essenziali) interessa in Italia il 5,5% delle famiglie (contro il 4% in Europa). Per le famiglie povere l’incidenza sale al 9,3% (contro il 9,1). Problemi di sovraffollamento toccano il 27,1% della popolazione (15,7% in Europa); l’incremento tra il 2007 e il 2017 è stato dell’11,5% (in Europa vi è stato un decremento dell’11,3%). Per i nuclei poveri, il tasso di sovraffollamento è del 36,9% (+0,8), in Europa del 26,5 (11,7). Mentre per il complesso della popolazione le spese per la casa tra il 2007 e il 2017 sono diminuite, per le famiglie povere sono aumentate. Nel 2017 il peso dei costi abitativi è pari al 17,6% del reddito disponibile (+3,0); per i nuclei poveri è pari al 36,8% (+6,3). I nuclei interessati da “sovraccarico dei costi abitativi” (costi abitativi che superano il 40% del reddito) sono l’8,2% (+9,3 tra il 2007 e il 2017); per i nuclei poveri l’incidenza sale al 32,9% (+ 25,6).

Gli sfratti sono la conseguenza più visibile di questo quadro, e aumentano decisamente con la crisi immobiliare ed economica: da 33.000 prima della crisi a 56.000 nel 2016.

Certo ci vorrà del tempo, e molta ricerca sarà necessaria (sull’estensione della platea dei beneficiari, sull’incidenza dei sussidi rispetto ai costi, sull’ammontare del reddito residuo ecc.) per valutare la reale portata del Reddito di cittadinanza nel trattare la povertà abitativa. Intanto è possibile qualche osservazione sulle possibili implicazioni del provvedimento e sui suoi limiti.

 

Il sistema housing e i limiti abitativi del Reddito di cittadinanza

Le implicazioni abitative del Reddito di cittadinanza vanno valutate considerandone il rapporto con le caratteristiche del sistema housing e delle politiche: in particolare con i tratti che riducono la capacità protettiva del sistema italiano nei confronti della povertà abitativa. Vi sono due principali questioni, tra loro collegate. La prima è la possibilità che quanto previsto con il Reddito di cittadinanza possa rafforzare i limiti e gli squilibri del sistema e confortare logiche che sono lontane dal quelle delle “buone” politiche:  contraddirne in particolare gli obiettivi di razionalità e di equità – a partire dall’esigenza di rispettare le priorità nel rispondere alla povertà abitativa. L’altra questione riguarda l’inclusività delle misure previste: la loro estensione, la loro capacità di coprire le diverse forme della povertà abitativa, o la loro determinazione nel “lasciare fuori”, programmaticamente o di fatto, determinate componenti.

Le esclusioni discendono direttamente dalla struttura del Reddito di cittadinanza e sono state abbondantemente stigmatizzate come limiti della sua capacità di contrasto della povertà. Ma possono essere valutate anche per i limiti che comportano dal punto di vista della povertà abitativa. Di fatto, sono esclusioni che mettono in discussione la “socialità” del sistema housing nel suo complesso.

Ci sono anzitutto le differenze di trattamento e le restrizioni che colpiscono situazioni di povertà abitativa grave: dando luogo a figure estreme dell’esclusione, tanto più critiche dato che i diversi fattori di esclusione tendono a sovrapporsi.

  1. Gli abitanti dell’“informale”: le baraccopoli e le occupazioni abusive, e gli affitti in nero che costituiscono larga parte del settore povero dell’affitto non sono trattabili con queste misure. Come già per il FSA, il Reddito di cittadinanza riguarda esclusivamente gli inquilini in possesso di un regolare contratto di locazione e di un reddito certificato: non riguarda quanti hanno contratti, d’affitto o di lavoro, in nero.
  2. Gli immigrati: i requisiti richiesti (i 10 anni di residenza, il permesso di soggiorno di lungo periodo, la mancanza tra gli aventi diritto dei titolari di protezione internazionale), escludono almeno un terzo degli stranieri che vivono in Italia: ciò significa non solo l’esclusione di gran parte dei poveri: ma anche, in proporzioni ancora maggiori, di gran parte delle persone senza casa o con gravi problemi abitativi. Degli oltre 50.000 senza dimora rilevati nel 2014 dall’Indagine Istat, Caritas, Fiopsd, il 58% erano stranieri. Nel 2016 il sovraccarico dei costi abitativi interessava il 28% degli immigrati non-UE, contro il 7,7% degli Italiani. Il sovraffollamento abitativo colpiva nel 2018 il 50% degli stranieri (+25,0 dal 2007) contro il 22% (+4,2) dei cittadini italiani.
  3. Alcune componenti della povertà estrema: il Reddito di cittadinanza esclude molte persone in condizioni di marginalità estrema, e tra di essi molte persone letteralmente “senza casa”. Ad oggi (in attesa degli esiti delle petizioni e dei ricorsi presentati da diverse associazioni) sono escluse le persone prive di residenza anagrafica. “Doveva abolire la povertà, invece, il reddito di cittadinanza taglia fuori i più poveri in assoluto: le persone che vivono in strada e che non hanno la residenza anagrafica”1.

Quest’ultimo tipo di figure, nel caso di una presa in considerazione da parte del Reddito di cittadinanza, rimanderebbe al problema dell’appropriatezza del provvedimento per una parte dei destinatari. Nel caso di situazioni di marginalità vera e propria, di cumulo di svantaggi, ecc., il sussidio economico non è intervento appropriato o non è centrale o non è sufficiente. Il problema è stato sollevato per il Reddito di cittadinanza in generale: l’argomento ha però un valore specifico per le conseguenze abitative. Povertà economica e povertà abitativa non coincidono. In quanto misura reddituale e mirata all’inserimento lavorativo, il Reddito di cittadinanza non tratta differenze essenziale tra le varie forme di povertà e di esclusione abitativa: in particolare la distinzione tra “poveri” e “marginali”. La casa ha diversi significati e funzioni per l’inserimento nel caso di situazioni di marginalità sociale2.

Va peraltro ricordato che le esclusioni non riguardano soltanto le situazioni di povertà estrema. La mancanza di dati di ricerca rende impossibile verificare la plausibilità delle diverse soglie previste per l’accesso al Reddito di cittadinanza. Ma è ragionevole pensare che quello dei costi abitativi come fattore di rischio di caduta nella povertà sia un problema che tocca in modo significativo le famiglie con redditi un po’ al di sopra di quello previsto per il Reddito di cittadinanza. Queste famiglie sono una categoria sensibile, per la quale il rischio di caduta in povertà a causa dei costi abitativi è elevato. La nozione di “affordability” è spesso utilizzata nel dibattito proprio per indicare l’estensione e l’importanza del rischio che corrono queste fasce di popolazione che spendono per la casa più di quanto il proprio reddito consentirebbe.

 

Il supplemento per l’affitto: la logica delle politiche abitative e i limiti di sistema

Il supplemento per l’affitto previsto dal Reddito di cittadinanza può essere giustificato dalla maggiore difficoltà in cui si trovano le famiglie che abitano in affitto, in particolare per i costi abitativi. Queste famiglie si trovano in una condizione di doppio svantaggio: dispongono di redditi inferiori rispetto a quelle che dispongono di una casa in proprietà; e sono gravate da spese abitative molto più elevate, che le spingono con maggiore frequenza in uno stato di povertà reddituale. Nel 2014 il tasso del ‘sovraccarico dei costi’, pari in Italia all’8,4%, interessava il 31,9 degli inquilini che pagavano canoni di mercato (dati Eurostat). Tra il 2007 e il 2017, i costi abitativi hanno visto per i nuclei poveri che abitavano in affitto un incremento del 12,4%: il doppio dell’incremento che si è verificato per l’insieme dei nuclei poveri, il quadruplo di quello che si è verificato per il complesso della popolazione. Nel 2017 i costi abitativi per l’insieme dei poveri ammontavano a 305 euro (+11% dal 2007), per i poveri in affitto a 509 euro (+20,2), per i poveri con abitazione in proprietà a 194 euro (−10,5).

Nella maggior parte dei paesi europei, il sostegno economico agli inquilini è stata la misura principale per rispondere alle condizioni di svantaggio delle famiglie in affitto. È una forma – la più tipica e la più diffusa – di quelle misure di sostegno alla domanda (housing allowances, housing benefits, rent benefits) che in questi decenni hanno segnato il passaggio alla nuova fase delle politiche abitative sociali. In alcuni paesi questo sostegno ha raggiunto dimensioni consistenti e ha coperto quote importanti di popolazione.

In Italia una misura del genere – il “Fondo Sociale per l’affitto” – è stata istituita nel 1998. Dotata di un apposito finanziamento, integrato da Regioni e Comuni, era indirizzata alle famiglie con redditi medio bassi e con una elevata incidenza del canone sul reddito. La misura ha avuto una vita stentata: investimenti insufficienti (inizialmente 361,5 milioni di euro), progressive riduzioni e sospensioni hanno fatto sì che il FSA non sia mai riuscito a diventare una misura significativa per entità del finanziamento ed estensione della platea dei beneficiari. Nel corso degli anni la diminuzione delle risorse complessive e il contemporaneo aumento del fabbisogno hanno portato ad una riduzione del contributo assegnato a ogni richiedente. Di fatto, il contributo, che teoricamente avrebbe dovuto portare l’incidenza massima del canone sul reddito al 14% per i redditi più bassi e al 24% per gli altri, non è mai riuscito a portare l’incidenza media al di sotto del 50%. Finché non è stato superato da misure di sostegno ai cosiddetti “inquilini vittime di morosità incolpevole”: un contributo (massimo 8.000 euro, e previsto solo per i Comuni ad alta tensione abitativa) destinato alle famiglie che, per cause gravi (licenziamento; messa in Cassa integrazione; contratto a tempo determinato non rinnovato; infortunio o decesso di un componente familiare concorrente al reddito del nucleo ecc.) non riescono a pagare l’affitto.

Il supplemento per l’affitto previsto con il Reddito di cittadinanza propone di fatto qualcosa di simile al classico sostegno economico agli inquilini e (virtualmente) ne estende, rispetto al FSA, la portata e la consistenza. Ma lo fa in modo incontrollato, del tutto al di fuori da un interesse per la politica della casa e per le logiche che nelle politiche per la casa orientano questo tipo di misure e cercano di garantirne l’efficacia. I problemi derivano dal fatto che il sussidio è limitato all’affitto in senso proprio e senza considerare le articolazioni che permetterebbero di modulare il sostegno e di prendere in considerazione condizioni critiche nelle dinamiche della povertà: età dei residenti (presenza di anziani in particolare), invalidità, numero di bambini e di altre persone a carico, area di residenza ecc.

 

In altri paesi, contributi finanziari di sostegno alla domanda coprono non solo l’affitto, ma si estendano all’insieme delle sistemazioni abitative, fino a comprendere le sistemazioni “assistite”. In Francia le diverse forme di aides au logement sono previste non solo per l’affitto o il mutuo, ma anche per coloro che vivono in un foyer o in una pensione, o in una residenza universitaria; per le persone anziane o svantaggiate alloggiate non gratuitamente presso privati, oppure ospitate in foyer, in residenze per anziani, o in unità di cura di lunga durata.

 

Un aspetto importante della modulazione è il luogo di residenza, Da questo punto di vista un limite già segnalato è che il supplemento per l’affitto previsto dal Reddito di cittadinanza rischia di non fornire copertura sufficiente. Un’indagine di Solo Affitti (marzo 2019) ha messo in relazione il contributo previsto (280 euro, 3.360 euro annui) e il costo delle locazioni sul mercato: verificando che il contributo rischia di essere inadeguato in capoluoghi come Milano e Roma, dove copre appena il 20% e il 27% del canone d’affitto mensile medio (riferimento: un appartamento tipo di 70 metri quadrati in zone semicentrali). A Venezia il contributo copre il 33%; a Bologna, Firenze e Trento attorno al 36% del canone; a Cagliari il 37%; a Napoli il 38%. Più favorevole la situazione a Palermo, Genova, Bari, Torino, Trieste, dove il contributo coprirebbe tra il 47 e il 51% del prezzo medio di locazione; a Potenza e Perugia, dove coprirebbe più del 60% e a Catanzaro: il 67%. La conclusione: una misura “apprezzabile” ma che “rischia di non fornire una copertura sufficiente. Sicuramente più efficace sarebbe stato studiare una soluzione variabile, agganciata al reale costo delle locazioni nelle singole città”.

Se si considerano le ragioni delle politiche abitative, il sostegno finanziario agli inquilini solleva questioni di convenienza anche più severe, come si ricava dal dibattito che in questi anni si è sviluppato in Europa a proposito delle politiche di sostegno alla domanda. Il dibattito ha messo in discussione il valore di questo tipo di misure. Ha sottolineato che spesso le housing allowances coprono una piccola porzione dei costi; che esse tendono a trasformarsi in sussidi di lungo termine per i nuclei nel mercato privato, il che spinge i prezzi verso l’alto e richiede risorse crescenti per fornire gli stessi benefici. Nello stesso tempo non è chiaro se esse riescano ad aiutare persone con situazioni abitative instabili, che spesso sono quelle più bisognose. Questa politica è vista sempre più non solo come costosa ed inefficiente, ma come una politica non effettivamente finalizzata ai gruppi più vulnerabili.

In ogni caso, queste misure di sostegno alla domanda sono soltanto uno degli strumenti possibili per garantire un alloggio a popolazioni povere: non è detto sia il più efficace né il più conveniente ed è necessario metterlo a confronto con strumenti alternativi e valutarlo nella sua integrazioni con altre politiche. L’efficacia protettiva delle housing allowances dipende dalla loro estensione (la consistenza dei sussidi e la platea dei destinatari: in Svezia, nei Paesi Bassi e nel Regno Unito, i sussidi coprono tra il 40 e il 45 per cento dei poveri), e dal complessivo sistema in cui la misura si colloca: il modello di welfare, la comprensività del sistema, la disponibilità di altre misure abitative (l’edilizia sociale, l’affitto molto accessibile, le strutture di accoglienza/emergenza ecc.) e dalla generosità del più ampio sistema di welfare.

 

L’housing come un elemento del sistema di reddito minimo: i limiti del sistema italiano

La debolezza del sistema abitativo italiano non solo ne riduce l’efficacia verso la povertà abitativa, ma mette a rischio il contributo che le misure abitative possono dare alla riduzione della povertà economica/reddituale: l’obiettivo cioè del Reddito di cittadinanza.

L’housing può svolgere un ruolo importante nel contrasto della povertà economica. Sul piano analitico l’argomento è che a parità di reddito le spese abitative giocano un ruolo fondamentale nel limitare o nel favorire i processi di impoverimento; e che l’onerosità dell’abitazione tende a peggiorare le situazioni di povertà preesistenti e a trascinare verso il basso anche parte delle famiglie che in base alle misure tradizionali si collocherebbero al di sopra della soglia di povertà. Anni fa una ricerca sistematica sul tema è stata condotta da Pietro Palvarini3. La ricerca utilizzava la distinzione tra “povertà dovuta esclusivamente ad una scarsità di reddito, povertà indotta da un’eccessiva onerosità dei costi abitativi e povertà generata dall’azione congiunta dei due fattori”. “La povertà indotta dalla casa e quella dovuta al duplice effetto del reddito e delle spese abitative sono due manifestazioni di un fenomeno più ampio, che può essere definito povertà dipendente dalla casa”. Questa risultava un fenomeno molto diffuso: colpiva (nel 2010) l’8,8% delle famiglie italiane e rappresentava il 56,4% di tutta la povertà rilevata. Questo significa che più della metà della povertà in Italia dipendeva, in misura maggiore o minore, dai costi legati all’abitare. “Oltre un terzo dei poveri scivola in condizione di povertà unicamente a motivo dell’eccessiva onerosità delle proprie spese abitative. Sono evidenti le implicazioni che questi risultati potrebbero avere a livello di politiche abitative. La povertà dipendente dalla casa, cioè oltre la metà della povertà in Italia, potrebbe essere ridotta o eliminata attraverso politiche specificamente orientate all’abbattimento dei costi abitativi: per questa fascia di popolazione sarebbe possibile alleviarne le condizioni di disagio economico e favorirne l’uscita dallo stato di povertà”.

Per quanto riguarda il Reddito di cittadinanza, questa funzione dei costi e delle politiche abitative può essere collegata all’ipotesi4 di una trasformazione in corso da politiche di reddito minimo verso “sistemi integrati di reddito minimo”: “in cui varie misure, nate con scopo e natura differenti, vengono coordinate tra loro per garantire in modo più efficace la tutela del reddito delle persone meno abbienti”.

In questo passaggio i trasferimenti contro povertà ed esclusione sociale assumerebbero nel contrasto alla povertà un ruolo marginale o comunque in decrescita. È necessario dunque adottare “una visione delle politiche di contrasto della povertà che non sia limitata ai soli trasferimenti specificamente diretti contro la povertà, ma che consideri anche tutti gli altri schemi indirizzati ai redditi bassi”.

Se guardiamo al complesso delle misure, vediamo in effetti che quelle specifiche di contrasto alla povertà sono, in molti casi, meno importanti nel ridurre la povertà di altre misure: tra cui quelle abitative.  L’importanza delle politiche abitative è variabile: nella composizione del mix di sussidi che nei vari paesi forma il sistema di reddito minimo vi sono, come è ovvio, grandi differenze. Nei paesi in cui sono previste importanti misure di housing (sostegni all’affitto e altri sussidi per coprire i costi abitativi), queste possono avere un impatto significativo nella riduzione sia dell’incidenza che dell’intensità della povertà economica.

Nel caso italiano (v. ancora Baldini e altri) gli elementi che potrebbero costituire “sistemi integrati di reddito minimo” sono storicamente deboli: bassa spesa per trasferimenti sociali alle famiglie, housing e contrasto della povertà in senso stretto – nel complesso un sistema di trasferimenti monetari diversi dalle pensioni ancora poco sviluppato, con bassa efficacia nel sostenere i redditi più bassi. Si tratta ora di vedere se/quanto il Reddito di cittadinanza riuscirà a modificare, almeno in parte, il quadro. Rimane il problema di un sistema di housing cronicamente “poco sociale”: inadeguato per svolgere in modo efficace, nel sistema di reddito minimo, un ruolo di contrasto alla povertà.

  1. Avvocato di strada, 4 aprile 2019
  2. vedi: A. Tosi, Le case dei poveri. È ancora possibile pensare a un welfare abitativo?, Mimesis, Milano, 2017
  3. Cara dolce casa. Come cambia la povertà in Italia dopo le spese abitative, Terza Conferenza annuale Espanet Italia, Napoli, 2010
  4. M. Baldini M., G. Busilacchi G., G. Gallo, “Da politiche di reddito minimo a sistemi integrati nel contrasto alla povertà? Un’analisi in dieci paesi europei”, La Rivista delle politiche sociali, 2, 2018

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Condivido pienamente i contenuti dell’articolo. Lavoro in ambito sociale e mi sento di aggiungere il fattore salute: il “rischio sfratto”, sempre presente nelle famiglie che pagano con fatica l’affitto, saltando ogni tanto qualche mese, è spesso causa di stati ansiosi che possono compromettere la salute stessa delle persone, oltre che la serenità delle famiglie e delle relazioni tra i componenti. Inoltre la spesa per l’abitare si prende la priorità su altri importanti capitoli della vita delle famiglie, come la cura dei denti per i figli e la loro istruzione. Il trasferimento di denaro va accompagnato da un’adeguata politica per la casa e da un’efficace rete di servizi alla famiglia e alla persona