Inserimento lavorativo. Uno sguardo sull’Europa, delle proposte per l’Italia
Gianfranco Marocchi | 28 Aprile 2023
Da molti decenni le politiche della maggior parte degli Stati europei dedicano attenzione al tema dell’inclusione lavorativa delle fasce deboli. Si riconosce infatti da una parte la centralità della dimensione lavorativa (tanto più in Italia, che si definisce “Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), dall’altra che vi sono persone che, per condizioni fisiche, psicologiche, sociali, faticano ad accedere al mercato del lavoro in condizioni di parità con gli altri cittadini. Mentre per alcune persone il rischio di esclusione lavorativa è occasionale e temporaneo, per altre, in assenza di interventi adeguati, è permanente.
Ciò rappresenta un problema da più punti di vista: economico, perché il lavoro è fonte di reddito e di autonomia, ma anche di status sociale e di condizione psicologica della persona esclusa e di equità tra i cittadini. È quindi parte delle convinzioni ampiamente condivise che un sistema di welfare (in senso lato) di uno stato progredito debba non solo adoperarsi per garantire la sussistenza di chi non riesce a trovare lavoro, ma anche operare attivamente per favorire, anche laddove vi siano minime capacità residue, l’inclusione lavorativa di tutti i cittadini.
Questa finalità è stata perseguita dagli stati europei con diversi tipi di politiche (se ne tenta una classificazione a livello europeo in questo articolo), ma ha anche rappresentato, da oltre quarant’anni, l’oggetto dell’azione di soggetti organizzati della società civile: in Italia, in grande prevalenza, in forma di cooperative sociali di inserimento lavorativo, in altri paesi con una varietà di forme giuridiche e di soluzioni, che sono descritte negli articoli di questo Punto.
Nel nostro paese, a partire dagli anni Ottanta del secolo passato, è avvenuta, prima che in altri Paesi europei, una sorta di “mutazione genetica” di queste iniziative, con l’affermazione di imprese sociali di inserimento lavorativo in forma cooperativa: soggetti imprenditoriali senza fini di lucro e con statuti che rimandano non solo alla mutualità interna tra soci, ma al “perseguimento dell’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini” per il fatto di riservare una quota assai significativa di posti di lavoro – il 30% in Italia – a persone svantaggiate, prevedendo per esse programmi volti all’integrazione sociale e al rafforzamento delle loro capacità.
Non era, in linea di principio, la sola risposta possibile e, in effetti, sono in essere un insieme di altre risposte nell’ambito del Terzo settore al problema dell’esclusione lavorativa: da specifiche attività formative al tutoraggio, dall’incontro tra domanda e offerta di lavoro indirizzata a persone svantaggiate all’ergoterapia, ai laboratori protetti, e così via. Ma, quantomeno dall’approvazione della legge 381/1991, l’inserimento lavorativo si è affermato come una forma – negli anni Novanta peculiare del nostro paese, poi estesasi in tutta Europa – particolarmente potente e originale di azione a favore dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (per chi è interessato a ripercorrere i ragionamenti fondativi e distintivi del fenomeno, questo articolo di Felice Scalvini del 1995 rimane un riferimento obbligato). Nel corso degli anni Novanta e poi all’inizio di questo secolo, grazie anche all’azione decisiva di Carlo Borzaga, in particolare nell’ambito della rete Internazionale di Ricerca EMES, questo modello si diffuse tra ricercatori e policy makers in tutta Europa, dove si iniziò a parlare in modo sempre più diffuso di Work Integration Social Enterprises, WISE, il termine che sarà utilizzato diffusamente in questo Punto.
In Italia la normativa del 1991 prevede una forma giuridica specifica di WISE, la cooperativa sociale di inserimento lavorativo (dal 2006 possono esservi anche WISE non costituite come cooperativa sociale ma di impresa sociale anche con forme giuridiche diverse, anche se questa rimane una soluzione fortemente minoritaria), una perimetrazione delle persone considerate svantaggiate (persone con disabilità, con dipendenze, problemi di salute mentale, detenuti ammessi a misure alternative, minori in età lavorativa in situazione di esclusione sociale), una percentuale minima di posti di lavoro riservati a queste persone (il 30%); e ha previsto, a supporto di tale azione, due principali strumenti: la fiscalizzazione degli oneri sociali (in sostanza, i contributi relativi ai lavoratori svantaggiati sono pagati dallo Stato) e la possibilità per le pubbliche amministrazioni di affidare commesse di lavoro (es. la pulizia di un immobile pubblico, la manutenzione dei giardini, ecc.) ai soggetti che realizzano l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
Ma, come si può immaginare, questa altro non è che la soluzione italiana, mentre uno sguardo europeo ci restituisce un’estrema varietà di soluzioni su tutti i punti sopra richiamati: sullo status giuridico delle WISE, su chi è considerato svantaggiato, sulle quote minime di lavoratori svantaggiati assunti, sugli strumenti di sostegno.
Da questa consapevolezza prendono le mosse le analisi proposte in questa raccolta di articoli che pubblicheremo nelle prossime settimane, a cura di Gianfranco Marocchi, Giulia Galera e Giulia Tallarini. I contributi descrivono un quadro comparato delle WISE in Europa su diversi aspetti: il riconoscimento giuridico, il modo in cui le persone svantaggiate sono inserite, gli aspetti economici, i numeri delle WISE in alcuni paesi europei; viene quindi proposto un criterio di identificazione delle WISE e un modello per classificarle. Tutti questi materiali costituiscono uno stimolo particolarmente significativo per il lettore italiano – questo è il tema dell’ultimo gruppo di articoli – che potrà constatare da una parte come la lezione proposta dalle cooperative sociali di inserimento lavorativo del nostro Paese nell’ultimo trentennio abbia profondamente influenzato e dato forma alle WISE nel resto d’Europa, dall’altra come in Italia l’inerzia delle politiche (a fronte invece di un ben diverso grado di attivazione nei confronti delle WISE in altri paesi europei) rappresenti un fattore critico che oggi fa arrancare tante WISE italiane. Ma, oltre alla critica, questa raccolta di articoli assume in chiusura un approccio propositivo e costruttivo: con un numero limitato di semplici azioni, realizzabili entro il quadro normativo esistente, sarebbe possibile rilanciare in modo significativo l’inserimento lavorativo nel nostro paese: si tratta solo di volerlo fare.
Sono doverosi alcuni ringraziamenti ai soggetti che hanno reso possibili le riflessioni qui presentate.
Il progetto Europeo B-WISE, coordinato da EASPD con la collaborazione di ENSIE, nel cui ambito sono state realizzate le attività di ricerca da cui è tratta la maggior parte dei risultati qui esposti. Al partenariato di B-WISE aderiscono tra gli altri Euricse e Idee in Rete. |
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Euricse è una fondazione che studia le imprese sociali e gli altri soggetti dell’economia sociale. In B-WISE è stata responsabile del WP-1. Gli articoli a firma Galera e Tallarini sono frutto del lavoro svolto dalle autrici per Euricse nell’ambito di B-WISE. |
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Idee in Rete è un consorzio nazionale di cooperative sociali. In B-WISE è stato responsabile del WP-2. Gli articoli a firma Marocchi sono frutto del lavoro svolto dall’autore per Idee in Rete nell’ambito di B-WISE. |
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Impresa Sociale è una rivista scientifica con storia trentennale che ha pubblicato sotto licenza Creative Commons nel numero 1/2023 delle versioni estese e più strutturate dei contributi qui proposti, cui si rimanda per ulteriori approfondimenti. |