Le politiche del lavoro per le persone svantaggiate in Europa


Questo articolo è frutto del lavoro di ricerca svolto dalle autrici per incarico di Euricse nell’ambito del progetto Europeo B-WISE. Il report completo è disponibile a questo indirizzo. È stato inoltre pubblicato in lingua italiana e con adattamenti al contesto nazionale questo articolo sulla rivista Impresa Sociale, che tratta in modo più ampio i temi qui sinteticamente proposti.

 

Le politiche: una classificazione

Nell’ambito più generale delle politiche del lavoro, la maggior parte dei paesi europei ha adottato specifiche politiche e strategie volte a favorire l’accesso al lavoro da parte di lavoratori che presentano particolari elementi di debolezza e che per tale motivo tendono ad essere esclusi in modo permanente dalla possibilità di trovare occupazione. Le categorie di lavoratori interessate da queste azioni sono diverse, comprendono generalmente le persone con disabilità (O’Reilly, 2003; Galera, 2010) e altri lavoratori, così come sono diverse le azioni intraprese, sebbene accomunate dall’obiettivo di consentire l’accesso del mercato del lavoro anche a lavoratori che rischiano di esserne esclusi. Queste politiche possono operare su più fronti: ad esempio individuando una occupazione coerente con le capacità di ciascuno o favorendo, da parte del lavoratore svantaggiato, l’acquisizione delle competenze necessarie a incrementarne l’occupabilità (Galera, 2010). Obiettivo di questo articolo è classificare le politiche pubbliche del lavoro adottate a tal fine dai paesi europei e si individuano a tal fine quattro tipi di politiche:

  • le politiche regolamentative, volte ad aumentare le possibilità di occupazione dei lavoratori svantaggiati per mezzo di obblighi d’assunzione imposti ai datori di lavoro di imprese convenzionali e, talvolta, alle stesse pubbliche amministrazioni;
  • le politiche compensative, così chiamate perché si pongono come obiettivo quello di “compensare” il datore di lavoro della minore produttività dei lavoratori svantaggiati, ad esempio riducendo i costi della loro formazione o dell’adeguamento delle postazioni di lavoro ad essi destinati o introducendo incentivi economici per la loro assunzione;
  • le politiche sostitutive, attraverso le quali lo Stato promuove l’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate direttamente nel mercato del lavoro pubblico, creando opportunità lavorative in istituzioni pubbliche o semipubbliche, ad esempio in forma di laboratorio protetto;
  • le politiche di inserimento assistito (supported employment), volte a garantire ai lavoratori svantaggiati un supporto costante da parte di personale formato prima e durante il loro inserimento al lavoro, con l’obiettivo di individuare le attività che più si adattano alle loro capacità e di sostenere lo sviluppo di nuove competenze.

Non sono comprese in questo elenco le Imprese Sociali di inserimento lavorativo, dal momento che esse non rappresentano una “politica” (semmai le politiche sono relative alle forme di sostegno ad esse assicurate), ma una espressione organizzata della società civile, che sarà oggetto di analisi in altri articoli.

Di seguito sono quindi analizzate sinteticamente le quattro famiglie di politiche sopra elencate, mettendo in luce anche gli aspetti di criticità.

Le politiche regolamentative

Politiche regolamentative sono in vigore in quasi tutti i Paesi europei e hanno come principali beneficiari le persone con disabilità, eccezion fatta per Grecia, Lussemburgo e Paesi Bassi, in cui il sistema delle quote si rivolge ad un più ampio spettro di persone svantaggiate. Come mostra la successiva tabella, nella maggior parte dei Paesi i datori di lavoro interessati sono enti pubblici e privati che superano una determinata soglia di occupati (da 15 in Italia fino a 75 dipendenti in Portogallo e 50 in Bulgaria, Grecia, Romania e Spagna), oltre la quale sono soggetti agli obblighi d’assunzione di persone svantaggiate.

Paese Datori di lavoro soggetti all’obbligo Quota
Austria Pubblici e privati con più di 25 dipendenti 1 ogni 25 dipendenti
Belgio Pubblici federali 3% dello staff1
Vallonia Pubblici 2,5% dello staff2
Fiandre
Bulgaria Privati con più di 50 dipendenti 1 per gli enti tra i 50 e i 99 dipendenti; 2% dello staff se più di 100 dipendenti
Pubblici con più di 26 dipendenti 1 per gli enti tra i 26 e i 50 dipendenti; 2% dello staff se più di 50 dipendenti
Croazia Privati con più di 20 dipendenti 2-6% dello staff3
Cipro Pubblici e istituti di istruzione secondaria 10% dello staff
Francia Privati con più di 20 dipendenti 6% dello staff
Germania Pubblici e privati con più di 20 dipendenti 5% dello staff
Grecia Pubblici e privati con più di 50 dipendenti 8% dello staff
Irlanda Pubblici 3% dello staff
Italia Pubblici e privati con più di 15 dipendenti 1 per gli enti tra i 15 e i 35 dipendenti; 2 se tra i 26 e i 50 dipendenti; 7% dello staff se più di 50 dipendenti
Lussemburgo Pubblici 5% dello staff
Privati con più di 25 dipendenti 1 per gli enti tra i 25 e i 49 dipendenti; 2% dello staff se tra i 50 e i 299 dipendenti; 4% dello staff se più di 300 dipendenti
Malta Pubblici e privati con più di 20 dipendenti 2% dello staff
Paesi Bassi Pubblici e privati con più di 25 dipendenti 2.35% dello staff
Polonia Pubblici e privati con più di 25 dipendenti 6% dello staff4
Portogallo Privati con più di 75 dipendenti 1% dello staff per gli enti tra i 75 e i 250 dipendenti; 2% dello staff se più di 250 dipendenti
Pubblici 5% dello staff
Rep. Ceca Pubblici e privati con più di 25 dipendenti 4% dello staff
Romania Pubblici e privati con più di 50 dipendenti 4% dello staff
Slovacchia Privati con più di 20 dipendenti 3,2% dello staff
Slovenia Pubblici e privati con più di 20 dipendenti 2-6% dello staff3
Spagna Pubblici con più di 50 dipendenti 5% dello staff
Privati con più di 50 dipendenti 2% dello staff
Ungheria Pubblici e privati con più di 25 dipendenti 5% dello staff

Sebbene per molti Paesi non si disponga di dati, il tasso di evasione degli obblighi sembra essere piuttosto alto (Fuchs, 2014; ILO, 2019). In caso di mancato rispetto degli obblighi di assunzione stabiliti per legge, quasi tutti i sistemi esistenti prevedono sanzioni per i datori di lavoro inadempienti i cui importi – pur variando da Paese a Paese – sono spesso legati al salario minimo legale. Solitamente, le sanzioni a cui sono soggetti i datori di lavoro inadempienti vanno ad alimentare fondi speciali, volti a finanziare specifiche misure per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, come ad esempio il Fondo per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità in Italia, il Fondo statale per la riabilitazione delle persone con disabilità (Państwowy Fundusz Rehabilitacji Osób Niepełnosprawnych) in Polonia e il Fondo d’imposta compensativo (Ausgleichstaxfond) in Austria.

Inoltre, alcuni sistemi di quote – come quelli di Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Francia, Italia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna – prevedono la possibilità di soddisfare, anche se spesso solo parzialmente, i requisiti delle quote attraverso misure alternative, consistenti principalmente nell’acquisto di beni e/o servizi prodotti da laboratori protetti, imprese sociali di inserimento lavorativo o lavoratori autonomi con disabilità.

Sebbene la scarsità di studi empirici sui sistemi regolamentativi non renda possibile una valutazione sistematica, le analisi condotte dal Centro europeo per la Politica di Previdenza Sociale e la Ricerca sottolineano i bassi incrementi occupazionali generati (Fuchs, 2014). Ciò sembra essere dovuto alla logica sottesa a questo sistema, la quale presuppone che i lavoratori svantaggiati non siano competitivi. Va poi considerato che, nell’ottica della promozione della persona e delle sue potenzialità, i dati di esperienza evidenziano come non sia infrequente che il lavoratore svantaggiato assunto in forza ad un obbligo sia considerato – al pari di una tassa – alla stregua di un mero costo cui l’impresa deve sottoporsi e sia destinato a mansioni improduttive e di fatto estraniate dal contesto organizzativo: l’impresa considera un suo inserimento attivo nel ciclo produttivo come un ulteriore onere cui sceglie di non sottoporsi.

Le politiche compensative

Le politiche compensative sono disciplinate da leggi specifiche e da regolamenti a livello nazionale. Le forme più comuni sono:

  • gli incentivi per l’assunzione, come, ad esempio, i sussidi salariali e le esenzioni dal pagamento dei contributi previdenziali;
  • i finanziamenti per la formazione e l’orientamento professionale prima dell’assunzione;
  • i finanziamenti per l’adeguamento delle postazioni di lavoro;
  • i finanziamenti per tirocini e altre esperienze formative retribuite;
  • altre misure, come gli incentivi a supporto del lavoro autonomo.

Rispetto alle politiche regolamentative, le politiche compensative si rivolgono a un più ampio spettro di lavoratori svantaggiati. A seconda del Paese, i beneficiari possono includere – oltre ai lavoratori con disabilità – altre categorie di persone svantaggiate, come donne disoccupate, disoccupati di lunga durata, ecc.

Nel nostro paese, ad esempio, esistono politiche compensative – generalmente consistenti in sgravi contributivi parziali o in contributi ad abbattimento del costo del lavoro, eventualmente maggiorati per il  Mezzogiorno, a vantaggio delle imprese che assumono determinate categorie di persone – che riguardano Giovani sotto i 35 anni mai assunti prima a tempo indeterminato, NEET iscritti al programma Garanzia Giovani, giovani diplomati, apprendisti, donne disoccupate di lungo periodo, detenuti, persone con disabilità, lavoratori in cassa integrazione, tirocinanti, percettori del reddito di cittadinanza, disoccupati ultracinquantenni, ecc.

Si tratta quindi di un insieme di norme abbastanza complesso, con evidenti difficoltà a definire in modo equo e corretto il calcolo della compensazione da destinarsi al datore di lavoro. Inoltre, sono stati osservati due effetti collaterali: l’esclusione delle persone svantaggiate più gravi e l’effetto stigmatizzazione che impedisce il pieno empowerment dei beneficiari (Galera, 2010).

Le politiche sostitutive

Nella maggior parte dei Paesi, la creazione di un “mercato del lavoro sostitutivo” (Schimd, Semlinger, 1984; Seyfried, Lambert, 1989; Borzaga, 2012) si sostanzia nei cosiddetti “laboratori protetti”, ossia – come definiti dall’articolo 2 del Regolamento europeo 651/2014 – organizzazioni in cui almeno il 30% dei lavoratori è rappresentato da lavoratori con disabilità. L’obiettivo dei laboratori protetti è quello di adattare l’ambiente di lavoro alle capacità fisiche, mentali o alle disabilità sensoriali dei lavoratori svantaggiati, prevalentemente con disabilità (Defourny et al., 2004). La loro diffusione nei Paesi europei è molto diversificata: accanto a Paesi europei come il Belgio, la Germania e i Paesi Bassi in cui i laboratori protetti hanno una lunga tradizione, vi sono Paesi in cui il loro ruolo è marginale, come l’Italia, la Bulgaria, la Grecia. Nei paesi in cui essi non hanno avuto di rafforzare la loro dimensione produttiva, ma sono rimasti strutture con finalità di natura assistenziale, la parte prevalente dei ricavi deriva da trasferimenti a vario titolo da parte della pubblica amministrazione e non da commesse di mercato; alle persone inserite sono generalmente accordate remunerazioni simboliche.

Va comunque segnalato che i laboratori protetti sono stati fortemente criticati da numerosi studiosi e operatori del settore. Infatti, escludendo alcuni Paesi dove essi si sono sviluppati in senso più o meno marcatamente imprenditoriale (Belgio, Croazia, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna), nella maggior parte dei casi essi non sono in grado di garantire la piena integrazione lavorativa, dal momento che non riconoscono alle persone svantaggiate una remunerazione tale da consentire il conseguimento dell’autonomia. Un ulteriore limite, come dimostrato da diversi studi, è la scarsa sostenibilità dei laboratori protetti da un punto di vista economico e la forte dipendenza dall’ente pubblico (Policy Impact Lab, 2019). Inoltre, l’elevata percentuale di persone con disabilità occupate sul totale della forza lavoro può portare alla segregazione anche di quei lavoratori che sarebbero potenzialmente in grado di lavorare nel mercato del lavoro tradizionale (May-Simera, 2018). Non a caso, i laboratori protetti sono stati recentemente criticati anche dalla Commissione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite che ha sottolineato la necessità di promuovere opportunità occupazionali in un mercato del lavoro aperto e inclusivo (Nazioni Unite, 2022).

Le politiche attive del lavoro

L’inefficacia delle politiche tradizionali nel contrastare la disoccupazione di talune fasce della popolazione ha portato, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, allo sviluppo di politiche attive volte ad incidere direttamente sulla struttura complessiva del mercato del lavoro, intervenendo altresì sulle possibili cause dell’esclusione permanente dal mercato del lavoro (Borzaga, Loss, 2006). In alcuni Paesi il passaggio dalle politiche passive del lavoro a quelle attive è stato facilitato da cambiamenti culturali, come una diversa considerazione delle persone portatrici di uno svantaggio sociale, considerate in maggior misura per le loro capacità residue da valorizzare che per le loro mancanze: potenziali lavoratori e non pazienti da assistere. In sintesi, queste politiche si sostanziano in un mix di misure quali tirocini, formazione, accompagnamenti attraverso job coaches, formazione on the job, ecc.

Le misure di inserimento assistito sono regolamentate ed applicate in maniera diversa nei vari contesti nazionali. Va sottolineato che l’applicazione di queste misure tende ad essere piuttosto complessa, spesso senza che si riesca a valutare l’impatto delle azioni intraprese e quindi l’effettivo esito occupazionale. Di conseguenza queste misure sono utilizzate (o comunque finanziate) principalmente dai servizi pubblici per l’impiego, come ad esempio il servizio pubblico per l’impiego austriaco (Arbeitmarktservice) o da enti di terzo settore, come l’associazione per l’inserimento assistito SUEM in Belgio. In altri Paesi, come l’Italia e la Spagna, queste misure sono di competenza delle singole regioni e assumono quindi caratteristiche diverse all’interno dello stesso Paese, mentre in altri paesi come la Croazia, la Grecia e la Romania non esistono misure volte a sostenere l’inserimento assistito.

Conclusioni

Nei successivi articoli si approfondirà il tema delle imprese sociali di inserimento lavorativo nei diversi paesi europei; la loro azione è comunque da collocarsi entro un contesto di politiche che da alcuni decenni sono alla ricerca – spesso con risultati controversi – di soluzioni per contrastare l’esclusione permanente di alcune categorie di cittadini dal mercato del lavoro.

  1. Della Capacità Lavorativa Equivalente a tempo pieno (anche detta Unità di Lavoro, ULA).
  2. Della Capacità Lavorativa Equivalente a tempo pieno.
  3. In base al settore d’attività dell’ente e al numero di dipendenti.
  4. La quota può essere ridotta in caso di grave disabilità.