Questo articolo è frutto del lavoro di ricerca svolto dall’autore per incarico del Consorzio Nazionale Idee in Rete nell’ambito del progetto Europeo B-WISE. Il report completo è disponibile a questo indirizzo. È stato inoltre pubblicato in lingua italiana e con adattamenti al contesto nazionale questo articolo sulla rivista Impresa Sociale, che tratta in modo più ampio i temi qui sinteticamente proposti.
Nell’articolo si utilizza il termine “WISE” (Work Integration Social Enterprises), comunemente utilizzato in ambito comunitario, per indicare le Imprese Sociali di inserimento lavorativo e quindi, prendendo ad esempio il contesto italiano, le cooperative sociali di inserimento lavorativo.
In un precedente articolo si sono esaminate le Imprese Sociali di Integrazione Lavorativa (WISE) europee mettendo in relazione due aspetti: il livello di supporto garantito alle WISE in ciascun sistema nazionale e il livello di sviluppo del sistema delle WISE nel paese; si è concluso che un livello di aiuto significativo ha un forte impatto sulla solidità e sulla qualità del sistema WISE. Resta da esaminare una questione: in questo quadro, dove si colloca il nostro paese?
Rispetto al livello di sostegno, l’Italia è collocata in posizione intermedia. La fiscalizzazione degli oneri sociali, principale – anzi unica – misura adottata a livello nazionale, ha un rilievo abbastanza basso, diminuisce il sistema complessivo dei costi in misura inferiore al 10%; molto meno, come evidenziato nel già citato articolo, rispetto ai Paesi dove il sostegno si aggira intorno al 30-40%; e non molto di più rispetto a misure in essere per la generalità delle imprese che assumono lavoratori deboli a seguito di varie politiche di incentivo e compensazione, aspetto che abbassa ulteriormente il differenziale competitivo nei confronti di imprese non WISE che non sopportano oneri paragonabili in tema di inserimento lavorativo. Rispetto ad alcuni Paesi del tutto privi di misure di sostegno, va comunque registrato che, oltre ad esistere la fiscalizzazione degli oneri sociali, in taluni territori trovano applicazione i contratti riservati (commesse di lavoro destinate da pubbliche amministrazioni principalmente a cooperative sociali di inserimento lavorativo), pur se in misura minore rispetto ad alcuni decenni fa e in modo molto diseguale nelle diverse aree del Paese. Questa misura, che nel corso degli anni Novanta si era affermata come una “via italiana” al sostegno dello sviluppo dell’impresa sociale, è stata progressivamente abbandonata nell’ultimo ventennio in omaggio a dottrine che vedono nella competizione di mercato e nelle gare al ribasso l’unica via per la tutela dell’interesse pubblico. Vero è che, almeno in una qualche misura, è ancora sensibile, oltre che la sporadica applicazione di tale procedimento, l’effetto di lungo termine della sua applicazione estesa negli anni Novanta del secolo scorso, che ha dato l’occasione, almeno alle WISE più avvedute, di patrimonializzarsi e investire, facendosi trovare quindi pronte alla situazione più difficile verificatasi negli anni successivi.
Non vi sono invece, a parte modeste sperimentazioni locali, iniziative sistematiche di riconoscimento della funzione sociale dell’inserimento lavorativo. L’idea cioè che sia arduo trarre dagli (scarsi) margini sulle attività produttive le risorse per gli stipendi degli operatori affiancano le persone svantaggiate – non solo per colmarne la produttività, ma anche e soprattutto per rafforzarne la soft skills e le competenze professionali, oltre che, in alcune esperienze, per farsi carico di bisogni ulteriori rispetto a quelli specificamente legati al lavoro – pare al di fuori dei margini di comprensione della politica italiana.
Circa la solidità del sistema WISE, si ha, anche in questo caso, coerentemente con l’ipotesi di lavoro enunciata (cfr. sempre questo articolo), una situazione intermedia. I 25.000-30.000 lavoratori svantaggiati inseriti (circa la metà persone con disabilità) sono sicuramente assai di più rispetto a molti altri Paesi europei – rispetto a quelli in particolare con politiche ancor più deboli a sostegno delle WISE e dell’inserimento lavorativo come Croazia, Grecia, Lettonia, Romania e probabilmente Slovenia (questo ultimo caso da approfondire); ma, secondo i dati raccolti nel progetto B-WISE, assai meno rispetto alla Spagna (dove nei Centros especiales de empleo lavorano quasi 100.000 persone con disabilità), all’Austria, Paese di 9 milioni di abitanti, meno di un sesto rispetto all’Italia, dove nelle sole Sozialökonomische Betriebe (SÖB) lavorano un numero di persone svantaggiate simile all’Italia, al Belgio (11.5 milioni di abitanti) dove tra Collectief maatwerk, Lokale diensteneconomie, Entreprise d’Insertion, Entreprises de travail adaptées le WISE inseriscono oltre 40.000 lavoratori svantaggiati, alla Francia, dove lavorano tra Entreprise d’insertion, Entreprise de travail temporaire d’insertion e Entreprise adaptée sono inserite circa 100 mila persone svantaggiate e probabilmente anche all’Olanda, pur se i dati raccolti sono piuttosto fragili. Metà classifica, in piena coerenza con la correlazione proposta.
Ma, in questo caso, non vi è dubbio, il bicchiere è mezzo vuoto. È mezzo vuoto perché l’Italia le WISE le ha inventate circa 50 anni fa, le ha promosse storicamente nel continente, ha diffuso con decenni di anticipo alcuni degli strumenti di supporto più potenti, come gli affidamenti riservati che hanno via via dato forma alle normative europee in materia; e, come evidenziato anche in questi articoli (1 e 2) per insipienza politica e per trascuratezza si trova ora abbondantemente superata da diversi altri Paesi che hanno invece intrapreso con assai maggiore decisione la strada del supporto all’inserimento lavorativo. Se oggi l’Italia ha mantenuto posizioni di centro classifica è grazie da una parte al capitale costruito nel passato, dall’altra ad uno spirito di resistenza oltre misura da parte dei cooperatori sociali. Ma, senza una consapevolezza di cosa sta accadendo, questo argine è destinato a franare nel giro di pochi anni; e per questo è bene evidenziare con chiarezza i motivi che ci hanno portato a questa situazione.
Già si è detto della ideologia della concorrenza che ha portato le pubbliche amministrazioni a preferire risparmi anche minimi sui prezzi di fornitura (spesso a costo di degradare il livello di servizio offerto ai cittadini) pur di poter affermare che un certo servizi, magari gestito da tempo da cooperative sociali, era stato posto sul mercato. La sostanza, in termini di depauperamento del capitale sociale del territorio – le WISE che hanno dovuto interrompere la propria operatività – e di conseguenze sui lavoratori fragili è stata considerata un danno collaterale e necessario.
La narrazione basata su buone prassi rappresenta una mistificazione pagata a caro prezzo dal mondo delle WISE. Gratificante e rassicurante, con questa narrazione si sono mostrati i “gioelli di famiglia”, le eccellenze, ottenendo dalla politica un plauso sorridente, che ha però contribuito a mettere in ombra il fatto che il nostro Paese rimaneva al palo mentre l’Europa avanzava. E, collegato a ciò, lo stesso si può dire di una dottrina per molti versi commovente (oltre che apparentemente convincente), ma purtroppo errata: la dottrina è che – per ragioni non meglio specificate, ma comunemente accettate e soprattutto unanimemente apprezzate – le WISE italiane siano in grado di realizzare senza costi aggiuntivi un doppio prodotto, il bene o servizio venduto in modo competitivo sul mercato e il “prodotto sociale”, l’inserimento al lavoro delle persone svantaggiate. A pensarci bene, perché mai tutto ciò dovrebbe funzionare (sempre, si intende, al di là dei casi eccellenti)? Su quali fondamenta economiche? Perché le WISE dovrebbero essere in grado di realizzare in modo sistematico e permanente un sovraprofitto su mercati altamente competitivi per destinarlo a sostenere i costi di tutte le azioni necessarie ad assicurare un inserimento lavorativo di qualità? Il fatto è che, in sostanza, ci è piaciuto crederlo, anche in assenza di motivi fondati per farlo. La realtà è sostanzialmente diversa; certo possono esserci fasi di mercato specifiche in cui in taluni settori si realizzano utili significativi, può esserci la capacità di mobilitare risorse extra mercato – volontariato, acquisti fidelizzati con motivazione valoriale, ecc. – ma tutto ciò ha valenza contingente, salvo, come già evidenziato, talune eccellenze specifiche. In generale una buona impresa – se tutto va bene – riesce a stare sul mercato e può anche realizzare inserimento lavorativo di qualità solo se riceve risorse adeguate.
L’esito è evidente, non appena si passi dall’analisi delle buone prassi ad una immagine realistica di quanto sta accadendo. La tenuta economica, almeno negli anni pre-Covid, gli ultimi su cui esistano rilevazioni estese, continua ad esserci, fatta salva la compressione degli utili che interessa tutto il mondo dell’impresa sociale, frutto della competizione esasperata. L’ordine di grandezza del sistema WISE appare analogo a quello di 15-20 anni fa, che può essere visto come un successo – l’avere superato indenni i ripetuti cicli di crisi – ma, come si è visto, ha comportato il passare dall’essere l’esperienza guida in Europa all’essere un Paese con un medio sviluppo del sistema WISE. Ma è su altri aspetti che è evidente la fatica delle WISE italiane: nella necessità di ricercare lo “svantaggiato meno svantaggiato” per mantenere il passo della competizione, nella percentuale del 30% che in alcuni casi è sempre più stentata, nella diminuzione o annullamento delle ore di lavoro riconosciute a operatori dell’inserimento lavorativo, responsabili sociali o altre figure simili non inserite (anche solo per una parte del tempo lavoro) nel processo produttivo, ma dedicate alla cura dei percorsi di inserimento lavorativo, nella caduta delle quota di ricollocazioni a fine percorso, anche nelle tradizioni cooperative dove questo avveniva maggiormente (e nella conseguente pressione sui servizi perché “rinnovino la certificazione” anche a chi è ex – ma molto ex – svantaggiato per non perdere la quota del 30%), nella persistenza, anche alcuni anni dopo la costituzione, di un numero rilevante di unità di dimensioni molto limitate, nell’uso sempre più diffuso di tirocini di lavoratori svantaggiati laddove in anni precedenti si sarebbe proceduto ad assunzioni; nella fatica a compiere un fisiologico ricambio della classe dirigente, dal momento che si possono assicurare alle figure apicali retribuzioni accettabili solo in presenza di una vocazione valoriale molto forte. Tutti segnali che, soprattutto considerati congiuntamente, ci dicono di strategie di sopravvivenza un po’ affannate, di un mondo costretto a sopravvivere nella sostanziale assenza di riconoscimento del lavoro sociale svolto. Tutti temi, questi, proposti alcuni anni fa nel “Manifesto per il rilancio dell’inserimento lavorativo”, sottoscritto da un centinaio di imprese sociali italiane, ma da molti altri nel mondo dell’impresa sociale italiana guardato con sospetto, nella più classica delle Sindromi di Stoccolma: rivendicando cioè con forza la narrativa delle prassi eccellenti (vere) a significare che le WISE sono creature eccezionali in grado di fare ciò che nessun altro soggetto fa (parzialmente vero) e che quindi non c’è nessun problema (falso).
Nel frattempo, come evidenziato nei già citati articoli (1 e 2), i treni della politica passavano uno dopo l’altro: l’Italia investiva cifre consistenti nelle politiche attive del lavoro rivolte a fasce deboli – da Garanzia Giovani alle misure connesse al Reddito di Cittadinanza, sino al PNRR – senza riconoscere alcun ruolo significativo alle WISE che pure da 50 anni sono in prima linea nell’inserimento lavorativo di ogni tipo di persona svantaggiata, riconosciuta e non dalle normative vigenti. E in tutte queste circostanze, non solo la politica, ma lo stesso mondo delle WISE italiane ha ritenuto in qualche modo normale essere considerato (quando va bene) alla stregua delle agenzie di somministrazione (chissà perché così spesso citate!) come attore di tali politiche.
E, nel frattempo, chi lavora nelle WISE appare un po’ disorientato. Sente tutta la contraddizione di trovarsi a guerreggiare a colpi di ribassi con altri imprenditori sociali – non era per questo che aveva iniziato a fare il cooperatore sociale, tanti anni fa -, legge sulle riviste di settore delle meravigliose eccellenze – sempre le stesse 20 – 30 esperienze in tutta Italia, sempre così inarrivabili – ma questo invece che spronarlo lo fa sentire ancor più inadeguato, si ritrova a selezionare i lavoratori svantaggiati con sempre più occhio alla compatibilità economica, litiga con il dirigente un comune che non vuole saperne di affidamenti riservati e con un altro che invece vuole farli, attendendosi che grazie a ciò la cooperativa pratichi il 40% di ribasso, visto che “le cooperative sociali di inserimento lavorativo pagano meno contributi”, quando chiede aiuto a qualcuno gli viene consigliato di lanciarsi nel rapporto con le imprese for profit, che da parte loro sono ben contente di considerarlo come fornitore a basso costo, anch’esse confidando che possa praticare prezzi concorrenziali con i subfornitori dei Paesi dell’Est Europa visto che (di nuovo) “le cooperative sociali di inserimento lavorativo pagano meno contributi”. Alla fine di ciò si adatta – come il Gaetano / Troisi di “Ricomincio da tre”, che alla fine conferma di essere un emigrante – lui stesso proporsi ai clienti pubblici e privati affermando di essere competitivo grazie al fatto di poter pagare meno contributi alle persone svantaggiate.
Nel caso questo imprenditore sociale avesse tempo e modo di leggere queste righe – difficile, perché lavora un numero improponibile di ore facendo il giardiniere, il progettista, il gestore di risorse umane e molte altre cose e arriva a casa stravolto – consideri, se lo ritiene, queste semplici considerazioni:
- la fiscalizzazione degli oneri sociali non serve per diminuire il prezzo ai clienti pubblici e privati, ma a indennizzare (minimamente) l’immane lavoro sociale svolto dalle WISE italiane;
- tale misura è nell’ordine di circa un quinto rispetto al livello di aiuto che le WISE ricevono nei contesti territoriali più sviluppati;
- se la tua cooperativa stenta è per questo e non per incapacità; ciò non esime nessuno dal provare a migliorarsi grazie all’esempio delle eccellenze, ma deve portare tutti noi a intraprendere una significativa azione politica per mutare la situazione;
- se le WISE italiane giocheranno al ribasso e non riusciranno a sviluppare in modo diffuso, oltre alla sostenibilità economica, una qualità dell’inserimento lavorativo elevata, perderanno la loro ragion d’essere e saranno considerate alla stregua di qualsiasi soggetto che più o meno occasionalmente occupa fasce deboli, con la conseguenza di vedere ancora ridotte le poche politiche di sostegno esistenti.
Di qui bisogna ripartire.