L’immigrazione come sfida per la cittadinanza “nazionale”
L’immigrazione è una questione di definizione dei confini tra “noi”, la comunità nazionale insediata su un territorio ben demarcato, i “nostri amici”, ossia gli stranieri che accogliamo con favore come residenti ed eventualmente come futuri concittadini, e “gli altri”, gli estranei propriamente detti, che non vorremmo vedere insediati nelle nostre città, e tanto meno annoverati tra i cittadini a pieno titolo. È una questione di definizione della comunità politica, quella che gli anglosassoni chiamano polity.
Gli estranei pongono dunque una seria sfida all’istituto della cittadinanza, e nello stesso tempo la cittadinanza è la cartina di tornasole della loro condizione legale e politica: un istituto centrale nei processi di inclusione sociale delle società moderne, ma anche foriero di esclusione per chi non rientra nel novero dei cittadini legittimi. Si può parlare a questo riguardo della cittadinanza come “confine interno” delle compagini nazionali, che definisce la distinzione tra membri a pieno titolo della comunità politica ed estranei variamente autorizzati al soggiorno sul territorio.
Il criterio fondamentale di ammissione alla polity rimane tuttora quello dell’appartenenza nazionale, ma il numero sempre maggiore e la diversificazione crescente degli status giuridici degli stranieri residenti pongono in discussione le demarcazioni nette tra insiders e outsiders. La cittadinanza infatti è un istituto complesso, per certi versi ambiguo, comprendente almeno quattro aspetti: quello dell’appartenenza formale a uno Stato, per la quale o si è cittadini oppure non lo si è; quella di un pacchetto di diritti e benefici, che possono essere svincolati dallo status formale; quello della partecipazione attiva alla vita politica e sociale, formale e informale; quello infine dell’identificazione, che aggiunge altri elementi soggettivi, situazionali e cangianti all’istituto politico e sociale della cittadinanza. Proprio l’insediamento stabile di immigrati stranieri pone in evidenza il fatto che i quattro aspetti possono sovrapporsi in vario modo, o anche divaricarsi.
Si pone pertanto anzitutto la questione dei criteri e delle modalità di partecipazione degli stranieri residenti alla comunità dei cittadini, con gli obblighi e i benefici che ne derivano. In parallelo, si stanno sviluppando varie forme di partecipazione politica dei migranti attraverso le frontiere, soprattutto nei confronti dei paesi d’origine. La cittadinanza tende a disaggregarsi in componenti almeno in parte autonome e ad assumere orizzonti cosmopoliti. Al di là della cittadinanza formale, prendono piede forme di azione politica, di partecipazione sociale, di accesso ai servizi che ridisegnano dal basso i rapporti tra esclusione ed inclusione. Guardando oltre le frontiere nazionali, si osservano altresì riconfigurazioni transnazionali dello spazio democratico, dei diritti e delle pratiche di cittadinanza: per esempio, mediante il voto dall’estero, o i diritti di cittadinanza anche politica nell’UE per i cittadini degli Stati membri.
La cittadinanza “dal basso”
L’idea di cittadinanza è comunemente invocata per esprimere concetti di appartenenza democratica e inclusione sociale, ma questa inclusione ha come premessa una concezione di comunità circoscritta ed esclusiva: un problema di confini.
Il concetto di cittadinanza come appartenenza a una comunità di uguali, sorto con le rivoluzioni inglese, americana e francese del ‘700, implica un impegno contro la subordinazione e la disuguaglianza, ma può rappresentare in se stesso un asse di subordinazione. L’ambivalenza del concetto deriva dal fatto che si può considerarlo con riferimento alla natura e alla qualità delle relazioni tra i membri riconosciuti di una società costituita, oppure pensando ai confini di quella stessa società, che dividono membri e non membri, interni ed esterni, razionando l’attribuzione dello status di cittadini.
Se guardiamo alla questione per così dire “dal basso”, ossia dal punto di vista delle pratiche effettive di accesso e fruizione, delle reinterpretazioni e delle negoziazioni dei contenuti della cittadinanza, incontriamo tuttavia varie situazioni in cui migranti e rifugiati possono assumere ruoli attivi, a vari livelli e con diverse modalità, individuali e collettive.
Si può parlare al riguardo di “processi di cittadinizzazione”: un neologismo non bello ma efficace, nell’esprimere la progressiva acquisizione di diritti istituzionalmente garantiti, di riconoscimento nell’ambito delle reti di prossimità e delle società locali, di competenze pratiche nell’accesso ai mercati e ai servizi del territorio. Si possono distinguere in proposito processi giuridici, come l’accesso allo status di residenti regolari; processi economici, a partire dall’inserimento nel mercato del lavoro; processi sociali, come i ricongiungimenti e la formazione di unità familiari; processi politici, come la partecipazione sindacale e associativa.
In questa prospettiva, si può dunque sostenere che la cittadinanza non è un dato, ma appunto un processo; non discende soltanto dall’alto, ma viene acquisita ogni giorno dal basso; non è soltanto un’istituzione politica, ma un insieme di pratiche sociali; non vede i beneficiari, individui e famiglie, come semplici destinatari passivi di una concessione che discende dalle decisioni dello Stato ospitante, ma li considera come parte attiva dell’opera di allargamento della base sociale legittima della società di cui hanno scelto di far parte.
Nello stesso tempo, i processi di cittadinizzazione sono frutto dell’interazione con diverse componenti della società italiana.
In primo luogo gli attori del mercato del lavoro, tra i quali un ruolo eminente spetta ai datori di lavoro, imprenditori in senso proprio e famiglie, che hanno di fatto dischiuso agli immigrati le porte d’ingresso nella società ricevente anche in presenza di chiusure politiche.
Reti etniche e brokers cooperano nel favorire l’arrivo, la prima accoglienza e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro: passaggi essenziali per l’avvio dei faticosi processi di cittadinizzazione.
In terzo luogo intervengono autorità e burocrazie pubbliche: mediante interventi legislativi come le misure di sanatoria o il recepimento di direttive europee, consentono agli immigrati di regolarizzare la propria posizione, di ricongiungere la famiglia e di accedere a servizi e prestazioni pubbliche. Gli operatori di vari servizi pubblici, incluse le forze dell’ordine, assumono poi un ruolo di rilievo nel consentire o meno, nella pratica, la fruizione dei servizi, soprattutto nei casi incerti e non perfettamente documentati.
In quarto luogo vanno ricordate le istituzioni solidaristiche e i vari soggetti della società civile che esercitano attività di mediazione e connessione tra migranti e servizi pubblici, forniscono orientamento e consulenza per le procedure di regolarizzazione e altre pratiche burocratiche, oppure producono autonomamente servizi (per es. cure mediche, corsi di italiano) per gli immigrati che non possono formalmente accedere ai servizi pubblici in quanto irregolari.
Le reti di prossimità completano il quadro, quando cominciano a conoscere e a riconoscere gli immigrati stabilmente insediati, soprattutto le famiglie, come componenti legittimi dell’ambiente sociale di riferimento: vicini di casa, genitori dei compagni di scuola dei figli, frequentatori dei medesimi spazi sociali e urbani. Si potrebbe anche dire: quando cominciano ad attribuire agli interessati un’identità sociale diversa o comunque più complessa di quella riferita alle loro origini straniere, quando cominciano a vederli appunto come genitori, vicini di casa, compagni di squadra nel gioco.
Questi processi hanno una componente routinaria, informale e persino inconsapevole. Sono fatti di pratiche quotidiane che si consolidano e si istituzionalizzano. Pensiamo ai genitori che ogni giorno accompagnano i figli a scuola, ai vicini di casa che cominciano a salutarsi, a scambiare qualche parola, a prestarsi reciprocamente piccoli servizi; alle interazioni tra medici di base e pazienti, tra insegnanti e genitori, tra commercianti e clienti. Nel tempo si producono così forme di apprendimento del funzionamento dei servizi, di adattamento reciproco, di abitualizzazione alla convivenza e allo scambio sociale tra persone di provenienza diversa.
Rimane una differenza non trascurabile tra immigrati stranieri e cittadini a pieno titolo: i processi di cittadinizzazione avvengono a velocità diversa, richiedono risorse e competenze di vario tipo, e soprattutto sono reversibili. Per esempio, le differenze nell’acquisizione di una competenza linguistica adeguata incidono sui processi di cittadinizzazione. Ancor più, la perdita del lavoro e l’esperienza della disoccupazione per gli immigrati possono comportare lo sgretolamento dei traguardi faticosamente raggiunti e persino la perdita del permesso di soggiorno. Un problema giudiziario o un incidente con le forze di polizia non ha lo stesso significato per chi dispone della cittadinanza e per chi non ne dispone. Quindi i processi di cittadinizzazione dal basso sono importanti, ma non al punto da costituire un’alternativa all’accesso formale alla cittadinanza: di fatto normalmente sono parte del percorso che sfocia nella naturalizzazione.
Gli atti di cittadinanza nella vita quotidiana
Un elemento cruciale dei processi di cittadinizzazione sono quelli che Isin e Nielsen (2008) hanno definito “atti di cittadinanza”. Questo concetto non solo contrappone lo status legale di cittadino alle pratiche effettive mediante le quali la cittadinanza viene esercitata, la cittadinanza formale alla cittadinanza sostanziale, ma focalizza l’attenzione sugli atti, individuali e collettivi, con cui “i soggetti si costituiscono come cittadini”. Nell’accezione degli autori, gli atti di cittadinanza hanno un significato di rottura: infrangono abitudini, creano nuove possibilità, rivendicano diritti e impongono obblighi con toni densi di emozioni; pongono le loro richieste con modalità originali e creative; soprattutto, sono i veri momenti che cambiano le pratiche, lo status e l’ordine costituiti.
Reinterpreto invece il concetto in maniera più ordinaria e vicina alla quotidianità, intendendo per atti di cittadinanza le azioni intenzionali e socialmente rilevanti mediante le quali i soggetti si affermano come cittadini, acquistano diritti o li esercitano in forme pubbliche. Vi possono quindi rientrare manifestazioni collettive e azioni di protesta, come pure l’atto individuale di iscriversi a un’organizzazione sindacale.
Distinguerei in proposito diverse categorie di atti di cittadinanza. Possiamo individuare anzitutto atti di cittadinanza civile: qui rientra uno snodo fondamentale come l’accesso allo status di soggiornante regolare, e poi i passaggi successivi, fino alla naturalizzazione. Molto rilevanti sono poi gli atti di cittadinanza economica: la sottoscrizione di un contratto di lavoro regolare, il passaggio ad altre occupazioni, l’eventuale avvio di un’attività indipendente. Abbiamo poi degli atti di cittadinanza sociale, quelli che consentono di accedere ai diversi istituti di welfare: l’iscrizione al servizio sanitario nazionale, le domande di cassa integrazione o di sussidi per i disoccupati, le pratiche per ottenere contributi per l’affitto o benefici per i nuovi nati. Per gli adulti che desiderano imparare l’italiano o migliorare le loro competenze professionali, o veder riconosciuti i propri titoli di studio, entrano in gioco quelli che possono essere definiti atti di cittadinanza educativa: l’iscrizione a un corso, la frequenza, e infine il superamento di un esame finale e il conseguimento di una certificazione. Di speciale rilievo sono infine gli atti di cittadinanza politica: quelle iniziative mediante le quali gli immigrati, pur essendo privi del diritto di voto politico, possono esprimere istanze, rivendicare interessi, entrare nel dibattito pubblico.
In questi processi di ridefinizione dei contenuti effettivi della cittadinanza, le pratiche sociali dei migranti contribuiscono dunque a ridisegnare dal basso il significato e le implicazioni concrete di questa basilare istituzione di raccordo tra individuo e società. Emergere dall’irregolarità, trovare un lavoro, contribuire con le imposte al finanziamento della spesa pubblica, frequentare corsi di istruzione, beneficiare di servizi sociali, iscriversi a un sindacato, partecipare alla vita sociale del territorio, prendere parte all’attività politica: attraverso questi processi di cittadinizzazione, e ancor più mediante atti di cittadinanza intenzionali, gli immigrati entrano sempre più a far parte della società in cui vivono.