Congedi e servizi: la debole forza dei discorsi europei in Italia


Stefania Sabatinelli | 24 Maggio 2019

Anni 1990-2000: Agenda di Lisbona e target di Barcellona

Nell’anno 2000 il Consiglio Europeo di Lisbona pose come prioritario l’obiettivo dell’aumento dell’occupazione femminile al 60% entro il 2010. Nonostante i risvolti in termini di parità di genere, l’obiettivo era soprattutto associato alla più generale finalità della Strategia Europea per l’Occupazione di ampliare la base occupazionale favorendo l’attivazione di quei profili di popolazione meno attivi e meno occupati – i giovani, le persone prossime all’età pensionabile, le persone con disabilità e, soprattutto, le donne. Avere più occupati avrebbe consentito di far fronte al cambiamento dei rischi sociali su due versanti. A livello individuale, i nuclei con maggiore presenza nel mercato del lavoro sono maggiormente in grado di fronteggiare l’erosione del potere d’acquisto dei salari, la precarizzazione dei contratti di lavoro e la disoccupazione, come anche le separazioni familiari (oltre a maturare diritti pensionistici più consistenti, che garantiranno livelli reddituali maggiori anche in futuro). Questa è – per inciso – la principale ragione per la quale l’occupazione delle madri è un potente fattore preventivo della povertà dei bambini. A livello sociale, maggiore occupazione significa maggiori entrate fiscali e contributive e, per contro, minor spesa sociale per misure di sostegno, economico e non. Due elementi di non poco conto in un’epoca di austerità ormai “permanente”, nella quale agire sulla spesa sociale diventava sempre più difficile, e nella quale però diveniva anche sempre più urgente riformare i sistemi di welfare per rispondere meglio all’emergere di nuovi bisogni sociali: cura degli anziani non auto-sufficienti, sostegno e attivazione a fronte di un mercato del lavoro più flessibile e, appunto, conciliazione famiglia-lavoro.

L’occupazione femminile consentiva ampi margini di ampliamento. Data la forte variabilità in relazione alla presenza o meno di figli, la conciliazione famiglia-lavoro divenne un tassello rilevante del “modello sociale europeo”, sia sul fronte dell’adeguamento dei congedi parentali, sia su quello dell’espansione dei servizi di cura. Il successivo Consiglio di Barcellona fissò dei livelli target di copertura dei servizi all’infanzia da raggiungere entro la stessa data: 90% per i bambini tra i tre anni e l’inizio della scuola dell’obbligo, 33% per i bambini fino ai tre anni. Le prescrizioni erano limitate: sarebbero stati conteggiati servizi pubblici o privati, sovvenzionati o meno, purché formali. Sul finire del decennio, e all’inizio della crisi economica, nel 2009, il Quadro strategico per la cooperazione europea nell’educazione e nella formazione (ET2020) suggerì che entro il 2020 la partecipazione a servizi formali ECEC dei bambini tra i 4 anni e l’età di inizio della scuola dell’obbligo dovesse essere pari almeno al 95% in media europea, senza obiettivi specifici per i singoli paesi. Occorre evidenziare che a tali obiettivi non si sono accompagnati incentivi né sanzioni per gli stati membri: la pressione europea si è esercitata prevalentemente sul piano dei discorsi.

 

L’Italia, come si sa, ha raggiunto una copertura quasi universalistica delle scuole dell’infanzia già nei primi anni Novanta, dunque l’obiettivo per la fascia d’età 3-5 era già raggiunto ben prima che fosse posto a livello europeo. Se distanziava diversi paesi relativamente al segmento pre-scolare, ne era invece fortemente distanziata sul segmento 0-2 anni. Nel 2000 la copertura pubblica era infatti poco più del 6%. Il nostro paese avrebbe dovuto quindi essere particolarmente sensibile ai richiami europei in materia, ma il loro impatto può essere giudicato piuttosto lieve. Il riverbero dei discorsi sovranazionali nel dibattito pubblico italiano si è tradotto prima nel fondo destinato alla creazione di servizi tipo nido nella legge di bilancio per il 2002, poi nel 2007 nel Piano Straordinario Nidi (oltre 700 milioni su tre anni con il co-finanziamento regionale). L’assenza di una riforma di sistema, la difficoltà a destinare risorse a questo capitolo di spesa già prima che scoppiasse la crisi economica, i successivi problemi di implementazione legati anche al Patto di Stabilità interno che limiterà fortemente le assunzioni hanno contribuito a risultati modesti. La copertura pubblica o pubblicamente sostenuta è stimata all’11,9% nel 2012, e la distanza tra Centro-Nord e Mezzogiorno, che il Piano Straordinario si proponeva di ridurre anche con premialità intermedie, si è invece ampliata, passando da 9,7 punti percentuali nel 2003/04 a 11,2 nel 2012/13 [Sabatinelli 2016].

 

Complessivamente il dibattito pubblico e politico ha dato poco spazio all’argomento della conciliazione famiglia-lavoro, quasi confinato nel calendario mediatico e politico alla ricorrenza dell’8 marzo da un lato e all’inizio dell’anno scolastico, all’apertura delle iscrizioni o al momento di definizione delle graduatorie dall’altro. Si è dibattuto molto di più sul tipo di servizio da promuovere (asili nido contro nidi in famiglia o telelavoro, per esempio), sul profilo di fornitore da sostenere (pubblico contro privato o aziendale) e sulla modalità di gestione (diretta o esternalizzata), che sul cuore della questione: l’insufficienza dei posti a fronte di una domanda crescente, il deserto dell’offerta in molte aree del paese, i costi elevati per le famiglie che riuscivano ad accedere. Nel frattempo, le donne hanno continuato a ridurre o interrompere la propria attività lavorativa, ad affidarsi – laddove possibile –ai nonni a tempo pieno o, sempre più, ad utilizzare servizi privati.

 

Grande Recessione e Social Investment

Nel decennio successivo i servizi alla prima infanzia tornano all’attenzione dell’Unione Europea a seguito dell’adozione della prospettiva del Social Investment. In risposta alla riduzione di risorse legata alla recessione che si andava ad aggiungere all’austerità permanente, prende piede l’interpretazione di parte della spesa sociale non come mero costo ma come foriera di ritorni economici futuri [Morel et al. 2012]. I servizi pre-scolari hanno in questo senso una doppia valenza. Nella loro funzione di conciliazione, già al centro dei discorsi del decennio precedente, consentono alle donne di lavorare (e dunque di pagare tasse e contributi, e di prevenire l’impoverimento del loro nucleo familiare). Inoltre, nella loro funzione di socializzazione e di sostegno allo sviluppo cognitivo dei bambini essi consentono significativi investimenti in capitale umano, dimostrati da migliori risultati scolastici successivi, che possono contribuire a ridurre la trasmissione intergenerazionale dell’esclusione sociale. Gli argomenti propri del Social Investment sono divenuti rapidamente pervasivi al livello dei discorsi. Nel difficile quadro della recessione globale e dell’austerity, quella dell’investimento sociale è apparsa come una soluzione win-win, nella quale tutti vincono. Nel 2013 la Commissione Europea presenta il “Social Investment Package: Towards Social Investment for Growth and Cohesion”, al fine dichiarato di fronteggiare il rischio di povertà e di esclusione sociale, in aumento a causa della crisi. I servizi di childcare e il sostegno ai genitori vi sono individuati come uno degli assetti di intervento. Sono, però, via via emersi anche numerosi punti critici: un approccio eccessivamente produttivista, il rischio che la spesa per questi nuovi programmi possa «spiazzare» quella per politiche compensative che, invece, servono quanto e più di prima, il rischio che il sostegno pubblico a tali programmi possa rafforzare le disuguaglianze sociali anziché ridurle, poiché essi sono paradossalmente più facilmente accessibili per coloro che hanno maggiori risorse – nel caso dei servizi all’infanzia tipicamente le famiglie bi-reddito e più istruite. Infine, il rischio di sottovalutare i fattori contestuali, mentre le politiche che si possono ascrivere ad un approccio di investimento sociale si sono sviluppate in maniera piuttosto disomogenea e tendono anche a produrre risultati assai diversificati tra contesti nazionali e anche locali. L’Italia da questo punto di vista rappresenta un tipico “caso avverso” [Ranci e Kazepov 2016]: fattori economici, come la scarsa domanda di lavoro qualificato e lo sviluppo comparativamente inferiore del settore dei servizi, e fattori istituzionali, come la limitata capacità di attuare vere riforme di policy [Da Roit e Sabatinelli 2013], lasciano predire uno sviluppo contenuto di queste misure e, per di più, esiti paradossali in termini di accessibilità e redistribuzione.

 

Negli anni 2010 osserviamo nel nostro paese andamenti non lineari nell’ambito dei servizi all’infanzia. Il trend di minimo ma costante incremento della copertura registrato negli anni Duemila si arresta, pur in presenza di un numero di nuovi nati che diminuisce. La recessione ha reso la domanda più volatile, per la maggiore disponibilità delle famiglie a internalizzare la cura date la maggior disponibilità di tempo e la minor disponibilità economica in corrispondenza di disoccupazione, inoccupazione, cassa integrazione. Le politiche di austerity si sono tradotte nell’azzeramento dei trasferimenti alle Regioni su questa voce di bilancio, effettivo nel 2011, sostanziale nel 2012, mentre negli anni successivi le sole risorse disponibili sono quelle del Piano di Azione e Coesione per le quattro Regioni del Sud comprese nell’obiettivo europeo «Convergenza» (319 milioni di euro per il periodo 2013-15, poi esteso sino al 2017). I tagli ai trasferimenti hanno contribuito a ridurre la propensione alla gestione diretta di molte amministrazioni comunali, nel tentativo di limitare le spese gestionali (e in parte anche al fine di superare i vincoli alle assunzioni) [Neri 2016]. In generale, il trade-off tra quantità e qualità dei servizi è divenuto più stringente. Tuttavia, l’approccio del Social Investment prescriverebbe di agire su entrambi i fronti: l’espansione quantitativa è funzionale alla conciliazione famiglia-lavoro, mentre elevati livelli qualitativi garantiscono l’investimento in capitale umano e non la mera custodia. Ma lo stesso intervento sullo sviluppo cognitivo dei bambini, se non raggiunge un ampio numero, rimane marginale o – più probabilmente – elitario. Di qui il dilemma: quantità e qualità dovrebbero andare insieme, in un contesto di risorse scarse, possibilmente senza scaricare il costo dell’operazione sui lavoratori dei servizi, comprimendone salari e condizioni di lavoro.

Alcune misure adottate prima dal governo tecnico del 2012 e poi dai successivi governi della scorsa legislatura hanno perseguito (benché in modo disorganico) un obiettivo diverso: quello di sostenere le famiglie nell’affrontare il costo della cura e, più in generale, il costo di crescere dei figli. L’istituzione nel 2017 del “Sistema Integrato 0-6”, invece, adotta un approccio che possiamo definire di Social Investment, riconoscendo per la prima volta in un atto normativo nazionale il carattere educativo del nido (come sottolineato da Aldo Garbarini su Welforum), agendo sulla armonizzazione dei requisiti formativi degli educatori a livello universitario e promuovendo i coordinamenti pedagogici territoriali. Nonostante si siano introdotti dei primi, laschi livelli essenziali per il segmento 0-2, nessun diritto soggettivo è stato introdotto. Il sistema integrato è accompagnato da un piano triennale che distribuisce oltre 200 milioni di euro alle Regioni, non solo per interventi strutturali ma anche per sostenere la gestione dei servizi, che resta il vero nodo alla base della difficile espansione della copertura, del conflitto qualità/quantità, nonché degli alti livelli di compartecipazione alla spesa richiesti alle famiglie. Ci si deve però chiedere se l’entità del fondo sia adeguata a rispondere ai molteplici obiettivi ad esso attribuiti.

 

Congedi e servizi nel Pilastro Sociale

Venendo alle iniziative europee più recenti, il tema della conciliazione famiglia-lavoro è affrontato nell’ambito del Pilastro Sociale, in particolare con il principio n. 9, denominato appunto “Equilibrio tra attività professionale e vita familiare”. Esso, infatti, sancisce “il diritto per i genitori e le persone con responsabilità di assistenza a un congedo appropriato, modalità di lavoro flessibili e accesso a servizi di assistenza. Gli uomini e le donne hanno pari accesso ai congedi speciali al fine di adempiere le loro responsabilità di assistenza e sono incoraggiati a usufruirne in modo equilibrato”.

Su questo la Commissione Europea ha adottato nell’aprile 2017 una proposta di direttiva, entro uno dei tre pacchetti di iniziative legate al “Pilastro Sociale”, articolata in quattro punti:

  • Congedi di paternità: almeno 10 giorni, retribuiti almeno al livello del congedo per malattia.
  • Congedi parentali: almeno quattro mesi non trasferibili tra i genitori, da usufruire part time o full time fino ai 12 anni dei figli, anch’essi retribuiti almeno al livello del congedo per malattia.
  • Congedi per assistenza a parenti: almeno 5 giorni di congedo all’anno per prendersi cura dei parenti non autosufficienti, compensati al livello del congedo per malattia.
  • Flessibilità degli orari lavorativi: rendere esplicito il diritto per tutte le persone con figli sotto i 12 anni o parenti non autosufficienti a richiedere condizioni di lavoro flessibili, quali riduzione delle ore lavorative, orari flessibili e flessibilità sul luogo di lavoro.

 

Nel nostro paese è forte la necessità di intervenire sui congedi di paternità e parentali. Sul primo siamo fermi ad una misura non strutturale (una petizione online per renderlo tale ha recentemente raccolto oltre 10.000 firme) e di pochi giorni. La Legge di Bilancio per il 2019 ne prevede 5 di congedo obbligatorio più uno facoltativo e fruibile solo se la madre rinuncia a un giorno di congedo di maternità. Sul secondo, la fruizione del congedo parentale è stata recentemente resa ancor più flessibile (già dal 2012 può essere frazionato anche su base oraria) relativamente all’età dei bambini, portata a 12 anni per l’utilizzo e a 6 anni per il diritto alla compensazione economica (8 anni per i nuclei a basso reddito). Nulla invece si muove sul versante del livello della indennità, che rimane al 30% della retribuzione media del lavoratore o della lavoratrice, e che resta il fattore più forte a svantaggio della fruizione da parte dei padri che sono anche, nella grande maggioranza dei casi, il genitore con il reddito da lavoro più elevato. Se la direttiva europea venisse approvata potrebbe dunque rappresentare una sponda interessante per il dibattito pubblico sul tema.

Sul versante dei servizi, il principio n. 11 – pur sotto un titolo poco attuale: “Assistenza all’infanzia e sostegno ai minori” – pare adottare i principi dell’investimento sociale, sancendo che “i bambini hanno diritto all’educazione e cura della prima infanzia a costi sostenibili e di buona qualità. I minori hanno il diritto di essere protetti dalla povertà. I bambini provenienti da contesti svantaggiati hanno diritto a misure specifiche tese a promuovere le pari opportunità”.

 

Rimangono, tuttavia, molti dubbi in merito al possibile grado di penetrazione di un tale strumento nell’agenda italiana. Chiara Crepaldi richiama in questo Punto di Welforum i limiti del Pilastro Sociale, che non entra nel merito delle modalità di implementazione dei diritti statuiti, della distribuzione di responsabilità tra i livelli di governo, delle eventuali sanzioni per inadempienza e, soprattutto, della previsione di risorse economiche per l’attuazione degli obiettivi delineati. In merito alla conciliazione famiglia-lavoro e ai servizi per l’infanzia, la mancata indicazione della possibilità di attenuare le procedure automatiche in caso di infrazione del deficit a fini di investimenti sociali appare particolarmente miope, soprattutto per quei paesi – come l’Italia – che non possono contare su un contesto nazionale favorevole.


Commenti

Il problema principale é la remunerazione dei vari congedi e la direttiva recentemente approvata dal Parlamento non ha introdotto nessun obbligo in materia.
Quindi gli stati membri potranno continuare come prima a privilegiare soluzioni “cheap” che su copertura di introdurre nuovi diritti non faranno altro che perpetrare discriminazioni nei confronti delle donne/mamme/assistenti dal momento che quasi sempre sono quelle che guadagnano meno.