Eredità e prospettive per la nuova Commissione Europea


Beppe Guerini | 8 Maggio 2019

Si avvicina la scadenza delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo che, secondo l’opinione di molti, determineranno un profondo cambiamento degli equilibri politici che hanno caratterizzato una politica comune europea strutturata sull’alleanza, o meglio il grande compromesso, tra forze politiche tradizionali espressioni del centro destra e centro sinistra europei. Una convergenza che si trovava sia nel Parlamento sia nella composizione della Commissione Europea, che si manifestava poi negli estenuanti negoziati nel Consiglio Europeo, sempre più il luogo prevalente nei processi di presa di decisione e quini il luogo più fortemente condizionato dalle divisioni, dagli opportunismi e del peso dei governi nazionali.

Dopo le elezioni, tra giugno e settembre prenderà forma e si insedierà la nuova Commissione Europea dove ancor più che gli equilibri di forze all’interno del Parlamento, saranno le negoziazioni tra i Governi degli Stati membri a dare forma al nuovo assetto dell’Unione Europea.

È quindi prevedibile che vi saranno cambiamenti importanti, proprio mentre si dovranno completare le impostazioni della programmazione pluriennale, su cui si struttura l’architrave delle politiche europeo per i prossimi anni. Saranno infatti il nuovo Parlamento e la nuova Commissione ad implementare il Quadro Finanziario Pluriennale per il 2021-2027 da cui discendono le politiche economiche e soprattutto gli interventi di finanziamento dei fondi strutturali: dal Fondo Sociale Europeo (FSE), al Fondo per la Coesione Territoriale, dalla Politica Agricola Comune al Fondo Strategico per gli investimenti, che assumerà il nome InvestEU, oltre naturalmente ai grandi programma di ricerca e innovazione come Orizont2020 che diventerà OrizontEU.

 

Il nuovo mandato delle istituzioni europee troverà in eredità uno strumento di grande interesse per chi si occupa di welfare e di lavoro. Ovvero il Pilastro europeo dei diritti sociali, un documento di programmazione e orientamento adottato dalla Commissione uscente e dal Vertice Europeo di Göteborg nel dicembre 2017, che contiene importanti proposte per “…definire una serie di principi essenziali per il buon funzionamento e l’equità dei mercati del lavoro e dei sistemi di protezione sociale”. Si tratta di un provvedimento importante e necessario tanto condivisibile quanto, a mio giudizio, tardivo, attraverso il quale la Commissione Europea lancia un messaggio politico, dopo anni di disinteresse verso le politiche sociali, che cambia rotta rispetto alla concentrazione prevalente sui temi finanziari che aveva assorbito, dopo crisi finanziaria del 2008, le maggiori attenzioni della politica europea.

È un fatto rilevante che sia ricomparsa nell’agenda europea un’attenzione forte alle tematiche sociali, alla necessità di proteggere le persone più esposte alle fragilità, tuttavia proprio nel momento in cui l’Unione Europea  riscopre una dimensione sociale,  deve contemporaneamente farlo con Governi nazionali egoisticamente ripiegati su esigenze di immediato consenso politico interno. Quando invece si dovrebbero affrontare piani di intervento straordinari e capaci di lungimiranza, ma che soprattutto richiedono una visione solidaristica e di lungo periodo per essere affrontate.

Su questo le tendenze politiche di successo, cercano consenso con la narrativa della riduzione delle tasse.  Questa china non solo porterà il sistema a nono essere più sostenibile, ma potrebbe addirittura provocarne il collasso drammatico del sistema di welfare europeo.

 

Di fronte a questi rischi qualsiasi pretesa di trovare soluzioni egoistiche nei singoli stati dell’unione è illusoria e pericolosa, per i cittadini soprattutto per le fasce di popolazione più esposte e vulnerabili. Il modello economico e sociale europeo richiederà di essere ripensato a partire soprattutto da una maggiore capacità di sostenere solidarietà e partecipazione diretta di ampie parti della popolazione in un ruolo attivo di produttori di innovazione sociale e di nuove relazioni di cura e reciprocità sussidiaria.

In questa idea di un Europa più sociale, servirebbe la ridefinizione di un sistema di welfare comunitario che unisca i contesti locali e i sistemi produttivi, che integri welfare municipali e regionali con le reti di protezione mutualistiche e contrattuali, con quelle di welfare aziendale e di responsabilità solidali. Serve riconoscere che in un sistema economico in trasformazione, come quello europeo, non si possono considerare le politiche sociali, come forme della carità o della sicurezza sociale pubblica, bensì come il basamento che regge una società e il suo sistema produttivo. Dobbiamo saper costruire una società che rovescia il rapporto tra economia e welfare, nel senso che dalla nostra capacità di reinventare i sistemi di cura, protezione sociale, assistenza educazione e formazione deriva la tenuta del sistema economico e produttivo.

 

Impossibile immaginare che un continente di anziani, famiglie vulnerabili, e giovani che diventano adulti sempre più tardi, possa incrementare l’occupazione, la produttività e il progresso sociale se a questa popolazione non sapremo assicurare un sistema di cura e protezione. In questo senso o l’Europa trova il modo di valorizzare e riconoscere che sarà il welfare ad assicurare sviluppo e di crescita, saranno cioè welfare e lavoro a reggere l’economia e la possibilità di continuare a dare impresa, altro che fine del lavoro.

 

Il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali è un provvedimento importante ma ancora condizionato da una visione che appartiene al passato. Troppo timido nell’individuare strategie di innovazione sociale profonda. Ma in ogni caso è il punto di partenza su cui ricostruire un dialogo europeo ed una visione nuova dei sistemi di welfare e lavoro per il nostro continente.

Appare ancorato infatti su concetti tanto importanti quanto ingessati in un sistema di regole e contrattazione che è evidentemente figlio della paura (legittima) di perdere i diritti acquisiti con i sistemi di sicurezza sociale e i mercati del lavoro nazionali che faticano a proiettarsi nel futuro e finiscono per stabilizzare le tutele consolidate ma trascurano o nemmeno sono in grado di vedere bisogni emergenti. Uno su tutti la questione migrazioni, a cui il documento licenziato dalla Commissione Europeo non dedica l’attenzione necessaria. A conferma che, per certi versi, l’incapacità dimostrata dall’Unione Europea, nella gestione della crisi migratoria, non è solo sintomo del crescere del risentimento verso il diverso o della riemersione di un razzismo che covava sotto le ceneri.  L’avversione e il rifiuto verso i migranti è la manifestazione del terrore panico degli europei verso i poveri.

È sconcertante quindi osservare che, mentre ci sarebbe un bisogno enorme di lavorare in modo coeso, con una “Politica sociale europea comune”, per investire su innovazione e ricerca per cercare le soluzioni politiche e pratiche nell’interesse di tutti, vediamo crescere il consenso verso partiti euroscettici, populisti e nazionalisti che al contrario, cercano di trarre vantaggio dalle paure, alimentando l’illusione di soluzioni semplicistiche a problemi complessi, soffiando sul fuoco di pericolose divisioni nella società.

 

In ogni caso, per quanto non sia del tutto soddisfacente, il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, rappresenta un cambio di direzione importante e per questo va fatto conoscere e deve essere oggetto di confronto politico per ridisegnare una nuova fase di sviluppo dell’Unione Europea.

 

L’ambizione, per noi esponenti delle organizzazioni dell’economia sociale europea, sarebbe quella di spingere un progetto per una “Politica sociale europea comune” che come è stata in passato la PAC (Politica Agricola Comune) divenga uno dei pilastri dell’Unione Europea. Abbiamo sempre più bisogno di immaginare un Europa capace di includere e coinvolgere tutti i cittadini in tutte le fasi del ciclo di vita nell’essere protagonisti nell’edificazione di un welfare della responsabilità, che potrebbe trovare nelle forme organizzative sussidiarie: cooperative e imprese sociali, fondazioni, associazioni, mutue, volontariato le fondamenta su cui riedificare il pilastro europeo dei diritti sociali.

 

Per ridare slancio ad un progetto di un Europa più sociale, è indispensabile che vi sia l’assunzione di un protagonismo diretto della società civile, che dovrebbe essere anche maggiormente riconosciuto dalle autorità pubbliche. Poiché senza il coinvolgimento attivo dei cittadini, organizzati nelle formazioni sociali, che sappiano lavorare sul riconoscimento e la valorizzazione dei diversi interessi, che hanno legittimazione nelle comunità locali. Riconoscere e valorizzare le formazioni sociali, i portatori di interesse collettivi, i corpi intermedi e le organizzazioni dell’economia sociale è la migliore risposta alla degenerazione del populismo, che mai potrà rappresentare un’idea di “bene comune”. Il populismo cavalca il disagio sociale, alimenta proteste e aggrega consensi “contro” qualcuno ma non riesce a far evolvere una risposta a bisogni complessi, che richiedono la composizione in positivo di interessi, a volte diversi, che richiedono invece un lavoro paziente di cucitura per far convergere le persone, a partire da quelle che si trovano in situazioni di vulnerabilità o che sono vittime di discriminazioni, verso l’assunzione di responsabilità orientate al bene comune.

La rapidità con cui avanzano le nuove tecnologie digitali stanno ridefinendo il nostro modo di vivere e lavorare, le nostre relazioni e i nostri sistemi di cura e comunicazione.

 

Diversamente da chi prevede un futuro con “macchine che lavorano” e umani che si dedicano al consumo e al tempo libero, sostenute da “redditi universali” effetto della redistribuzione della ricchezza prodotta dai robot, sono convinto che il lavoro umano sia necessario e indispensabile, non solo per garantire progresso e sviluppo, ma anche per assicurare la democrazia e la giustizia sociale.

Nessun popolo infatti è più manipolabile e controllabile di una platea di persone che vivono di assistenza pubblica e costruiscono la loro identità su quello che consumano anziché su quello che sanno generare attraverso il lavoro. La trasformazione del lavoro impatterà in maniera molto forte anche nel contesto delle professioni della cura, dell’educazione e della salute. Una “Politica Sociale Comune Europea” dovrebbe cercare di coordinare le azioni e gli investimenti che si stanno facendo nella promozione della cosiddetta agenda digitale affinché le sfide economiche, occupazionali e sociali non siano una scollegata dall’altra.

Occorre inoltre considerare che le nuove forme di lavoro si stanno sviluppando ad una grande velocità, e gli strumenti di regolazione contrattuali non riescono a tenere il passo del cambiamento, basti pensare al fenomeno badanti se ci limitano all’ambito delle professioni del welfare, ma pensiamo ad esempio a tutto il dibattito che si è svolto la scorsa estate sul tema dei “Rider”, o all’impatto delle piattaforme di scambio digitali che dalle consegne di cibo o la gestione dei trasporti o dell’ospitalità alberghiera, sempre più stanno introducendo nell’ambito del lavoro di cura.

Nella storia dell’unione europea, la Politica Agricola Comune ha rappresentano la più grande azione di coordinamento e programmazione politica realizzata in modo continuativo, a cui corrispondeva e corrisponde una dotazione economia enorme. La PAC infatti ha sempre assorbito una quota prevalente del bilancio dell’Unione.

In termini analoghi dovremmo fare per rendere coerente e incisiva una Politica Sociale Comune Europea, dedicare una congrua parte di risorse a questi obiettivi, anche se realisticamente occorre ricordare che il bilancio complessivo su cui si regge tutta l’Unione Europa, dalle spese di funzionamento delle istituzioni fino alle spese per i fondi strutturali, passando per la PAC e per i programmai aero-spaziali tutto questo vale poco più del 1% del PIL globale, e a questo corrisponde la quota di contribuzione degli stati membri. Non possiamo quindi chiedere di più all’Europa o pensare di rivendicare la necessità di un Europa più sociale se non si porrà seriamente anche la questione della dotazione di risorse che gli stati membri conferiscono all’Unione. Nella pianificazione delle risorse per il Quadro Finanziario pluriennale tuttavia un vero e proprio cambiamento di rotta non si vede. Infatti non vi si trova un incremento ne per il FSE ne per il Fondo di Coesione e anche nella PAC, le misure che in passato si destinavano allo sviluppo locale e ai piani sociali per le aree rurali, andranno a compensare le riduzioni investendo percentualmente di più nei contributi diretti.

Tuttavia un segnale importante di trova invece nel inserimento di una dotazione dedicata agli investimenti in infrastrutture sociali e di welfare, all’interno del fondo InvestEU, il programma che andrà a sostituire il “piano Juncker” per gli investimenti nel prossimo mandato.

Per la prima volta si prevede nell’ambito del piano europeo di finanziamento, che tradizionalmente andavano al sistema economico imprenditoriale o alle infrastrutture che invece vedranno una specifica dotazione per gli investimenti nella infrastruttura sociale, sanitaria e per l’inclusione sociale.

Attrezzarsi a impiegare con successo in modo generativo le risorse dedicate agli investimenti sociali è il modo per dimostrare nei fatti che investire nel welfare genera occupazione e crescita economica per tutti.  In questa direzione già la stessa Commissione Europea nel dibattito che ha accompagnato l’adizione del Pilastro europeo dei diritti sociali, ha proposto che il 25 % dei Fondi strutturali e di investimento europei, così come il Fondo sociale europeo e il Fondo europeo di sviluppo regionale, siano destinati alla promozione di investimenti sociali in servizi e politiche sociali, sanitarie, educazione, formazione e housing sociale.

Per ricostruire un sistema di welfare che parta dai cittadini, oltre agli investimenti, serve una governance partecipata ed inclusiva della programmazione e gestione dei servizi di welfare, in particolare di quelli realizzati a livello locale per sviluppare il potenziale innovativo dei territori ed orientare le politiche pubbliche alla creazione di valore nelle comunità locali.

Dobbiamo per questo chiedere alle forze politiche che si candidano per  cambiare l’Europa che la riduzione delle diseguaglianze, nelle varie forme in cui queste si osservano crescere, diventi una priorità, poiché non è sufficiente parlare di lotta povertà e dell’esclusione sociale, senza una convinta azione di cambiamento dei modelli economici e fiscali che si impegni a ridurre le diseguaglianze.