Le RSA: se, per chi, come…


Roberto Franchini | 26 Novembre 2020

Il mondo intero, e in esso il mondo dei servizi residenziali per anziani, è stato profondamente scosso dall’evento pandemico. Durante la preoccupante crescita della curva epidemica, le istituzioni sociosanitarie e i loro dirigenti si sono sfidati nel rintracciare soluzioni di emergenza, che garantiscano la continuità assistenziale e al contempo la qualità di vita possibile, lottando per la salute dei loro ospiti mentre al contempo affrontano notevoli difficoltà economiche, dovute ad una certa latitanza delle istituzioni pubbliche, per lo più concentrate a garantire il funzionamento del servizio ospedaliero.

Nel frattempo, sui media si sono diffuse le posizioni più intransigenti: c’è chi attacca in modo pervasivo e totale la concezione stessa delle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), spingendo in modo univoco verso la domiciliarità, ritenuta l’unica offerta in grado di rispettare la dignità della persona anziana, salvaguardandone ad un tempo la salute.

 

Nulla di nuovo, per altro: la critica alle istituzioni residenziali vanta una storia secolare, che l’emergenza pandemica ha solo acuito, offrendo il destro per accelerare le critiche, in un momento delicatissimo per la loro stessa esistenza. “Le case di riposo sono figlie bastarde delle case della carità e degli ospedali ed esprimono le peggiori caratteristiche dei due genitori. Sono l’ultima spiaggia allo stesso modo degli ospedali del XIX secolo. Lo stereotipo è quello di un luogo brutto puzzolente, popolato da persone fragili, spesso dementi” (Kane R.L. e West J.C., 2005). “L’ambiente delle RSA comunica quietamente e quotidianamente ai residenti che sono anziani, vecchi, malati e morenti, che il lavoro dello staff è quello di tenerli in confort, tranquilli e ben assistiti e senza recriminazioni da parte delle famiglie” (Ronch J., 2013). Ancora, un’estrema definizione di una RSA è: “Un gigantesco box per bambini, pulito e sicuro, per occupare il tempo delle persone anziane fino alla morte” (Ronch J., 2013).

 

Ma è proprio così? O meglio, è così inevitabilmente? L’ipotesi che il dispositivo stesso della RSA non sia utile alla comunità civile andrebbe messa al vaglio di un serio impianto di ricerca, volto a indagare se questa tipologia di organizzazione residenziale sia in ogni modo una soluzione deprecabile, oppure se per una particolare fascia di popolazione essa rappresenti un sostegno concreto per la più alta qualità di vita possibile.

Senza questo tipo di riflessione, supportata da dati ed evidenze empiriche, tutte le posizioni di principio, sia difensive che offensive, rischiano di essere ideologiche, unilaterali, e in fondo inutili e dannose. La politica dei servizi, infatti, deve essere costruita nel nome dell’appropriatezza, e non di sterili discussioni che traducono un presunto piano valoriale in affermazioni apodittiche e in fondo cieche.

L’ideologia, per altro, nasce sempre da una buona idea. Ma, come spesso è accaduto nella storia dell’uomo, una buona idea, estremizzata, diventa hegelianamente la “notte in cui tutte le vacche sono nere”, facendo smarrire la capacità tutta umana di discernere, distinguere, personalizzare. Ora, se un tempo (e probabilmente ancora oggi) nel nome della salute si giustificavano approcci assistenzialistici, standardizzati e segreganti, per nulla rispettosi della dignità della persona anziana, né portatori dei suoi veri interessi, d’altra parte l’insistenza sulla domiciliarità può banalizzare la complessità delle traiettorie di vita, particolarmente laddove la gravità delle menomazioni rivela acutamente bisogni ulteriori e diversi da quello domestico, pur senza negare questo. Insomma, se c’è stata e c’è un’ideologia dell’assistenza residenziale, forse ora c’è anche un’ideologia della domiciliarità. Dall’una e dall’altra occorre sfuggire, per assumere uno sguardo sereno, privo di posizioni aprioristiche.

 

In uno scenario non ideologico, ma concreto e realistico, la domanda non è più se la RSA debba esistere, ma per chi debba esistere, e come. Muovendosi all’interno di queste più ampie e costruttive questioni, la questione diventa: esiste una porzione della popolazione anziana che, per varie ragioni, non è bene che viva al proprio domicilio, e per la quale invece la soluzione residenziale rappresenta un concreto e possibile miglioramento della Qualità di Vita (oltre che di quella dei familiari)?

Se la risposta a questa domanda dovesse essere positiva (come chi scrive sostiene, anche se ancora in ragione di pura ipotesi, non avendo ancora raccolto dati concreti, ma solo evidenze empiriche e narrative), la seconda domanda diventerebbe la seguente: a quali condizioni organizzative (come) la RSA è in grado di sostenere la Qualità di Vita della persona anziana?

In realtà la questione del come è già stata ed è ampiamente affrontata. Nel cosiddetto movimento del Culture Change (Pagani et alii, 2016), originatosi nel mondo statunitense delle Nursing Homes, ma largamente diffuso anche in Italia, le RSA sono state e sono in grado di affrontare un cambiamento radicale dell’ambiente fisico, dei valori, delle norme di riferimento e della struttura organizzativa sottostante. In questo paradigma e filosofia di presa in carico, sebbene venga mantenuta l’importanza di un’adeguata cura clinico-assistenziale e riabilitativa delle condizioni patologiche, un’enfasi determinante viene posta sulla massimizzazione del benessere della persona nel suo nuovo ambiente di vita, reso quanto più possibile simile a un ambiente domestico (sia nei ritmi, sia nella struttura abitativa). Tale ambiente punta a mantenere l’identità e la dignità del ricoverato e a promuovere la collaborazione e l’interdipendenza tra residenti, familiari e operatori. Inoltre l’approccio enfatizza la necessità di mantenere quanto più possibile il controllo da parte del residente sulla sua vita e le sue scelte.

 

In Italia, la Società Italiana di Geriatria e Gerontologia ha proposto una visione del senso e degli obiettivi della RSA, intesa come struttura del territorio destinata ad accogliere – per ricoveri temporanei o duraturi – anziani non autosufficienti, cui deve offrire:

  1. una sistemazione residenziale (Residenza) con una connotazione il più possibile domestica, organizzata in modo da rispettare il bisogno individuale di riservatezza e di privacy e da stimolare al tempo stesso la socializzazione tra gli anziani accolti;
  2. tutti gli interventi medici infermieristici e riabilitativi (Sanitaria) necessari a prevenire e curare le malattie croniche e le loro riacutizzazioni, nonché gli interventi volti a recuperare e sostenere l’autonomia dei residenti;
  3. un supporto individualizzato (Progetto di Vita) orientato alla tutela e al miglioramento dei livelli di autonomia, al mantenimento degli interessi personali e alla promozione del benessere fisico, psicologico e spirituale; in sintesi, al raggiungimento del miglior livello di qualità di vita (QDV) possibile, compatibilmente con le problematiche cliniche e le limitazioni funzionali.

 

Naturalmente la questione è: le RSA hanno realmente avuto successo in questa operazione di cambiamento culturale? Davvero per una certa coorte di popolazione anziana, presumibilmente quella connotata da limitazioni importanti dell’autosufficienza e/o gravi problematiche di solitudine e di depressione, esse hanno rappresentato la migliore soluzione possibile? Oppure questo cambiamento culturale è reso impossibile da fattori organizzativi come la dimensione, la condivisione di spazi comuni, il formalismo professionale o altro ancora?

La polemica in corso (per altro probabilmente evitabile in un momento in cui gli operatori stanno dando il massimo, e non hanno certo bisogno di essere messi sotto accusa) richiama l’esigenza di una risposta seria a questi interrogativi, mediante un impianto di ricerca che consenta di governare i servizi con indicatori di appropriatezza poliedrici e multidimensionali, come ha dimostrato di essere il costrutto di Qualità della Vita.

 

In realtà, in questi ultimi anni il paradigma di Qualità di Vita si sta arricchendo e potenziando, andando oltre lo statuto di una semplice nozione atta a “sensibilizzare”, e divenendo un costrutto misurabile, articolato in domini e dotato di concreti indicatori. Come è noto, infatti, il valore della Qualità di Vita è stato da più parti tradotto in domini ed indicatori, mentre strumenti oggettivi e soggettivi vengono utilizzati per tradurlo in misura, in modo tale da poter effettuare ricerche sperimentali, attraverso le quali diviene possibile indagare i fattori che contribuiscono più di altri ad aumentare il livello di QdV delle persone accolte dei servizi.

È certamente estremamente complesso valutare la qualità di vita di una persona anziana, tanto più se affetta da disabilità multiple, funzionali e cognitive; ma è proprio per questa fascia di popolazione, vulnerabile ed esposta al rischio di perdita di individualità, che il concetto di qualità della vita e di benessere dovrebbe assumere il valore di faro e di chiave di lettura per dirigere le politiche e gli interventi. Tra gli altri, Rosalyn Kane (una dei pionieri dello studio di strumenti per la misurazione della QDV in RSA) ha definito 11 ambiti della QDV per le persone ricoverate in NH che collettivamente potrebbero fornirne una sintesi: autonomia, individualità, dignità, privacy, divertimento/piacere, attività significativa, relazione, sicurezza, confort, benessere psicologico e competenza funzionale (Kane R.A. et al., 2003).

È auspicabile dunque che, dopo la scioccante novità della pandemia, la questione del cambiamento delle politiche non sia ancorata al criterio delle pure dichiarazioni di principio, evitando di farsi ispirare soltanto dalle proprie convinzioni personali, per aprire il terreno della ricerca, antropologicamente fondata e metodologicamente sostenuta.