Questione salariale in Italia e direttiva sui salari minimi adeguati
Orsola Razzolini | 21 Novembre 2022
La crisi della contrattazione collettiva come «autorità salariale»: il problema della rappresentatività sindacale
Il 19 ottobre 2022 è stata pubblicata la direttiva 2022/2041 sui salari minimi adeguati. L’Italia, insieme ad Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia, appartiene ai paesi in cui il salario minimo non è determinato dalla legge, ma dalla contrattazione collettiva che, a parere della direttiva e dell’Impact Assessment, è maggiormente in grado di garantire salari minimi dignitosi in contesti caratterizzati da organizzazioni sindacali forti. Anche a fronte dell’elevata copertura della contrattazione collettiva, superiore all’80% e pari al 100% se nel dato si include la possibilità del lavoratore di ottenere i minimi tabellari previsti dai CCNL per via giudiziale1, l’Italia dovrebbe dunque rappresentare un modello virtuoso. Eppure, a dispetto delle schematizzazioni che circolano nelle istituzioni UE, in Italia esiste una “questione salariale”: più specificamente, una crisi della contrattazione collettiva come “autorità salariale”2. In altri termini, la contrattazione collettiva nazionale non è più in grado di svolgere una delle sue principali funzioni: sottrarre i salari al gioco della concorrenza al ribasso tra imprese e tra lavoratori e determinare livelli retributivi conformi ai parametri della sufficienza e della proporzionalità stabiliti dall’art. 36 della Costituzione. Le ragioni si possono così sintetizzare: 1) la frammentazione delle sigle sindacali e datoriali che, nel rispetto della libertà e del pluralismo, consente a sigle poco rappresentative di negoziare il prezzo del lavoro al ribasso, alimentando la concorrenza sleale e il dumping salariale (c.d. “contratti pirata”); 2) l’incontrollata moltiplicazione dei CCNL (992 nel 2021) e delle categorie contrattuali che determina sovrapposizioni e dumping. In sostanza, è in profonda crisi l’idea che l’ordinamento intersindacale possa funzionare da sé, rimanendo autonomo e autosufficiente rispetto all’ordinamento statuale. Per tali ragioni, la maggior parte della dottrina concorda che è urgente affrontare almeno due questioni: 1) la misurazione della rappresentatività sindacale (ma anche delle associazioni datoriali) e la selezione dei sindacati maggiormente o comparativamente più rappresentativi; 2) l’individuazione dei contratti collettivi applicabili sulla base di criteri più oggettivi e meno discrezionali. La questione della misurazione della rappresentatività è da tempo oggetto di numerosi esperimenti legislativi. Tra i casi più noti possono citarsi quello degli appalti pubblici: l’art. 30, co. 4 del d.lgs. 50/2016 prevede che al personale impiegato nell’appalto sia applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato «dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» e che risulti «strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto» (precisazione su cui si tornerà in seguito). Nonché il caso delle cooperative: in base all’art. 7, co. 4, d.l. n. 248 del 2007, in presenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili alla medesima categoria, deve essere applicato un trattamento economico e normativo non inferiore a quello dettato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale della categoria. Un meccanismo che la Corte costituzionale ha giudicato compatibile con l’art. 39 Cost. (v. sent. n. 51/2015) e che ha dato buona prova tanto che sia il DDL n. 1132/2019 a prima firma on. Nannicini sia il DDL n. 658/2018 a prima firma on. Catalfo ne hanno proposto la generalizzazione. Resta difficile misurare la maggiore rappresentatività comparata. Nel settore privato, in mancanza di disposizioni normative simili a quelle previste dal d.lgs. n. 165 del 2001 per il lavoro pubblico e di un’effettiva generalizzata applicazione del TU del 2014 sulla rappresentanza sindacale, i criteri sono di elaborazione giurisprudenziale e fanno principalmente riferimento ad elementi quali la diffusione territoriale, il dato numerico associativo, il numero di CCNL stipulati3.
Il dogma della libertà contrattuale nell’individuazione del CCNL applicabile
La selezione delle associazioni sindacali e datoriali sulla base della loro effettiva rappresentatività non basta tuttavia a fronte di CCNL che, pur firmati da sigle rappresentative (Cgil, Cisl, Uil), contengono minimi retributivi ritenuti dal giudice non conformi all’art. 36 Cost. e persino al di sotto della soglia di povertà ISTAT. Si pensi al CCNL vigilanza e servizi fiduciari, che stabiliva un compenso orario lordo pari a 6,16 Euro4. Discorso analogo vale per il CCNL multiservizi, che prevede trattamenti economici complessivi piuttosto bassi con un ambito di applicazione molto ampio, che può estendersi dalla logistica all’industria alimentare, dall’edilizia all’igiene ambientale, facendo concorrenza al ribasso ai CCNL leader ivi vigenti, che sono in linea generale più onerosi per le imprese5. Il problema su cui riflettere è dunque l’eccessivo appiattimento del sistema delle relazioni industriali sul dogma della libertà contrattuale. Tale dogma si traduce nel rispetto assoluto della volontà delle parti, e in particolare di quella del datore di lavoro, di scegliere il contratto collettivo persino quando esso risulti «innaturale rispetto alle oggettive caratteristiche dell’impresa»6, con l’unico limite rappresentato dalla possibilità del lavoratore di invocare la non conformità del trattamento retributivo corrisposto all’art. 36 Cost. Stando così le cose, a fronte di 992 contratti collettivi nazionali esistenti (un numero che va tuttavia meglio analizzato e compreso)7, un datore di lavoro sceglie il contratto collettivo allo stesso modo in cui sceglie un prodotto al supermercato, innescando fenomeni di law shopping e social dumping. Una soluzione era prevista dall’art. 2070 c.c. secondo cui, per l’applicazione del contratto collettivo, si deve guardare al dato oggettivo dell’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore. Altra soluzione si trova nell’art. 30, co. 4 del d.lgs. n. 50 del 2016: negli appalti pubblici il CCNL applicato deve risultare coerente con l’attività svolta dall’impresa. Resta comunque il problema del multiservizi che, a fronte della sua natura generale e trasversale, può risultare coerente con l’attività svolta da un’impresa operante nella logistica, nell’industria alimentare, nell’igiene ambientale. Si potrebbe allora precisare che non basta la semplice coerenza: in presenza di una pluralità di CCNL, il contratto applicato deve essere quello maggiormente connesso all’attività svolta. In questa direzione si muove, apprezzabilmente, il DDL Catalfo, che riferisce però tale connessione all’attività svolta dai lavoratori.
Il possibile contributo della direttiva
Nel contesto descritto, quale contributo offre la direttiva sul salario minimo adeguato rispetto alla questione salariale italiana? La direttiva è un importante passo avanti della politica sociale europea poiché chiarisce che la concorrenza nel mercato unico non può giocarsi sul dumping salariale, a lungo considerato dalle istituzioni UE un legittimo vantaggio competitivo delle imprese operanti in paesi caratterizzati da bassi livelli salariali come quelli dell’Est Europa8. Tuttavia, con specifico riferimento all’Italia, la direttiva rischia di essere quasi controproducente. Nell’affermare che il miglior strumento per elevare i salari è la contrattazione collettiva con elevata copertura, essa può divenire un facile alibi per non intervenire affatto e accantonare il dibattito sulla possibile introduzione di un salario minimo legale. Per contro, tale dibattito deve continuare poiché è a tutti evidente che, nonostante la contrattazione collettiva, l’Italia ha i tassi di In-Work Poverty e disuguaglianza tra i più elevati d’Europa e le retribuzioni tra le più stagnanti. Sotto un diverso e meno indagato profilo, la direttiva potrebbe però offrire un contributo significativo alla questione salariale in Italia offrendo la spinta per procedere a una giuridificazione minima del sistema della contrattazione collettiva che risulti compatibile con l’art. 39 Cost. In altri termini, lo Stato potrebbe finalmente intervenire per stabilire almeno the rules of the game: fare cioè in modo che sia meglio definito il perimetro di gioco (le categorie) e ben selezionati i giocatori. È l’art. 8 della direttiva, rubricato «Accesso effettivo dei lavoratori ai salari minimi legali», ad offrire una sponda in tal senso: gli Stati devono infatti garantire l’accesso dei lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo legale attraverso l’adozione di una serie di misure, tra le quali il rafforzamento delle ispezioni sul lavoro e la previsione di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive. L’art. 8 si riferisce solo al salario minimo legale, ma leggendo il provisional agreement, l’art. 1 della direttiva che individua tra i propri obiettivi la garanzia “dell’accesso dei lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo, sotto forma di salari determinati da contratti collettivi o di un salario minimo legale”, l’art. 12 in materia di sanzioni (una disposizione orizzontale) e facendo più in generale riferimento al principio di effettività e del primato del diritto UE, si comprende che ogni paese, a prescindere dal sistema adottato, deve garantire ai lavoratori un effettivo accesso al salario minimo adeguato anche prevedendo l’irrogazione di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive in presenza di violazioni. Si tratta di un obiettivo che, senza una giuridificazione minima del sistema contrattuale, l’Italia non sarà in grado di realizzare. Come è possibile, infatti, prevedere un intervento degli ispettori sul lavoro e l’irrogazione di sanzioni se non ci sono norme di legge di cui deve essere accertata l’osservanza, se il contratto collettivo viene applicato su base interamente volontaristica, restando così esclusa la possibilità di imporre alle parti un determinato contratto collettivo?9 In definitiva, il principio dell’“accesso effettivo” al salario minimo adeguato è il cavallo di Troia attraverso cui l’Italia potrebbe essere costretta a dover predisporre una cornice legislativa minima del sistema contrattuale, affrontando finalmente i nodi irrisolti della questione salariale.
- V. i dati su “collective bargaining coverage” per gli anni 2000-2019 riportati dall’OECD e disponibili qui.
- Per tutti, T. Treu, “La questione salariale: legislazione sui minimi e contrattazione collettiva”, in Dir. Rel. Ind., 2019, p. 767 ss.
- V. Cass., 30 marzo 1998, n. 3341.
- Trib. Torino, 9 agosto 2019, n. 1128; Trib. Milano, 25 febbraio 2020, n. 225.
- Per avere un’idea di come, nell’igiene ambientale, il CCNL Multiservizi faccia concorrenza al ribasso al CCNL igiene ambientale leader Fise/Assoambiente, Utilitalia, può essere utile consultare il Rapporto Appalti e conflitto collettivo della Commissione di garanzia sciopero, 2021, disponibile qui.
- V. Cass. SU 26.3.1997, n. 2665.
- V. S. Leonardi, M. Faioli, S. Bologna (a cura di), Il dumping contrattuale nel terziario, Edizioni CeMu, in corso di pubblicazione.
- Emblematica la sentenza Cgue, 3 aprile 2008, C-346/06, Rüffert.
- V. C. Santoro, La contrattazione collettiva nel diritto sanzionatorio del lavoro, Adapt University Press, 2018; M. Novella, “Effettività del diritto alla retribuzione e attività di vigilanza”, in Riv. giur. lav., 2019, p. 288 ss.