Considerazioni provvisorie sull’operare nei servizi sociali ai tempi del coronavirus


Cristiana Pregno | 18 Marzo 2020

Quando mio fratello doveva sposarsi, mia madre iniziò a preparargli il corredo: lenzuola ricamate, tovaglie, asciugamani. Poi, pochi giorni prima del matrimonio, lui non è più tornato a casa. Ma lenzuola e tovaglie ci sono ancora, e le uso quotidianamente, decenni dopo.

 

Uso questo ricordo per sottolineare la nostra fragilità di donne e uomini, la brevità e l’imponderabilità del nostro passaggio in questo mondo. Ora, in questi giorni terribili, la fragilità umana è sotto gli occhi di tutti, ripetuta e ripetuta con il numero dei letti di terapia intensiva occupati, con il numero dei morti ed anche, per fortuna, con il numero dei guariti. In questo scenario, chi opera nel sociale come può mettersi a disposizione?

Non si può continuare con le stesse modalità di sempre, questo è ovvio, bisogna contemperare la tutela della salute pubblica con la tutela della salute dei lavoratori con la vicinanza alle persone. Una sfida inedita, mai sperimentata.

 

Le singole organizzazioni di lavoro sono il primo riferimento ed è fondamentale portare idee e tenere comportamenti costruttivi nel tentativo di ridisegnare la presenza dei servizi sociali ai tempi del coronavirus. Fa parte della nostra responsabilità.

Gli uffici non possono essere chiusi, ma il loro funzionamento va rimodellato in funzione dell’emergenza. Non possono essere chiusi, perché? Garantire ascolto ai cittadini, soprattutto in queste circostanze, è essenziale? Io credo di sì; pensare che si possano lasciare tutti coloro che hanno bisogno di noi ad autogestirsi è come dire che le persone – tutte, nessuno escluso – possono autoregolarsi ed autovalutare le proprie condizioni e, soprattutto, risolvere da sé i propri problemi, qualunque essi siano. Sappiamo che non è vero, non è umanamente possibile avere soluzioni in tasca, sempre, in ogni accadimento della vita.

Se l’ascoltare è essenziale, occorre trovare delle forme per poterlo garantire in sicurezza, quella dei cittadini e quella degli operatori. E per ridurre gli spostamenti, ridurre i contatti fisici.

 

Ma non c’è solo l’ascolto, ci sono attività che non possono essere eluse, c’è chi non può uscire di casa, chi non sa neppure che c’è un’epidemia in atto, chi non ritiene di avere bisogno di aiuto.

Telefonare ai servizi sociali o alla Protezione Civile è un atto di consapevolezza e capacità; e per queste persone occorre organizzare risposte. Poi ci sono coloro che non telefonano, ma che, sollecitati, sono in grado di dire “avrei bisogno di questo e di quello”. Poi ci sono gli altri, che non riescono ad arrivare al telefono, che non hanno il telefono, che rispondono ma non capiscono le domande. Allora bisogna andare a trovarli a casa (o altrove, se la casa non c’è). Prendere un mezzo, se l’auto di servizio non c’è, e bussare alla porta, senza sapere che cosa ci sarà dietro quella porta.

 

Mi hanno raccontato di una assistente sociale e di una operatrice sociosanitaria che sono andate, in questi giorni, a casa di una signora anziana, una di quelle signore che non vogliono essere seguite dai servizi, fiere della loro autonomia di ottantacinquenni che hanno fatto tutto da sé, nella vita. Orgogliose di una autonomia che non c’è più. Non c’era nessuna richiesta, c’era solo un appunto da qualche parte, “monitorare”. Molti incisi si potrebbero fare su cosa vuol dire monitoraggio, sul piano tecnico e su quali siano le risorse necessarie per farlo bene, ma adesso non è il caso. La signora, con moltissima fatica, è riuscita ad alzarsi dalla sedia dove passa giorni e notti e ad aprire la porta: era sporca, in una casa lurida, stravolta dalla solitudine e dalla sofferenza, con gravi ulcere alle gambe; ha difeso per un po’, con le ultime forze, la sua autonomia con l’equipaggio del 118, ma poi ha accettato di andare in ospedale. Una giornata buona, per il servizio sociale; appena in tempo.

L’ascolto è anche vicinanza, fisica, reale e buona organizzazione dei servizi: per fare questo gli operatori hanno bisogno di mezzi, dispositivi di protezione individuali, in primo luogo, ma anche di strumenti informatici, piattaforme per poter lavorare da casa ed accedere agli archivi degli uffici, ecc.

 

Queste sono considerazioni provvisorie, il tempo presente può portare (anche) qualcosa di buono: riaprire il dibattito sul valore del servizio sanitario pubblico e, a seguire, sui servizi di welfare per i cittadini, sul loro ruolo e sulle loro dotazioni; in una parola, sulle politiche sociali e la loro importanza nella vita di tutti.

Sul piano più prettamente tecnico, si potrà ragionare, come organizzazioni e come comunità professionali, su che cosa è essenziale e che cosa non lo è, che cosa si può fare in tempi di crisi – le crisi ricorrenti del nostro tempo. Sulla differenza tra il lavoro ordinario ed il lavoro non ordinario, il non programmabile, quella catastrofe esistenziale che deve essere affrontata subito, perché il tempo di gestirla è adesso, e non domani. La perdita della casa, o la richiesta di protezione di una donna, un bambino solo, una mamma anziana con un figlio disabile che viene ricoverata. Il tempo del capire è breve, in queste situazioni, il tempo dell’agire non è procrastinabile. Fuori dall’emergenza, si potrà riflettere se il tempo ordinario ed il tempo non ordinario possano essere costantemente mischiati, nello stesso luogo, nello stesso ufficio o ci si possa dare un’organizzazione diversa, magari a rotazione fra più servizi, magari sovrazonale.

 

La vita è breve, dura meno di un lenzuolo, ma questa manciata di anni che ci è donata possiamo farla fruttare, e renderla una dote, per noi stessi e per gli altri.


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Orgoglioso di avere avuto Cristiana come posizione organizzativa. Condivido tutti i validi pensieri che ha scritto…