Covid nelle Rsa: la strage silenziosa


A cura di Gianfranco MarocchiSergio Pasquinelli | 2 Aprile 2020

Rischia di essere un’ecatombe, quella che sta avvenendo nelle RSA e nelle case di riposo, di cui non si conoscono i numeri esatti, solo informazioni frammentarie e aneddotiche su situazioni particolarmente e tristemente colpite. Ma se mettiamo in fila i molti segnali il contagio sembra essersi diffuso in modo rilevante.

Sono diversi i fronti aperti: la protezione di ospiti e operatori, a cominciare dalle mascherine; l’estensione dei test, cioè l’uso dei tamponi, sulle persone coinvolte, che alcune Regioni hanno deciso di fare a tappeto nelle RSA (oggi in Lombardia sull’intera popolazione si fanno solo circa 6.000 tamponi al giorno); la capacità di seguire protocolli terapeutici precisi in caso di anziani contagiati, in particolare seguendo protocolli di cure palliative, o “compassionevoli”.

E mentre sul fronte delle conoscenze è stata avviata una Survey nazionale sul contagio nelle strutture residenziali da parte dell’Istituto Superiore di Sanità e si è mobilitata la comunità scientifica internazionale facendo circolare interessanti studi sui rapporti tra Covid e servizi di Long term care, cerchiamo di fare il punto assieme a Luca Degani, responsabile di Uneba Lombardia, organizzazione del settore che riunisce centinaia di Rsa in tutta Italia.

 

Avvocato Degani, tra le situazioni più critiche nella gestione dell’epidemia da Covid-19 vi è quella delle strutture residenziali per anziani; in Lombardia pare che la situazione sia particolarmente problematica. Cosa sta accadendo? Per quali motivi?

Nelle RSA lombarde CI sono oggi circa 60 mila persona, in gran parte anziani cronici non autosufficienti con diverse patologie. Si tratta della fascia di persone, come ormai è noto, maggiormente esposte alle conseguenze dell’infezione da Covid-19, coloro che in caso di contagio rischiano assai più di altri di non sopravvivere alla malattia. Ci si sarebbe atteso che questo gruppo di persone fosse particolarmente protetto e tutelato, invece è avvenuto il contrario.

 

Cioè, cosa è avvenuto?

Il 7 di marzo, quando già l’entità e le caratteristiche dell’infezione (soprattutto in Lombardia) erano del tutto conclamate, la Giunta Regionale ha deliberato di trasferire nelle RSA pazienti ospedalieri positivi al Covid-19: è stato come gettare un fiammifero acceso nella paglia secca. Fortunatamente nei giorni successivi l’opposizione delle strutture residenziali e dei sindacati ha limitato il fenomeno, ma una parte del danno era compiuto.

 

E quando un ospite di una RSA contrae il virus come si agisce?

Il protocollo reale – al di là di quello che viene dichiarato – è quello che è stato illustrato nel documento elaborato dalla SIARTI (l’associazione degli anestesisti e rianimatori) Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili in cui si dice chiaramente che, in questa situazione estrema, venga data precedenza nella rianimazione ai pazienti con maggiore possibilità di sopravvivenza, quindi i più giovani. In sostanza gli anziani ospiti di una RSA non vengono ricoverati in rianimazione.

 

Di questo documento si è molto parlato sui media, ma a livello ufficiale si è sempre negato che una parte dei cittadini sia lasciata morire.

Confermo, la realtà nei fatti è questa. Dalla RSA non si viene mai ricoverati in rianimazione. Ma a ben vedere non è nemmeno questo l’aspetto più sconvolgente. Il problema posto dal documento dei rianimatori è reale, si tratta di scelte drammatiche e difficilissime, si può discutere sulle scelte passate che hanno portato ad avere una quantità di posti in rianimazione limitati, sperare in un loro veloce aumento, ma non è di per sé scandaloso che in una situazione come questa ci si trovi costretti a fare delle scelte. Ciò che invece è inaccettabile è che, oltre a non essere ricoverati in rianimazione, gli anziani ospiti di una RSA non ricevano cure.

 

In che senso non ricevono cure? Quali sono le altre azioni, oltre alla rianimazione, che vengono omesse per gli anziani ospiti di RSA?

Alla base dovrebbe esservi il riconoscimento da parte della Regione che le RSA sono un luogo particolarmente delicato, per tutti i motivi sopra richiamati; e dunque dovrebbero essere previste un insieme di azioni di cura e di prevenzione, tanto più che una RSA non nasce come luogo strutturato per gestire un focolaio di malattie infettive. Si sarebbe trattato di inviare infettivologi, pneumologi, igienisti, specialisti in grado di supportare le strutture cui non si può chiedere di essere in grado di gestire l’emergenza da sole; e sarebbe stato necessario mettere a disposizione farmaci, perché laddove si scelga di non ricoverare in terapia intensiva, sarebbe stato doveroso quanto meno dare gli strumenti per curare le persone nel luogo ove si trovavano, anche considerando che si tratta generalmente di farmaci ospedalieri, che la singola struttura non può procurarsi acquistandoli in farmacia. Un conto è non avviare gli anziani alla rianimazione, un conto è non dare garanzie di una qualche cura.

 

I sindacati stanno chiedendo alle prefetture lombarde un monitoraggio puntuale della situazione su diversi fronti, dato che manca una informazione su: l’attuazione dei tamponi su operatori, ospiti e pazienti delle strutture; il rispetto della netta separazione tra contagiati e non; uso di terapie adeguate nei casi di positività, comprese le cure palliative, e il trasferimento in strutture ospedaliere attrezzate (leggi qui). E rispetto alla prevenzione, cosa si è fatto e cosa si è mancato di fare?

Anche in questo caso le RSA sono state dimenticate; ci sono diversi aspetti altamente problematici.

Il primo è che operatori e ospiti non hanno avuto a disposizione mascherine e altri dispositivi di protezione; anzi, come evidenziato dalle cronache, un carico di mascherine destinate ad una RSA è stato requisito e dirottato sul sistema ospedaliero. Le eccezioni vi sono state, singole ASL che hanno inviato di propria iniziativa dei dispositivi di protezione alle RSA, ma si è trattato di iniziative singole e non di una politica definita a livello regionale. Di tamponi ovviamente non se ne sono visti, dal momento che se comunque la scelta è quella di lasciare le persone al loro destino diventa secondario appurare la loro condizione. In tutto ciò sembra che l’unica misura adottata sia stata quella di proibire l’accesso dei parenti. E poi vi è l’assenza di informazioni: strutture che, come già detto, non sono state concepite per affrontare queste situazioni sono state lasciate senza indicazioni, senza linee guida; non sono state previste iniziative di formazione per gli operatori che, come è noto, in una RSA possono avere gradi di preparazione molto diversi, compresi operatori non sanitari impegnati in ruoli operativi che si trovano a contatto con gli altri con un ancora maggiore rischio di infettarsi o di trasmettere il virus ad altri.

 

Le Regioni si sono differenziate molto in termini di attivazione della rete delle cure primarie e territoriali: la Lombardia ha puntato quasi tutto sugli ospedali, attivandosi poco e tardi sugli stati precoci della malattia, fase cruciale in termini di prevenzione e di rallentamento del decorso patologico.

Infatti, in altre regioni si è fatto e si sta facendo diversamente. Penso al Piemonte, alla Toscana, alla Puglia, dove si sono messi in atto strumenti diversi – tamponi, linee guida per la presa in carico – insomma, un modo attivo del livello di programmazione sanitaria regionale per tentare di fare fronte alla situazione. A quanto si sa solo in questi giorni, dopo migliaia di morti, la nostra Regione si sta apprestando a fare qualcosa di simile. Si spera che altri possano imparare dai nostri errori, ma la Lombardia è una regione che ha sbagliato completamente la sua politica sulle RSA.

 

 

Alcuni giorni dopo questa intervista, anche a seguito della diffusione di informazioni sempre più allarmanti su quanto sta avvenendo – non solo in Lombardia, purtroppo – nelle RSA, vi è stato un primo segnale di attenzione da parte delle istituzioni. Il 3 aprile è stata diffusa una circolare relativa alle indicazioni sui test diagnostici in cui si indica come prioritaria, a seguito anche delle raccomandazioni OMS, l’effettuazione di tamponi in:

“tutti i casi di infezione respiratoria acuta ospedalizzati o ricoverati nelle residenze sanitarie assistenziali e nelle altre strutture di lunga degenza, in considerazione del fatto che ivi risiedono i soggetti esposti al maggior rischio di sviluppare quadri gravi o fatali di Covid-19. Tale esecuzione è effettuata quale parte di un programma di controllo e prevenzione all’interno della strutture stesse e non può essere considerata come l’unica misura di controllo dell’infezione. Sulla base delle risultanze vengono adottate misure di controllo delle infezioni adeguate e DPI appropriati per proteggere sia le persone vulnerabili che il personale dedicato all’assistenza”.


Commenti

Sperando che questa pandemia non produca ancora più danni e sofferenze,si dovrà ,in avvenire, fare in modo che una persona anche non autosufficiente possa essere assistita nel proprio domicilio (creando le condizioni che ciò possa avvenire) con la medicina del territorio ,con cure domiciliari, con la telemedicina e ,soprattutto con l’affetto della famiglia (quando esiste ancora). Bisogna, infine,rivedere completamente l’approccio alle rsa ed esercitare sulle stesse dei controlli assidui e validi da parte delle autorità competenti.