Filantropia e Terzo settore: più che mai partner per risollevarsi


A cura di Gianfranco Marocchi | 31 Marzo 2020

Intervista a Carola Carazzone, segretario generale di Assifero- Associazione italiana delle fondazioni ed enti della filantropia istituzionale, membro dell’advisory board di Ariadne- European Funders for Social Change and Human rights, del board di DAFNE- Donors and Foundations Networks in Europe e di ECFI- European Community Foundations Initiative.

 

Carola, circa due anni fa, con un articolo pubblicato nel marzo 2018 sul Giornale delle Fondazioni diventato in pochi mesi un piccolo classico – Due miti da sfatare per evitare l’agonia per progetti del Terzo settore – hai lanciato una sfida culturale di vasta portata che investe non solo le fondazioni cui primariamente si rivolge, ma tutti i soggetti – compresi gli enti pubblici – che finanziano interventi nei settori di interesse generale. Quali sono i due miti che bisogna sfatare?

Il primo mito è che si perseguano al meglio le finalità sociali che si hanno a cuore se si riesce a pretendere dall’ente di Terzo settore la maggior compressione possibile dei costi generali, presupponendo che così si garantisca un maggiore afflusso di risorse direttamente ai beneficiari. Questo però ha al contrario il risultato di portare nel corso del tempo le organizzazioni di Terzo settore a diventare sempre più deboli: prive di risorse per fare ricerca e sviluppo, formazione, comunicazione, non si dotano di tecnologie, non possono investire in figure manageriali, ecc. Tutto questo significa impoverire le organizzazioni e la loro possibilità di realizzare interventi di qualità e quindi, in ultima analisi, si risolve in uno svantaggio anche per i destinatari finali che si vorrebbero tutelare. Il secondo mito è quello del lavorare per progetti: in sostanza che il finanziatore debba garantire gli esiti sociali desiderati vincolando il soggetto di Terzo settore a predefinire in fase di proposta e poi a realizzare puntualmente una sequenza di azioni, generalmente in un periodo medio breve, ispirate ad una logica ingegneristica adatta alla carta ma molto meno alla realtà in cambiamento.

 

In questi giorni sei ritornata alla carica prima con un articolo e poi impegnandoti a fondo, in questi giorni difficili, per promuovere un’alleanza tra gli enti finanziatori a livello europeo. Perché?

La pandemia Covid-19 sta tenendo sotto scacco il mondo intero e avrà un impatto profondo a livello sociale, economico, culturale, oltre che sanitario, con prospettive ancora difficili da decifrare. In questo scenario le organizzazioni del Terzo Settore, parte fondamentale del tessuto sociale e in prima linea nel proteggere le persone più vulnerabili, possono trovarsi in grande difficoltà nel realizzare le proprie attività e nel reperire risorse finanziarie adeguate. Questa inedita situazione fa ancor più sentire l’urgenza del dibattito lanciato a suo tempo; per questo è iniziato un movimento a livello europeo che, a partire dalla gestione della crisi sanitaria, ci porti a prendere consapevolezza della necessità di un diverso tipo di relazione tra Enti pubblici e Terzo settore.

 

Chi sta promuovendo questo appello?

L’appello è stato lanciato da DAFNE (Donors and Foundations Networks in Europe) e EFC (European Foundation Centre); nelle prime ore in cui è online è stato firmato già da una trentina di fondazioni con sede in Italia, Regno Unito, Russia, Serbia, Olanda, Croazia, Germania, Finlandia, Lussemburgo, Portogallo, Sud Africa, Spagna, Svizzera, Bosnia, Croazia e Grecia. Ma le adesioni si stanno moltiplicando di ora in ora: sono visibili sulla pagina web dove è riportato anche il testo dell’appello. Tutte le fondazioni o gli enti filantropici possono firmarlo scrivendo la propria adesione a jredding@efc.be.

 

Quali sono i contenuti specifici dell’appello?

Le organizzazioni filantropiche firmatarie dichiarano di voler adottare in questa fase un diverso approccio ai partner di Terzo settore che si sostanzia in:

  • adattamento delle attività: si esprime consapevolezza che gli obiettivi predefiniti per progetti finanziati potrebbero non essere realizzabili nelle modalità indicate; questo non darà luogo ad una sottrazione di risorse per la mancata realizzazione del progetto, ma ad un processo dialogico in cui si affronterà insieme la situazione;
  • flessibilità sulle date: per non aggiungere ulteriore pressione, i firmatari si dichiarano disponibili a ridiscutere le scadenze di rendicontazione;
  • flessibilità finanziaria: i firmatari sono consapevoli che in questa fase potrebbe essere prioritario destinare risorse ad aspetti connessi alla gestione dell’emergenza sanitaria, dai presidi per la sicurezza degli operatori ad investimenti per svolgere attività a distanza, ecc.; si è disponibili quindi a concordare spostamenti di risorse tra diverse voci;
  • disponibilità all’ascolto: nella consapevolezza delle difficoltà che possono verificarsi in questo periodo, quando un Ente di Terzo settore ne riscontrasse la necessità i firmatari sono pronti all’ascolto.

La speranza è che una mobilitazione a livello europeo costituisca uno stimolo per rilanciare in modo più significativo la riflessione su questi temi nel nostro Paese.

 

Tutto questo è assolutamente ragionevole, ma si tratta di dichiarazioni legate ad una fase emergenziale; in che modo questo potrebbe far evolvere in modo permanente la relazione tra finanziatori e Terzo settore?

Bisogna avere l’umiltà e il coraggio di trasformare un momento di crisi in opportunità rigenerativa, attivando finanziamenti flessibili per sostenere creatività, capacità e resilienza delle organizzazioni del Terzo Settore. Oggi questo significa mettersi all’ascolto e promuovere un dialogo aperto con le organizzazioni supportate, flessibilità sui tempi, liquidazione della totalità del finanziamento ex ante, semplificazione degli oneri di rendicontazione e reportistica e risorse da dedicare alla copertura dei costi correnti e a sostenere le organizzazioni. Domani significherà fare tesoro di come questo nuovo stile di rapporti intrapreso in fase emergenziale determini un vantaggio complessivo per le finalità che ci stanno a cuore e consolidarlo poi nelle fasi successive come ordinario. Ci sono ottimi motivi per ritenere che ciò sia possibile ed è significativo che al rilancio di queste idee abbia risposto anche Carlo Borgomeo, dalla cui iniziativa è nato un appello rilanciato su Change.org da numerose fondazioni di Comunità del Mezzogiorno che si conclude chiedendo al Ministro Provenzano di “realizzare un’operazione straordinaria, mediante la concessione di contributi a fondo perduto a valere sui fondi strutturali da erogare non selezionando progetti, ma alle organizzazioni con consolidata esperienza e radicamento nei territori”.

“Finanziare organizzazioni e non progetti” è uno dei contenuti a te più cari. Perché è così importante?

Lavorare per progetti deprime le organizzazioni. Crea dipendenza e le spinge a conformarsi a progettifici; le proietta sul breve periodo, generalmente 12 – 24 mesi, di durata del progetto, stimolandole a eseguire specifiche azioni più che a sentirsi protagoniste di un cambiamento di maggiore portata che richiede inevitabilmente tempi lunghi. Inoltre, come già detto, si accompagna ad una ideologia che vede nella compressione dei costi generali la strada per assicurare il massimo vantaggio per i destinatari finali, con il risultato ben noto: assenza di risorse per investire, per pensare, per dare stabilità alle organizzazioni o, oggi, per affrontare una situazione di emergenza. La modalità di lavoro per progetto non ha più senso, deve essere utilizzata in casi residuali, ad esempio con una nuova organizzazione che si vuole conoscere meglio o quando si intende sperimentare un nuovo ambito di intervento: allora e solo in quei casi può essere ragionevole allocare un budget vincolato per il raggiungimento di alcuni output attraverso attività predefinite. Se invece ci si relaziona con partner conosciuti, lavorare con strumenti concettuali inadeguati e obsoleti – il “ciclo di vita del progetto”, l’approccio del quadro logico, ecc. – per affrontare la complessità di oggi, non valorizza il potenziale del Terzo Settore, la sua spinta innovativa, la possibilità di investire risorse per affrontare la complessità di oggi con creatività, capacità, resilienza.

 

Se non si lavora per progetti, quale sarebbe secondo te il modo più corretto di approcciarsi alle organizzazioni?

Quello che a mio avviso bisogna fare è definire dei partenariati strategici sistemici e collaborativi su missioni, di lungo periodo con organizzazioni con le quali si riscontra una sintonia e delle quali si riconosce la qualità. Partenariati che non si basano su un singolo specifico progetto, ma su obiettivi di cambiamento sociale condivisi e con finanziamenti flessibili, di lungo periodo, non legati ad output predefiniti, ma ad azioni da coprogettare nel corso del tempo. Si veda per esempio qui o qui.

 

In che senso pensi che l’emergenza che stiamo vivendo in questi giorni possa contribuire alla riflessione sull’adozione di questo modello?

Partiamo da una constatazione sotto gli occhi di tutti: quanto abbiamo imparato essere importante l’avere un sistema sanitario efficace? E questo non lo si costruisce, come spesso è avvenuto, spremendo le persone oltre al limite dell’impossibile. Per il Terzo settore vale lo stesso discorso. In entrambi i casi la tenuta del nostro sistema è affidata a eroi sconosciuti, eroi senza un Omero che ne narri le gesta, eroi che ci mettono talmente tanto di motivazione, di capacità, di lavoro notturno, di dedizione da fare sino ad un certo punto argine contro i bisogni incalzanti. Ma ci rendiamo conto di quanto un sistema affidato solo a questi elementi sia fragile. Ci rendiamo conto di quanto invece avere infrastrutture organizzative solide e capaci ci può salvare nell’emergenza. E questo non può essere fatto affamando tali organizzazioni, ma al contrario sostenendone la crescita. Iniziamo a cambiare da adesso, nell’emergenza, per preparaci al post emergenza e riprendere in modo diverso.

 

Dopo due anni in che misura i contenuti che proponi sono effettivamente stati fatti propri dai soggetti filantropici?

Ovviamente vi sono situazioni molto diverse, ma queste idee iniziano ad essere condivise. Ben consapevole che fare un singolo esempio non rende giustizia ad altri, ma vorrei citare la Fondazione Charlemagne: lavora con finanziamenti con un orizzonte di otto – nove anni, prevede il supporto a funzioni quali la digitalizzazione, la comunicazione, il fundraising, insomma tutte quelle funzioni che tradizionalmente vengono viste come costi di struttura da comprimere. Gli enti di Terzo settore partner sono affiancati da uno staff accessibile e competente che svolge una funzione di ascolto, accompagnamento e supporto molto ben strutturata. Insomma, viene messo a disposizione capitale intellettuale e relazionale e non solo denaro. E, a proposito della parte economica, essa viene erogata in anticipo rispetto alla realizzazione delle azioni, evitando il paradosso di un finanziamento che deve poi essere accompagnato da un fido bancario per reggere l’anticipazione sino alla rendicontazione successiva alla fine del progetto. Tutto ciò delinea un quadro radicalmente diverso dalla tradizionale fondazione di erogazione, dove un board prende le decisioni e lo staff si limita a staccare assegni.

 

A questa impostazione viene fatto generalmente un appunto, ossia che così facendo apriamo la porta ad una serie di fenomeni patologici: ad un cattivo utilizzo dei fondi, ad accordi clientelari tra fondazione e Ente di Terzo settore, ecc. Cosa ne pensi?

Penso che questi timori di fatto rappresentino uno dei grandi freni a mano tirati nel nostro Paese. Scontiamo una mancanza di fiducia sociale, generata dal terrore di una eventuale patologia, tale da bloccare tutto. In realtà le patologie sono un fenomeno reale ma residuale, vi è una vera e propria psicosi che rende un rischio marginale l’elemento in grado di bloccare tutto e trasforma la patologia in fisiologia. Si sconta una mancanza di fiducia nel nostro tessuto sociale, il timore di assumersi la responsabilità di fare delle scelte, per cui il bando è meglio di default perché assicura la trasparenza e il fair play anche se poi è solo di facciata perché a vincere i bandi magari sono i migliori progettifici e non i migliori in assoluto. Nella realtà questi processi farraginosi e lenti uccidono l’imprenditività e il cambiamento.

 

Certo quello che tu ben descrivi è il problema principale, forse rispetto alle resistenze nel finanziare le organizzazioni c’è anche dell’altro: anche quando non vi sia il sospetto di un illecito vantaggio personale, può permanere una perplessità circa il fatto che queste siano risorse sottratte a chi veramente ne ha bisogno.

È vero, ma questo è un ulteriore e altrettanto grave problema culturale. Perché mai non dovrebbe esserci bisogno di struttura? Di chi pensa, studia, innova, comunica, organizza? Si tratta di un modello culturale, intriso di pauperismo, che affonda le radici nel volontariato cattolico: da questo approccio sono nate generazioni di persone che nel Terzo settore si riconoscono esse stesse nel mantra “non prendiamo niente per noi”, tutto ai beneficiari dei progetti e nulla ai costi di struttura. Ma non è vero che meno spendi per la struttura, più dai per la causa. I costi di struttura non sono il nemico della causa, sono parte del lavoro per quella causa. Senza costi di struttura, la causa semplicemente non si raggiunge. Paradossalmente è il contrario di quanto avviene nelle aziende dove si investe su competenze, digitalizzazione, comunicazione, sviluppo, management. Eppure anche gli imprenditori che nella loro impresa conoscono benissimo il valore dell’investimento sull’organizzazione, nella attività filantropica vogliono finanziare solo progetti.

In conclusione, vorremmo ricordare che, accanto a questa battaglia culturale, come Segretario Generale di Assifero (organizzazione che associa 107 fondazioni italiane di origine privata) avete lanciato in questi giorni una piattaforma innovativa sulle iniziative filantropiche relative al Coronavirus. Di cosa si tratta?

L’obiettivo è sempre fare sistema; per questo Assifero ha lanciato insieme a Italia non Profit la piattaforma online Coronavirus: filantropia a sistema, che raccoglie in un unico contenitore le numerose iniziative intraprese da fondazioni, enti filantropici, aziende e privati (con donazioni maggiori al valore economico di 100.000 euro). Ad oggi sono state mappate quasi 400 iniziative per un totale circa 460 milioni di euro tra donazioni in denaro e in beni e servizi. Il portale consente di porre diversi tipi di filtri (per tipo di donatore, tipo di beneficiario, tipo di donazione) per individuare le iniziative di proprio interesse. Sul medesimo portale abbiamo inserito anche la possibilità per gli enti di Terzo settore di indicare quali sono i bisogni più pressanti avvertiti attraverso un apposito form.


Commenti

Tutto assolutamente condivisibile. Tuttavia sorgono tre problemi all’orrizzonte:
1. con quali criteri le fondazioni sceglieranno i partner da sostenere
2. supportare solo certi enti per un periodo pluriennale significherà probabilmente supportare meno enti. Probabilmente ci rimetteranno le piccole e nuove organizzazioni che non riusciranno nemmeno ad accedere alla visibilità delle fondazioni eppure sono quelle che sostengono capillarmente le comunità locali
3. nel tempo, il rischio è che queste fondazioni da erogative diventino “operative” improvvisandosi in ambiti in cui hanno scarse competenze. Negli ultimi anni abbiamo avuto dei casi proprio in questa direzione. La tal organizzazione può diventare il braccio operativo di una fondazione da cui dipende economicamente e questo può inquinare il rapporto.

In riferimento ai commenti di Giovanni Sardelli volevo sottolineare come ci possano essere criteri obbiettivi anche per selezionare le migliori organizzazioni dal puno di vista della struttura (salute finanziaria, criteri di governance e di management) e del loro impatto (reputazione presso il pubblico o gli esperti, visibilita e presenza nei media di riferimento, indicatori di impatto etc).
Ci potra poi essere un periodo di transizione e si dovra pensare seriamente a come passare da un approccio all’altro e le fondazioni piu grandi potranno anche prendere in considerazione la collaborazione con fondazioni piu vicine al territorio in modo che queste (magari anche con dei loro matching funds) raggiungano le organizzazioni piu piccole.
L’operazionalizzazione di alcune fondazioni e’ un fenomeno che osserviamo gia e per me e’ proprio una conseguenza dell’indebolimento delle organizzazioni/ONG/associazioni che alcune fondazioni vanno di fatto a sostituire. Quindi un approccio che metta l’accento in priorita’ sul finanziamento delle organizzazioni sarebbe benefico e andrebbe proprio nel senso opposto della tendenza attuale.

Aggiungo solo in linea a quanto commentato da Debora che esistono già pratiche innovative di participatory grant-making e di re-granting ben sperimentate nel consentire di arrivare alle piccole organizzazioni e adotterà ai gruppi e movimenti