Non giustificare, ma prendersi cura dei lavoratori in nero


A cura di Tortuga | 7 Aprile 2020

Rimasti fuori dal decreto

Il decreto Cura Italia emanato dal governo rappresenta un primo coraggioso e imponente tentativo di sostenere l’economia italiana, provando a traghettarla quanto più indenne possibile dallo scoppio dell’emergenza sanitaria fino alla sua fine.

Uno degli aspetti principali del decreto è quello di sostenere il reddito di quei lavoratori che rischiano di non avere più uno stipendio in questi mesi, sia per questioni di salute pubblica, in quanto fisicamente impossibilitati a recarsi a lavoro, che per questioni economiche, come il crollo della domanda.

Le misure (come la Cassa Integrazione in Deroga o il bonus da 600€ per gli autonomi) hanno come target i cittadini che sono dentro il mercato del lavoro e che percepiscono (o hanno recentemente percepito) un reddito. Si è però già aperto il dibattito su coloro che sono rimasti fuori, senza un aiuto. Tra questi ci sono i lavoratori in nero, intesi come quei lavoratori che hanno un impiego ma senza alcun elemento legale, fiscale o contributivo. Un’intervista del ministro per il Sud Provenzano ha contribuito ad alzare un grande polverone su questo tema. Tema che tuttavia merita di essere affrontato con lucidità, dati alla mano.

Di chi stiamo parlando

Quando parliamo di lavoratori in nero di chi stiamo parlando? Ci eravamo occupati di questo argomento estensivamente in un precedente articolo, cui rimandiamo per approfondire. Per cogliere l’ordine di grandezza del fenomeno, l’Istat stima che nel 2017 ci fosse in Italia una quantità di lavoratori in nero di 3,7 milioni di lavoratori a tempo pieno1, pari a circa il 15% del totale. Concentrati principalmente nei settori dei servizi alla persona, dell’agricoltura e delle costruzioni, il loro lavoro pesa nel complesso il 4,5% del Pil nazionale. Una componente non proprio trascurabile.

Ancora più interessante è cercare di capire quali sono le caratteristiche individuali dei lavoratori in nero. Sfruttando i dati della European Social Survey, abbiamo provato a ricostruire un identikit del lavoratore italiano più propenso a lavorare in nero: giovane, povero, sfiduciato.

 

Prima della presentazione delle statistiche, è necessario fare una premessa metodologica importante. Nel questionario dell’European Social Survey non vi è alcuna domanda riguardante lo status di lavoratore informale. Quindi, per definire quando un singolo lavoratore fosse a nero o meno ci siamo basati su tre domande principalmente in linea con la letteratura in argomento (Hazans, 20112):

  1. Una domanda riguardante il rapporto di lavoro (dipendente, lavoratore autonomo, etc.);
  2. Una domanda riguardante il contratto (a tempo indeterminato, a tempo determinato, nessun contratto, incerto);
  3. Una domanda riguardante l’attività lavorativa nella settimana antecedente il questionario.

Quindi, abbiamo definito il lavoratore a nero come quell’individuo che è:

  1. Lavoratore dipendente;
  2. Senza contratto;
  3. Che ha lavorato nella settimana antecedente il questionario.

 

Chiaramente, una definizione di questo tipo è molto stringente. Se, da un lato, ciò ci permette di essere sicuri di identificare un lavoratore a nero, dall’altro, c’è un’importante sottostima del numero di questi ultimi. Tuttavia, come dice un popolare detto inglese, questo è il meglio che possiamo fare con i dati che abbiamo. Chiaramente, una più approfondita e precisa analisi del fenomeno potrà seguire all’inserimento di domande specifiche sul lavoro a nero nei vari questionari (European Social Survey o la Rilevazione sulle Forze Lavoro dell’Istat). Abbiamo poi calcolato la probabilità di essere un lavoratore in nero per vari gruppi di lavoratori, definiti sulla base di alcune caratteristiche (età, istruzione, reddito, fiducia nel parlamento, numero di individui nella famiglia/casa e soddisfazione nella vita).

 

Tavola 1

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Partiamo con l’interpretare il primo grafico. La probabilità di essere un lavoratore in nero è maggiore tra i giovani (18-30 anni) rispetto alle persone di età compresa tra i 40 ed i 50 anni per poi risalire nella fascia degli anziani. Questo risultato è coerente con quello che ci dice la letteratura economica. Ci sono diverse spiegazioni per questo fenomeno. Particolarmente rilevanti nel caso italiano sono due spiegazioni, una dal lato della domanda e una dal lato dell’offerta di lavoro. Partiamo dalla domanda di lavoro. I lavoratori giovani, generalmente, cambiano impiego più frequentemente, mentre invece i lavoratori anziani sanno che rimarranno nel mercato del lavoro ancora per poco tempo: quindi, dati gli alti costi di licenziamento, le imprese preferiscono assumere queste categorie di lavoratori in nero. Per quanto riguarda l’offerta di lavoro, entrambe le tipologie di lavoratori sono, in media, interessate a un lavoro più flessibile, facilmente ottenibile nel settore sommerso. Inoltre, i lavoratori giovani sono quelli, in media, meno interessati o informati riguardo la previdenza sociale e, quindi, sono spesso disponibili a scambiarla per un maggiore introito mensile nel settore sommerso.

 

Tornando ai grafici: i lavoratori poco istruiti operano più frequentemente nel settore sommerso. Come indica il secondo grafico, la probabilità condizionata al livello di istruzione di essere un lavoratore in nero è decisamente maggiore per bassi livelli di scolarità. Collegando i due risultati precedenti, non stupisce il risultato del terzo grafico: i meno abbienti avranno una maggiore probabilità di essere lavoratori informali. Un basso reddito è infatti generalmente una caratteristica tipica delle classi d’età meno ricche e di chi è poco.

Vi sono poi altri aspetti, non prettamente monetari, che meriterebbero maggiore rilevanza nel dibattito pubblico. Chi è meno fiducioso nel parlamento è più spesso un lavoratore in nero (risultati analoghi si hanno con indici di fiducia nel governo, nel sistema legislativo e nei partiti politici), e così anche chi è meno soddisfatto nella propria vita. Infine, gli appartenenti a nuclei famigliari numerosi sono più probabilmente nel mondo del sommerso con figli, fratelli e sorelle che, spesso, dipendono dal loro lavoro irregolare per il sostentamento.

 

Tavola 2

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Infine, è importante spendere qualche parola sulla relazione tra lavoro sommerso e cittadinanza. I dati dell’European Social Survey ci permettono anche di dividere i lavoratori in quattro categorie in base alla cittadinanza e al paese di nascita. Come si può vedere nel grafico questi gruppi sono: 1) Cittadino straniero non nato in Italia 2) Cittadino straniero nato in Italia 3) Cittadino italiano non nato in Italia 4) Cittadino italiano nato in Italia. Una sorta di indice di integrazione, vista da un punto di vista meramente formale. Questo ci permette di ragionare con più dati alla mano sulla situazione degli immigrati, di cui in questi giorni si è molto discusso. Come si vede chiaramente nel grafico, la probabilità di finire nel sommerso aumenta man mano che l’indice di integrazione diminuisce.

Chi è quindi che tra i lavoratori italiani si muove maggiormente verso il sommerso? Da quanto emerge dai nostri dati, sono giovani ed anziani, poco istruiti, con basso reddito, tante bocche da sfamare, sfiduciati nei confronti del sistema politico e governativo e poco soddisfatti della loro vita.

 

Prendersi cura

Sembrerebbe quindi opportuno che il governo si prenda cura anche di questi cittadini. Le loro condizioni economiche e sociali li pongono infatti in una situazione di grande difficoltà e fragilità, difficilmente capaci di sostenersi in una fase di blocco del sistema economico come quella attuale. Un mancato supporto a questa categoria di lavoratori avrebbe risvolti non solo economici, ma anche sociali e politici, in termini di maggiore sfiducia e maggiore instabilità sociale.

 

A nostro avviso gli strumenti ad oggi a disposizione (come il Reddito di Cittadinanza) potrebbero non essere adatti a fronteggiare questa crisi, nonostante alcuni requisiti siano stati allentati. Le tempistiche e le procedure burocratiche sarebbero un primo ostacolo. In più, quando si realizzano politiche pubbliche, a ogni obiettivo deve corrispondere uno strumento: il RdC serve a combattere la povertà e ad aiutare chi è rimasto ai margini della società a reinserirsi stabilmente in essa. Nulla a che vedere con l’obiettivo di sostenere temporaneamente il reddito di chi non può lavorare a causa dell’epidemia. La proposta emersa in questi giorni di un Reddito di Emergenza sembra andare nella giusta direzione. Realizzare una misura specifica indirizzata ai lavoratori del settore sommerso sarebbe infatti, per definizione, impossibile. Meglio quindi costruire uno strumento in grado di raggiungere tutti coloro che, pur essendo in età lavorativa, un lavoro non lo hanno e non dispongono di altre fonti di reddito (come una pensione), includendo in questo modo disoccupati e, appunto, lavoratori in nero. Non si tratta di giustificarli o di un eccesso di lassismo assistenzialista, quanto piuttosto di prendersi cura di tutti coloro che dall’emergenza del coronavirus sono stati colpiti. A tempi straordinari, misure straordinarie.

  1. 3,7 milioni è il numero delle unità di lavoro (ULA). Dalla nota metodologica Istat: “Le unità di lavoro (ULA) misurano il numero di posizioni lavorative ricondotte a misure standard a tempo pieno. L’insieme delle unità di lavoro è ottenuto sommando alle posizioni lavorative a tempo pieno, le posizioni lavorative a tempo ridotto ricondotte a tempo pieno. Le posizioni lavorative a tempo ridotto sono trasformate in unità di lavoro a tempo pieno tramite coefficienti ottenuti dal rapporto tra le ore effettivamente lavorate in media da una posizione lavorativa a tempo ridotto (attività di secondo lavoro, part-time) e le ore lavorate in media da una posizione a tempo pieno nella stessa attività economica.”
  2. Hazans, M. (2011). Informal workers across Europe: Evidence from 30 European countries. The World Bank.