Servizio sociale, tecnologie digitali assistive e innovazione sociale
Brunella Casalini | 15 Luglio 2022
Il servizio sociale, non solo in Italia, si è trovato in qualche misura catapultato in modo del tutto inedito nel mondo delle tecnologie digitali con la pandemia di SARS-CoV-2. In questo frangente il possesso di competenze e strumenti digitali (smartphone, tablet e computer) si è rivelato essenziale per affrontare le sfide sollevate dall’emergenza sociale e sanitaria e le carenze sia di strumenti che di competenze si sono fatte sentire. Sono emersi nuovi bisogni formativi così come problematiche per molti versi inedite che vanno ben oltre quelle affrontate nel pur nuovissimo codice deontologico del servizio sociale, varato nel giugno del 2020. Non si tratta, infatti, più soltanto di chiedersi – come fanno alcuni degli articoli contenuti nel nuovo codice – quali comportamenti sia deontologicamente corretto tenere nel momento in cui l’assistente sociale comunica e scambia informazioni aventi ad oggetto il proprio lavoro o le persone che si rivolgono ai servizi sui social network o via email (cfr. Redazione 2021). Il tema delle tecnologie digitali nell’ambito del servizio sociale è diventato più impegnativo e problematico nel momento in cui riunioni di lavoro, colloqui con gli utenti e persino momenti di supervisione professionale sono stati trasferiti dagli spazi fisici e dai setting protetti degli uffici alle piattaforme online. Di fronte alla prospettiva più che probabile, visto anche il perdurare della situazione pandemica, di consolidare queste trasformazioni nella pratica del lavoro sociale, lasciando spazio ad un ruolo nuovo dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie assistive a distanza (colloqui telefonici e/o uso di spazi virtuali) in nome dell’innovazione sociale digitale, le questioni in gioco sembrano particolarmente delicate, per una varietà di motivi che cercherò sinteticamente di illustrare. In un recente mockumentary, intitolato Empaty (sic), prodotto dal Consiglio regionale del Lazio dell’Ordine degli Assistenti Sociali, scritto, interpretato e realizzato da 22 assistenti sociali, guidati dal regista Federico Greco, vengono illustrate in modo molto efficace, utilizzando una chiave ironica, due fondamentali preoccupazioni: da un lato, quella per il ricorso all’intelligenza artificiale nell’ambito del servizio sociale con il connesso rischio derivante da un possibile uso degli algoritmi a fini di sorveglianza e oppressione (sul tema si veda, in particolare: Eubanks 2019) e, dall’altro, quella legata alla perdita della dimensione corporea ed emotiva così centrale in ogni relazione d’aiuto, in cui la comunicazione e la capacità di dare risposte efficaci al bisogno dell’altro può arricchirsi di contenuti inattesi grazie all’interpretazione contestuale di piccoli indizi quali le condizioni igieniche della persona, il tremolio delle gambe o il respiro affannoso, che non possono essere colte dallo schermo di un computer, di uno smartphone o di un tablet. Sono questi senz’altro aspetti non trascurabili, che non andrebbero tralasciati nell’ambito della formazione relativa all’uso delle tecnologie digitali assistive perché si tratta di una messa in discussione radicale di elementi fin qui ritenuti essenziali e irrinunciabili nella costruzione della relazione significativa tra operatore e persona che si rivolge al servizio sociale. Il focus di questo mio brevissimo intervento non si concentrerà, però, su queste preoccupazioni. Nella prospettiva filosofico-politica da cui mi avvicino alla questione, insegnando teorie della giustizia nell’ambito di un corso magistrale di servizio sociale, la delicatezza del tema mi sembra rimandare anche ad altre complicazioni e difficoltà, di natura più politica che etica, forse, ancora non sufficientemente trattate nella letteratura di servizio sociale. In primo luogo, un elemento che dovrebbe allarmare è legato al framework neoliberale nell’ambito del quale l’appello alla telemedicina e alla teleassistenza ha attecchito prima della pandemia, ovvero alla sua collocazione all’interno di un indirizzo delle politiche sociali che ha legittimato quei tagli nell’ambito sia sanitario che sociale di cui proprio la pandemia ha mostrato tutta la gravità. In estrema sintesi, senza un cambiamento d’indirizzo delle politiche sociali in direzione di maggiori investimenti nel sociale, il rischio per le persone destinatarie dei servizi di assistenza sociale non sono diversi da quelli che si possono individuare per l’area medica, ovvero un aumento della discriminazione dei più fragili tra i fragili, a cui non vale la pena di dedicare interventi di persona e che si può far finta di assistere a distanza, e l’utilizzo dei loro dati, tramite terze parti, per replicarne l’emarginazione in altri ambiti (quali, ad esempio, quello assicurativo o del reclutamento) (Numerico 2021, pp. 192-196). Se non vogliamo rendere ancora più fragile la realtà sociale nella quale viviamo, dobbiamo spingere perché il ricorso alle tecnologie digitali assistive avvenga all’interno di trasformazioni del welfare che ne riconoscano la centralità attraverso l’investimento di nuove risorse e la creazione di condizioni di lavoro che interrompano la tendenza verso la precarizzazione del lavoro nel sociale e nel sanitario. Le tecnologie digitali assistive dovrebbero essere inserite in un piano complessivo di rafforzamento, da un lato, della prossimità dei servizi alle persone sul territorio (Pais 2021) e, dall’altro, della loro capacità di articolare soluzioni e trovare risposte, anche contribuendo a rafforzare le reti comunitarie di auto-mutuo-aiuto. Al di fuori del modello della “città dei quindici minuti” o della “città della prossimità” (Manzini 2021), ovvero di una città pensata per accorciare le distanze, e in assenza di un adeguato numero di infermieri, medici e assistenti sociali presenti sul territorio, il ricorso alla teleassistenza rischia di aumentare la distopia del tutto “a/da casa” (ivi) con l’esito inevitabile – come, purtroppo, abbiamo visto già negli ultimi anni – di un progressivo isolamento degli individui, in particolare di quelli più fragili, per i quali la solitudine cronica e grave è diventata oggi uno dei principali fattori di rischio per la salute. Si dovrebbe, inoltre, collocare la loro introduzione e il loro potenziamento in un piano di ampliamento dell’alfabetizzazione digitale della popolazione e delle conoscenze relative al funzionamento dell’intelligenza artificiale e all’uso dei dati, nonché della diffusione della banda larga su tutto il territorio nazionale e, prima ancora, della creazione di infrastrutture digitali pubbliche che diano sicurezza e assicurino trasparenza sull’uso dei dati personali. Nell’emergenza causata dal COVID-19, chi lavora nel servizio sociale così come chi lavora nell’università ha trasferito nel giro di pochi giorni il proprio lavoro online, privilegiando spesso – per la maggiore facilità d’uso e per l’apparente gratuità – piattaforme proprietarie quali Zoom, Google Hangouts e WhatsApp, per citare i più noti (Goldkin et al. 2020; Taylor-Bewisck 2021). In questo modo, abbiamo rafforzato quello che Shoshana Zuboff (2019) definisce “capitalismo della sorveglianza”, utilizzando le piattaforme di Google, Facebook, ecc., per lo più ignari della loro logica di funzionamento (per un tentativo di far dialogare la prospettiva di Zuboff con il servizio sociale, si veda: Garrett 2021, cap. IV). In questa scelta l’urgenza di trovare soluzioni facilmente praticabili ha prevalso su altre considerazioni, prima tra tutte quella della sicurezza dell’ambiente nel quale si è andati a svolgere funzioni essenziali del welfare pubblico – un aspetto al quale in tempi “normali” agli assistenti sociali è richiesto di prestare estrema attenzione. Le tecnologie digitali non sono neutrali e la loro introduzione può sortire effetti diversi a seconda del contesto nel quale sono inserite e delle finalità alle quali vengono asservite. L’innovazione sociale digitale, se non vuole essere complice di nuove e più profonde disuguaglianze e ingiustizie sociali, deve essere in grado di tener conto delle differenze di potere esistenti a livello sociale, cercando di trovare soluzioni inclusive, democratiche e decentrate e di rafforzare la dimensione della comunicazione e dello scambio orizzontale (Graziano 2019). Da questo punto di vista, non possiamo pensare oggi al mondo digitale con lo sguardo ingenuo con cui ci si avvicinava alla rete all’inizio degli anni Novanta: la rete è oggi infestata da piattaforme proprietarie, possedute da poche, grandi corporation globali, che almeno dagli inizi degli anni Duemila hanno iniziato a ricavare i loro profitti principalmente dal tracciamento dei nostri comportamenti in rete e dalla creazione di prodotti predittivi destinati alla creazione di pubblicità targettizzate (Zuboff 2019). Un uso consapevole di Internet da parte dei servizi sociali non può ignorare i rischi di divenire complice di questo sistema opaco e fondato sulla logica del profitto. Non può fare a meno di confrontarsi con le ingiustizie sociali e le nuove forme di oppressione e di abuso che le nuove tecnologie digitali possono causare qualora rimangano all’interno del nuovo capitalismo digitale, un sistema in cui le piattaforme commerciali mettono a rischio le economie locali e sono non di rado associate a forme di sfruttamento dei lavoratori più vulnerabili. Non può, d’altra parte, neppure esimersi dallo sviluppare una riflessione sulla possibilità di rifinalizzare questi strumenti in direzione di un nuovo e più giusto welfare state, sottoponendoli ad un controllo pubblico (si veda: Huws 2020, 2021) Due ulteriori temi dovrebbero essere affrontati, infine, nella formazione dell’assistente sociale sulle implicazioni della digitalizzazione, nella prospettiva di un servizio sociale attento alla relazione tra giustizia sociale e giustizia ambientale (significativamente, la giornata del servizio sociale dell’anno 2022 è stata dedicata al tema Co-building a New Eco-Social World: Leaving No One Behind): quella dell’impatto sull’ambiente del digitale (Polito 2021) e quella, per alcuni aspetti strettamente connessa, dell’uso di strumenti tecnologici digitali che sfuggano alla logica dell’obsolescenza programmata e rispondano al criterio del diritto alla riparazione (Zuloaga, Anastasio, Arditi 2019). Il carattere ineludibile della sfida che oggi le tecnologie digitali rappresentano per il servizio sociale è testimoniato dal peso che l’argomento ha in molte recenti pubblicazioni. Basti pensare, per fare solo un esempio, al numero speciale dedicato, dal Journal of Sociology and Social Work (XLVIII, 3, 2021), al tema Digital Social Work: Challenges, Trends and Best Practices, a cura di A. L. Pelaez, H. L. Diaz, C. M. Servos e J. Castillo de Mesa. Nel Regno Unito, proprio sulla spinta prodotta dalla pandemia, il Social Care Institute for Excellence (SCIE) e la British Association of Social Workers (BASW) a cominciare dal 2020 hanno cercato di aprire un primo importante spazio per la formazione sul ruolo che il digitale può avere nel servizio sociale con il progetto Digital Capabilities for Social Workers, che offre un variegato insieme di risorse meritevoli di essere riproposte nel contesto italiano e ampliate anche alla luce di alcune delle questioni che qui ho cercato di mettere in luce. Questioni che richiedono di guardare all’uso delle tecnologie informatiche nell’ambito del servizio sociale in una prospettiva critica non solo sul piano etico ma anche sul piano politico al fine di innovare l’ambito della cura e quindi produrre una “innovazione sociale digitale” capace di mantenersi a distanza tanto da visioni tecnofobe quanto da visioni tecnosoluzioniste e tecnocratiche. Visioni, queste ultime, che sottovalutano con la questione della sostenibilità sociale ed ecologica delle nuove tecnologie quella dei pericoli di crescita delle disuguaglianze sociali di un processo di transizione alla digitalizzazione affidato esclusivamente al controllo del mercato e non decentrato.