RdC: cronaca di una morte (non) annunciata


Anna Maria Candela | 21 Febbraio 2019

Dopo numerosi annunci e tante anticipazioni di una misura (che ormai non sarà più), abbiamo avuto finalmente la possibilità di leggere la bozza finale del Decreto che disciplina il Reddito di cittadinanza e alcune misure previdenziali, come la pensione di cittadinanza e la cosiddetta “quota 100”.

 

E se fino ad oggi l’opinione pubblica e gli stessi addetti ai lavori si dividevano tra quanti si attendevano una rivoluzione copernicana nelle politiche attive del lavoro, e quanti pensavano ad un mero restyling poco più che nominalistico del pre-esistente ReI, in realtà il quadro che comincia delinearsi dinanzi a tutti noi è ben più complesso.

 

Non sembra esagerato affermare che il Decreto produrrà uno scossone nel sistema di governance assai delicato e nel percorso già complesso e accidentato della prima misura nazionale di contrasto alla povertà, sperimentata con il SIA-Sostegno Inclusione Attiva, e messa a regime con il ReI- Reddito di Inclusione. E si tratta di uno scossone culturale, giuridico, semantico, organizzativo di una portata notevole, di quelli che cancella in un colpo solo il lavoro che negli ultimi anni ha coinvolto i Comuni, le Regioni, l’Alleanza contro le povertà, le più grandi organizzazioni nazionali del terzo settore e le organizzazioni sindacali, senza peraltro disegnare una prospettiva chiara e serena per gli stessi cittadini che del Reddito di Cittadinanza dovrebbero beneficiare.

 

Pertanto, piuttosto che affrontare il nodo degli importi, ampiamente al di sotto delle aspettative alimentate in questi mesi, delle modalità di calcolo dell’assegno mensile, che indurranno a non far emergere nuove possibili posizioni lavorative nello stesso nucleo familiare, dei requisiti di accesso, che taglieranno fuori migliaia di persone che avrebbero fatto domanda, è utile soffermarsi sulla confusione culturale e giuridica che il Decreto sul Reddito di Cittadinanza porta con se, anzi con cui esordisce.

I diritti civili e sociali in contrasto tra loro. Come le generazioni

La prima affermazione spiazzante e piuttosto grave per gli studiosi di livelli essenziali di prestazioni è contenuta nell’art. 1 comma 1 del Decreto quando si dichiara che il Reddito di Cittadinanza è una “misura unica di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale”, a “garanzia del diritto al lavoro e della libertà di scelta del lavoro”. Qui appare  il tonfo culturale e giuridico del Decreto: pensare che si possa tenere su un unico piano la povertà, con tutte le sue dimensioni di fragilità, e il possesso di un lavoro è quanto meno riduttivo. E in un colpo solo svilisce gli sforzi enormi che il nostro Paese e tutte le Regioni promuovono per un sistema moderno di politiche attive per il lavoro e servizi per accompagnare al lavoro, da un lato, e per un sistema di sostegno sociale e di contrasto alla povertà per chi non ce la fa da solo, dall’altro.

La proposta, contenuta in questo comma, di rispondere ad entrambi gli obiettivi con una sola misura sarebbe naïf , se non fosse insostenibile: misureremo l’efficacia del Reddito di cittadinanza in posti di lavoro creati o in riduzione dell’indice di povertà assoluta? E se vi era già in nuce la disponibilità di tante opportunità di inserimento lavorativo, perché mettere in piedi una procedura così complessa invece che un sistema più banale, e meno ipocrita, di incentivi per l’assunzione?

Ma il comma 2 dell’articolo 1 del Decreto ci riserva una sorpresa che sarebbe incredibile se non fosse amara: si sancisce in un colpo solo la contrapposizione generazionale tra giovani e anziani, si disconosce la realtà delle famiglie allargate per necessità,  e si subordina il diritto alla vita dignitosa e a un reddito dignitoso per l’anziano pensionato al diritto al lavoro (se mai fosse così!) del giovane o adulto convivente nello stesso nucleo. Questo, infatti, afferma  il comma due quando consente la domanda di Pensione di Cittadinanza solo alle persone anziane (ultra65enni) che vivano in “nuclei familiari composti esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore a 65 anni”: e quindi se un anziano vive nella famiglia di suo figlio, magari per condividere la casa di proprietà, anche se povero non ha diritto a integrazione della sua pensione, e se un genitore ultra65enne ha ancora in casa un figlio 40enne magari con un reddito minimo da lavoro non ha diritto all’integrazione della pensione.

Oltre alla distanza siderale dai proclami che volevano tutte le pensioni minime adeguate a 780 euro, si capisce bene come questa previsione vada ben oltre la fattispecie del LEP condizionato alla disponibilità di risorse finanziarie; infatti qui abbiamo un LEP che è di seconda fascia rispetto ad un altro.

Governance duale e percorsi separati per opportunità diverse

Un altro segno di forte cambiamento è dato dalla scomparsa dei punti di accesso per la presentazione delle domande – addirittura con la materiale modificazione della rubrica dell’art. 5 del D.Lgs. n. 147/2017 che disciplina il ReI – sostituiti dal portale INPS, dalle sedi di Poste Italiane e, eventualmente dai CAF territoriali. Si riduce, insomma la domanda a mero adempimento burocratico, senza pensare che possa invece essere un importante momento di orientamento, di informazione e di pre-analisi di eventuali altri bisogni che faticano a tradursi in domanda sociale.

E dopo l’istruttoria dell’INPS ecco che il doppio registro acquisisce anche una rappresentazione plastica. Tutti gli inoccupati e disoccupati maggiorenni, non frequentanti un regolare corso di studi o di formazione (e quindi gli studenti universitari fuori corso come li consideriamo?!), e non ingaggiati nel lavoro di cura di bambini 0-3 anni o di gravi non autosufficienti, dello stesso nucleo familiare devono rilasciare una DID, ovvero dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro, presumibilmente su piattaforma telematica all’atto della presentazione della domanda. E qui le strade si dividono:

  • se il richiedente ha meno di 26 anni, o ha meno di 2 anni di disoccupazione, o ha già un patto di servizio e magari fruisce ancora della NASPI o altro ammortizzatore sociale, si occupano di lui i Centri per l’Impiego, o i Servizi privati per il lavoro, anche se non è dato sapere come in un CPI possa essere svolta anche la valutazione multidimensionale di eventuali ulteriori fabbisogni oltre che di un posto di lavoro; e così il CPI predispone un Patto per il Lavoro (già Patto di Servizio) e da qui in poi parte il tour con tanto di “navigator” tra le diverse proposte di lavoro, a distanze variabili, per mantenere il beneficio economico;
  • se il richiedente non ricade nelle tipologie di cui al punto precedente “è convocato dai servizi competenti per il contrasto alle povertà”, con un sbrigativo rinvio al D.Lgs. n. 147/2017 o a quel che resta. Questo significa che tutti gli individui che hanno una maggiore criticità nell’accesso al lavoro non vengono neppure presi in considerazione dai CPI, ma rinviati ai Comuni, per la presa in carico con il patto di inclusione. E’ questa la fase in cui, nei fatti, il “diritto al lavoro” che si voleva garantire al comma 1 dell’art. 1 passa in secondo piano, quasi come se, essendo minore il pronostico di efficacia dell’intervento di politica attiva, l’impresa non sia conveniente e quindi meglio fare il percorso residuale, definitivamente condannato allo stigma dell’assistenzialismo.

 

Quale ruolo svolgano le Regioni non è dato sapere, oltre all’assunzione del personale dei CPI, all’accreditamento dei servizi privati per il lavoro – che non è ben chiarito con quali risorse dovrebbero essere remunerati, nella prima fase, oltre a quota parte del beneficio economico di chi dovesse essere assunto, nella seconda fase – le amministrazioni regionali non sono neppure citate, e così si volatilizzano le complementari misure regionali per il contrasto alle povertà, i piani regionali per il contrasto alle povertà, il raccordo tra misure di sostegno al reddito e reti dei servizi alle persone e alle comunità, la possibile cooperazione applicativa tra basi informative, e tanto altro. Peraltro viene superato anche il consueto passaggio sulla necessaria e preventiva intesa con le Regioni e i Comuni in Conferenza Unificata per arrivare all’approvazione del Decreto, né vi è traccia della attenzione necessaria sia alla rete degli Assessorati al Lavoro che alla rete degli Assessorati alle Politiche Sociali, entrambe pesantemente coinvolte.

 

Quale ruolo svolgano i Comuni è più chiaro, ed altrettanto residuale: in assenza di Anagrafe Nazionale della popolazione residente, e nelle more che questa sia implementata, i Comuni dovranno verificare il requisito della residenza in Italia negli ultimi 10 anni, il che praticamente equivarrà a fare vere e proprie indagini in molti casi da un Comune all’altro, a ritroso per 10 anni; quando i richiedenti non presentino un buon pronostico di efficacia in termini di occupabilità i CPI inviano gli utenti ai Comuni per il successivo patto di inclusione, ed eventualmente attivano gli ulteriori servizi.

A fronte di una filiera istituzionale chiaramente danneggiata e di un netto ridimensionamento del ruolo dei Comuni – per i quali, per inciso, da due anni vanno avanti azioni specifiche per il rafforzamento dei Servizi Sociali professionali di Ambito territoriale, l’assunzione di personale tecnico e amministrativo, l’acquisizione di servizi specialistici e l’attivazione del tutoraggio in azienda per molti beneficiari –, e a fronte di una improbabile riuscita dell’impresa di potenziare i CPI pubblici, appare, per contro, chiara la materializzazione di importanti ritorni per i soggetti privati:

  • il Decreto prevede che i beneficiari del sussidio che non verranno convocati entro 60 giorni dai Centri per l’impiego riceveranno l’«assegno di ricollocazione», da utilizzare presso i soggetti che forniscono servizi di assistenza intensiva alla ricerca di lavoro (centri per l’impiego o Agenzie per il lavoro accreditate); questa previsione ha tutto il sapore di una dichiarazione preventiva di resa da parte del sistema pubblico, e chiaramente attiva un flusso di denaro nei confronti delle Agenzie per il lavoro;
  • il Decreto prevede che quando un beneficiario del Reddito di Cittadinanza dovesse essere assunto da una impresa, e tale assunzione dovesse essere realizzata attraverso una agenzia per il lavoro o un ente di formazione, il beneficio economico si ripartirebbe al 50 per cento tra impresa e intermediario;
  • gli operatori dei centri per l’impiego (i cd. “navigator”) che favoriscono l’assunzione avranno, a loro volta, un bonus economico pari a un quinto del reddito di cittadinanza del disoccupato.”

Peraltro del D.Lgs. n. 147/2017 sono stati soppressi quasi tutti gli articoli del Capo II, ed in particolare:

– l’articolo 8 sul Piano Nazionale per il Contrasto alle Povertà,

– gli artt. 13 e 14 sulle funzioni dei Comuni e delle Regioni,

– l’art. 16 sul Comitato per la Lotta alle Povertà e sull’Osservatorio.

 

A queste condizioni davvero non si capisce, sul piano tecnico, perché non si sia implementata una più semplice e onesta “dote occupazionale” per estendere i benefici del jobs act, quando gli obiettivi di intervento sono quelli dell’inserimento lavorativo di singoli individui, e non si sia investito per estendere i benefici del Reddito di Inclusione, quando gli obiettivi sono quelli del contrasto alla povertà e del rischio di esclusione sociale per interi nuclei familiari, magari portando a regime la governance ormai sempre più robusta sulla quale per il ReI si è già investito molto.

 

Ecco perché si profila una morte (non) annunciata.

Di un sistema di relazioni istituzionali e sociali che ormai andava consolidandosi e mostrava di essere promettente per la messa a regime della misura di sostegno al reddito.

Di una misura che per come era stata costruita scoraggiava i furbetti e selezionava nelle  domande di accesso proprio coloro che avevano maggiori difficoltà non solo di accesso al lavoro ma anche e soprattutto di reinserimento sociale e di inclusione sociale attiva.

Di un dispositivo che, soprattutto con il supporto di alcune misure regionali complementari al Reddito di Inclusione (come il ReD-Reddito di Dignità in Puglia e il MIA in Friuli Venezia Giulia), era riuscito nell’intento di mettere al centro della policy non solo gli individui e i loro nuclei familiari ma anche le comunità generative, capaci di coinvolgere i beneficiari del sostegno al reddito in uno scambio virtuoso, ancorchè condizionale, di energie e risorse, di competenze e disponibilità, che arricchisce entrambe le parti, comprimendo la dimensione assistenzialistica e la percezione di un mero costo sociale piuttosto che di un investimento per comunità più inclusive.

 

Quel che sarà lo vedremo nei prossimi mesi, quel che è certo è che si ha una sensazione piuttosto netta di aver perso una occasione, quella di dare all’Italia una misura moderna e onesta di contrasto alla povertà, che è cosa diversa da una misura di politica attiva del lavoro, altrettanto necessaria, ma appunto, cosa diversa.


Commenti

Quest’articolo sottolinea un punto fondamentale: il fatto che sarebbe stato decisamente meglio potenziare gli strumenti già esistenti!
Sul fronte lavoro, utilizzando l’assegno di ricollocazione; sul fronte “non-solo-lavoro”, estendendo il ReI, sul quale i comuni e gli ambiti territoriali sono al lavoro da due anni.
Migliorare ciò che c’è già invece che ripartire ogni volta da zero: ma è così difficile?!
Adottare una logica incrementale, rispettare la complessità delle cose, interloquire con i soggetti competenti (competenti non solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello del know how): tre ingredienti che avrebbero evitato di sprecare quest’occasione. Il timore è che poi l’insuccesso inevitabile di questa misura creerà un dissenso diffuso rispetto alle politiche contro la povertà in generale…