Il vento sovranista soffia su Bruxelles
La Commissione promette chiusure e rimpatri
Maurizio Ambrosini | 27 Febbraio 2023
La tragedia avvenuta di fronte alle coste calabresi nella notte del 26 febbraio richiama drammaticamente la responsabilità del governo italiano e dei partner europei nei confronti dei profughi che cercano scampo con ogni mezzo, e anche a rischio della vita, da guerre, oppressioni, condizioni di vita intollerabili. Purtroppo appena pochi giorni prima l’UE aveva invece sposato una linea di chiusura e rafforzamento dei confini, che qui di seguito commentiamo.
Il vento sovranista soffia anche a Bruxelles. Il vertice europeo del 9 febbraio non ha assunto decisioni operative, ma ha indicato una direzione di marcia. Le parole chiave sono rimpatri, controllo delle frontiere, collaborazione con i paesi di origine e di transito per contrastare gli ingressi.
Il vertice era stato preceduto da una lettera di Ursula von der Leyen, che ha nuovamente tentato di prendere l’iniziativa sull’argomento dopo un paio di piani rimasti nel cassetto. A ogni nuova sortita, il suo approccio s’indurisce e, malgrado i toni tecnocratici e le scelte lessicali felpate, si avvicina sempre più alle istanze dei governi sovranisti.
C’è d’altronde un dato di fatto, che da anni grava sulle politiche europee dell’immigrazione: lo scarso successo delle misure di espulsione. I governi dell’UE nel 2021 avevano emesso 342.000 decisioni di rimpatrio di cittadini di paesi terzi, spesso richiedenti asilo che avevano ricevuto una risposta negativa alla loro istanza. Di questi, secondo Eurostat, soltanto 80.000, quindi meno di un quarto, erano effettivamente rientrati nei paesi di origine. Non è andata meglio nel 2022: nel terzo trimestre i rimpatri hanno coinvolto 32.000 persone, su quasi 110.000 ordini di allontanamento (Euronews). L’insuccesso dipende da vari fattori, come la difficoltà a identificare con certezza persone prive di documenti e senza nessun interesse a rivelare la propria vera provenienza. Non mancano i casi di migranti che si feriscono per evitare l’espulsione, oppure rimuovono dolorosamente le impronte digitali pur di rendersi inidentificabili. Le autorità governative tuttavia insistono soprattutto sulla scarsa collaborazione dei paesi di origine, che a loro volta non hanno interesse a riammettere i propri cittadini, e men che meno se hanno commesso dei reati all’estero. Nessun paese democratico può vantare grandi successi in materia di espulsioni, anche per i costi che i rimpatri comportano, soprattutto quando dovrebbero raggiungere destinazioni lontane. Gli USA ne realizzano più degli europei, ma si tratta di porte girevoli: una volta riportati in Messico, i migranti ritentano di passare la frontiera finché non ci riescono.
Un altro dato su cui la Commissione dell’UE ha insistito è l’aumento degli ingressi irregolari (non dei flussi migratori, come spesso si dice, confondendo fenomeni diversi): nel 2022 ne sono stati registrati 924.000, con un aumento del 50% rispetto al 2021. È la cifra più alta dal 2016, quando la guerra in Siria provocò la maggiore ondata di profughi degli ultimi decenni, prima della guerra in Ucraina. L’argomento sembra obiettivo e rispondente a una visione asettica e tecnocratica del governo delle migrazioni, ma la Commissione evita di tenere conto di almeno tre fattori. Anzitutto, chi fugge in cerca di asilo non riesce quasi mai a viaggiare con documenti regolari, anche perché i governi dei paesi sviluppati si guardano bene dal fornirglieli: non autorizziamo ingressi regolari e poi biasimiamo gli ingressi non autorizzati. In secondo luogo, il 2022 è stato il primo anno di spostamenti relativamente liberi, dopo due anni di barriere legali alla mobilità transfrontaliera a causa del Covid-19. In terzo luogo, diverse regioni del mondo sono teatro di aspri conflitti, oltre all’Ucraina: la Siria è ancora senza pace, e ora alle prese con le conseguenze di un terremoto devastante, l’Afghanistan riconquistato dai talebani conosce un incessante esodo di profughi, in Africa vecchie e nuove guerre insanguinano il continente, dall’Etiopia al Congo, dal Sud Sudan alla Nigeria, dove imperversa Boko Haram, dalla Repubblica Centrafricana al Sahel, dove avanza la minaccia jihadista.
Il punto più controverso del piano von der Leyen, e delle conclusioni del vertice di Bruxelles, riguarda il controllo delle frontiere esterne. Il comunicato finale invita la Commissione a “finanziare misure da parte degli Stati membri che contribuiscano direttamente al controllo delle frontiere esterne dell’Ue”, nonché di “progetti pilota di gestione delle frontiere”. Non è stato chiarito se si tratti di finanziare con denaro comunitario la costruzione di muri e barriere, già del resto eretti da vari governi nazionali con propri fondi. Per molti commentatori, è un cambiamento di linea da parte di Bruxelles, finora ufficialmente contraria ai muri, ma ora quanto meno possibilista. Von der Leyen è stata elusiva, mentre la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, pur escludendo il finanziamento dei muri, ha ammesso che i fondi UE potranno servire ad allestire torrette, posti di guardia, strade di collegamento e altre infrastrutture di sorveglianza. Se anche Bruxelles non finanzierà materialmente dei muri, ha sostanzialmente aderito alle posizioni che li invocano.
Un altro punto richiamato dal comunicato conclusivo del summit si riferisce al “rafforzamento del controllo delle frontiere nei Paesi chiave sulle vie di transito verso l’Unione europea”. L’Ue intende dunque sviluppare la dimensione esterna delle politiche migratorie, impiegando il suo potere economico e la sua influenza politica per spingere ancora di più i paesi confinanti a pattugliare le frontiere per suo conto. È il modello degli accordi con paesi come Turchia, Libia e Niger che si vorrebbe potenziare ed estendere, anche allargando il raggio di azione della discussa agenzia Frontex, che ha riscosso elogi pubblici nel corso del vertice. Ursula von der Leyen, nella lettera che ha preceduto l’incontro di Bruxelles, aveva già sottolineato la volontà di offrire supporto, sotto forma di attrezzature e formazione, ai governi della sponda Sud del Mediterraneo, al fine di “rafforzare la loro capacità di ricerca e soccorso”. Il linguaggio è molto accorto, ma la sostanza consiste nel delegare i salvataggi a governi come quello libico, fornendoli di motovedette e altri mezzi, affinché riportino verso le coste africane chi cerca di raggiungere l’Europa via mare.
Grande enfasi viene poi dedicata alla questione dei rimpatri. La Commissione intende investire sulla partita il 10% dei fondi destinati ai paesi terzi, negoziando accordi per lubrificare la macchina delle espulsioni, con una lista di paesi in cui figurano quelli rivieraschi (Tunisia, Marocco, Egitto), i paesi africani più esposti (Nigeria) e alcuni paesi asiatici instabili da cui partono flussi di migranti (Pakistan, Bangladesh). Fondi che dovrebbero essere destinati a finanziare progetti di sviluppo verranno quindi dirottati verso governi dai dubbi standard democratici, per guadagnarne una maggiore disponibilità ad accettare il rientro dei loro cittadini cacciati dall’UE. Cerca di addolcire almeno in parte l’inasprimento della politica delle espulsioni un accenno al potenziamento dei rimpatri volontari assistiti, ossia la corresponsione di aiuti (modesti) ai migranti non autorizzati che accetteranno più o meno spontaneamente di essere rimandati indietro.
Alla questione dei rimpatri si collega un meccanismo di respingimento rapido che von der Leyen pudicamente ha chiamato “snellimento delle procedure di frontiera”: l’idea è quella di armonizzare il trattamento delle domande di asilo, sulla base di una lista di paesi definiti “sicuri”, ossia assolti per principio dall’accusa di violazione dei diritti umani. I loro cittadini verranno di conseguenza esclusi fin da subito dalla possibilità di ottenere asilo. Al di là delle frontiere dell’UE la Commissione di Bruxelles vorrebbe invece istituire degli hotspots, obbligando i profughi a presentare le domande di asilo presso questi presidi, senza varcare la frontiera, un po’ come accade già oggi in Messico, su pressione del governo statunitense. Non è chiaro però che cosa accadrà a chi riceverà un diniego, chi se ne farà carico, quali diritti potrà rivendicare e presso chi, se per esempio si ammala.
La premier Meloni ha dichiarato grande soddisfazione per i risultati del vertice, e ne ha dal suo punto di vista delle buone ragioni. C’è però un punto dell’agenda che dovrebbe preoccuparla. Riguarda la prevenzione dei movimenti secondari, ossia i passaggi delle frontiere interne dell’UE da parte delle persone che hanno chiesto asilo in un primo paese dell’Unione: tipicamente quindi i passaggi delle Alpi da parte dei profughi sbarcati in Italia. La Francia per esempio ne conta circa 30.000. Il regolamento di Dublino impone come è noto al primo paese di farsene carico e autorizza gli altri a rispedire lì quanti tentano di accedere al loro territorio. Ora l’UE vorrebbe restringere ancora di più anche questi spostamenti, danneggiando gli interessi italiani.
Il vertice non ha neppure più menzionato, nel suo comunicato finale, la solidarietà volontaria tra i paesi membri per la redistribuzione dei rifugiati, né una loro suddivisione in quote, come l’Italia reclama da anni. Del resto, gli alleati politici sovranisti del governo italiano sono i più fieri avversari di questa ipotesi. Incapace di redistribuire i rifugiati, l’UE ha deciso di non farli arrivare affatto.
Qualche apertura dovrebbe invece essere riservata agli ingressi di lavoratori, un tema su cui si registra una maggiore disponibilità: Germania, Francia e Spagna nel 2022 hanno introdotto o annunciato una cauta liberalizzazione, e anche il governo italiano con il decreto-flussi per il 2023 ha alzato la quota delle autorizzazioni per lavoro, anche se soprattutto stagionale. È poco però, e ancora vago, per dissipare l’impressione che il sovranismo stia conquistando le istituzioni europee, relegando in un angolo sempre più stretto la tutela dei diritti umani.