Il “welfare dal basso” dei migranti

Pratiche solidali nell’ambito delle comunità religiose


I Policy Highlights di Politiche Sociali/Social Policies

L’articolo che segue sintetizza alcuni degli esiti del lavoro pubblicato sul numero 2/2024 di «Politiche Sociali/Social Policies», rivista edita dal Mulino e promossa dalla rete ESPAnet-Italia. Per maggiori dettagli e citazioni: S. D. Molli e M. Ambrosini, “Nuovi attori del welfare. Il protagonismo solidale delle minoranze religiose immigrate”, in «Politiche Sociali/Social Policies», 2/2024, pp. 245-266

 

 Il binomio welfare-immigrazione ha generato un’ampia letteratura sia in riferimento alle modalità di inclusione o esclusione dei migranti nei sistemi di welfare pubblico dei Paesi riceventi sia in relazione al ruolo degli attori della società civile e del Terzo settore come promotori di forme di welfare complementari o sostitutive. In entrambi i casi, possiamo comunque osservare che i cittadini stranieri sono generalmente considerati, e studiati, come destinatari di prestazioni e servizi.

In questo contributo, che restituisce parte delle evidenze discusse in un nostro articolo recentemente pubblicato sul numero 2/2024 di «Politiche Sociali/Social Policies», proponiamo invece uno sguardo alternativo e differente al tema: ci concentriamo infatti sulle iniziative di welfare che gli immigrati hanno organizzato in modo autonomo, diventando, in questo senso, protagonisti, e non solo beneficiari, dell’aiuto di cui necessitano. Nello specifico, rivolgiamo l’attenzione alla solidarietà di ispirazione religiosa, prendendo in esame attività di sostegno e assistenza promosse dai luoghi di culto e mirate a rispondere alle difficoltà – esistenziali e materiali – che derivano dall’esperienza della migrazione e dal processo di inserimento nel contesto italiano.

Comunità religiose migranti e “welfare dal basso”

Sebbene sia un aspetto quasi mai esplicitato nel dibattito pubblico, la presenza dei migranti in Italia si caratterizza per la vivacità organizzativa che esprimono in ambito religioso. In una recente ricerca1, abbiamo studiato il fenomeno in Lombardia, la più popolosa e multietnica delle regioni italiane, individuando 350 nuovi luoghi di culto nelle 12 principali aree urbane ed extraurbane, senza contare altre realtà minoritarie e più difficili da raggiungere e coinvolgere. Una delle principali ragioni alla base di questa capillare diffusione risiede nel fatto che i migranti, dopo il loro arrivo e inserimento nel mercato del lavoro, hanno trovato nelle comunità di fede un riferimento identitario e relazionale, in cui rivivere tradizioni culturali, sviluppare contatti sociali e proporre momenti di incontro. In questo senso, in campo religioso si osserva oggi la più significativa e interessante testimonianza di “associazionismo etnico” nel Paese.

Nei territori, questa presenza – specialmente, ma non solo, quella delle collettività musulmane – è stata spesso recepita in termini problematici, con timori relativi alla sicurezza e paure che la partecipazione religiosa sia un freno per l’integrazione dei migranti.

Lo studio sociologico delle pratiche associative da noi presentato nell’ultimo numero di «Politiche Sociali/Social Policies» – il cui focus è interamente dedicato alle “religioni nel welfare in transizione – offre però una chiave interpretativa differente: molti dei luoghi di culto coinvolti nella ricerca sono diventati infatti un «presidio» dove recepire bisogni e necessità e proporre iniziative di ascolto, aiuto e accompagnamento. Definiamo questo attivismo solidale “welfare dal basso”, indicando come domande sociali basilari possano trovare risposta in ambito intracomunitario, tramite attività caritative e di assistenza basate sul contributo volontario dei partecipanti e, al contempo, sottolineando l’intraprendenza di soggetti individualmente deboli, come molta parte degli immigrati.

Ricordiamo inoltre che questo ruolo di sostegno e soccorso ispirato ai precetti religiosi merita di essere inquadrato in ragione sia della presenza di barriere di accesso al welfare pubblico2 sia delle difficoltà degli stessi servizi, che faticano a intercettare e a prendere in carico i bisogni dei cittadini immigrati. In questo senso, le minoranze religiose si sono riorganizzate anche come terminali solidali complementari, e talvolta sostitutivi, del welfare nazionale e locale, soprattutto per le componenti più fragili ed escluse.

Welfare dal basso: tre forme di solidarietà religiosa

A partire dal lavoro di mappatura del nuovo pluralismo religioso, abbiamo selezionato un campione di 15 casi studio, rappresentativi delle principali aree confessionali, dove sono state raccolte 30 interviste con i responsabili sia religiosi sia laici delle comunità. Inoltre, abbiamo condotto delle osservazioni partecipanti finalizzate ad esplorare, sul campo, le pratiche associative e il funzionamento dei servizi offerti. Incrociando narrazioni e descrizioni, la nostra ricerca ha quindi individuato tre modalità ricorrenti di fare welfare.

La prima è il mutualismo. Gran parte degli aiuti fluisce infatti tramite canali informali e in modalità semplici e dirette, come pacchi di viveri, ospitalità, medicinali, piccoli aiuti in denaro, collette per problemi come malattie, periodi di disoccupazione o salme da rimpatriare. Questa dinamica collaborativa deriva dalla condivisione di una medesima origine e condizione biografica e si basa sullo scambio tra pari e sul principio della fiducia reciproca; il meccanismo sottostante che lo regola è la reversibilità, ovvero l’aspettativa di poter contare sull’aiuto della comunità in caso di bisogno. È un modello di aiuto diffuso tra le reti migranti, che trova però nell’identità religiosa un fattore che ne facilita e rinsalda il funzionamento.

Nelle esperienze più sviluppate abbiamo poi rilevato una tendenza verso una strutturazione dei compiti di aiuto, nei termini di una progressiva formalizzazione. Questa può essere inquadrata come “un salto di qualità”: le comunità decidono infatti di organizzare un servizio tramite l’individuazione di responsabili, per poi definire modalità, giorni e orari in cui incontrare i fedeli e gestire le loro richieste. Un caso di interesse è l’accompagnamento per la ricerca di un lavoro, ma si possono trovare iniziative per la gestione delle pratiche burocratiche e anche attività come doposcuola. Possiamo definire queste dinamiche di strutturazione come una seconda modalità di fare welfare nei termini della missione, in quanto sono frutto di un processo di “coscientizzazione” del ruolo solidale ricoperto in un nuovo contesto, nei termini di un’assunzione di responsabilità verso i fedeli, ma anche verso la società esterna. Se nella formula della reciprocità le risorse fluiscono in modo informale, orizzontale e spontaneo, in questo caso la circolazione degli aiuti è stata progressivamente organizzata e centralizzata, per poi essere messa a disposizione dei fedeli che si trovano in situazioni di bisogno.

Un’altra tendenza che abbiamo osservato si riferisce invece al “networking”, ossia alla costruzione di rapporti di collaborazione con altri attori associativi locali. Nonostante l’impegno, lo slancio solidale presenta dei limiti, e i centri religiosi hanno compreso la necessità di appoggiarsi a partner italiani più attrezzati: queste alleanze consentono infatti di ampliare il raggio d’azione e l’efficacia della solidarietà verso i partecipanti. Alcune realtà collaborano con i sindacati, i patronati o le Caritas, e cooperano anche in progetti e servizi di enti del Terzo settore e del volontariato. Un esempio è quello dell’assistenza sociale e medica (ad esempio, l’accompagnamento nelle strutture, specialmente per i più fragili, necessità di mediazione culturale, partecipazione alle campagne di prevenzione e screening) o delle iniziative di formazione e tutela legale. Possiamo osservare che i centri religiosi svolgono quindi un importante ruolo di (pre)accesso ai servizi e di mediazione nei territori – la terza modalità ricorrente di fare welfare che abbiamo individuato -, mettendo in relazione domande interne con risorse di welfare esterne.

Oltre gli stereotipi

L’intraprendenza dei migranti in campo solidale mette in discussione alcuni cliché diffusi nell’opinione pubblica, relativi al fatto che siano dipendenti, o approfittino, del welfare pubblico. Nei casi considerati, le comunità religiose si sono impegnate direttamente, evitando che alcuni segmenti della popolazione straniera scivolassero nella marginalità più grave, contribuendo anche al benessere delle famiglie e delle future generazioni e, di riflesso, alla tenuta della coesione sociale.

I luoghi di culto non sono certo la panacea per le fragilità sociali dei migranti residenti in Italia e le difficoltà che interessano i sistemi di welfare pubblico. Allo stesso tempo, il protagonismo espresso meriterebbe di essere valorizzato, specialmente nei contesti urbani e nelle periferie dove si avverte la necessità di trovare nuove forme di interazione e dialogo con le comunità straniere. Dopo la crisi pandemica, stiamo infatti riscoprendo il significato del concetto di “prendersi cura”; il fatto che i migranti si siano fatti carico a modo loro, con mezzi e spazi limitati, di questa esigenza può diventare un punto di incontro per nuovi progetti e iniziative.

  1. Ambrosini, M., S. D. Molli e. P. Naso (a cura di) (2022), Quando gli immigrati vogliono pregare: comunità, pluralismo, welfare, Bologna, Il Mulino.
  2. Ambrosini, M., S. D. Molli e M. Cacciapaglia (2024) Institutional discrimination and local chauvinism. The combative role of pro bono lawyers in defence of migrant minorities’ welfare rights, «Journal of Ethnic and Migration Studies», pp. 1-20.