Immigrati che intraprendono

Una risorsa per l’Italia in ripresa


Maurizio Ambrosini | 14 Febbraio 2022

La pandemia ha intaccato seriamente le condizioni di lavoro e di vita di molti immigrati in Italia, come Welforum.it ha documentato in più occasioni. I lavoratori precari, stagionali, assunti a chiamata o privi di contratto hanno pagato un alto prezzo al blocco delle attività causato dalla pandemia. Ma anche gli occupati regolari ne hanno risentito: 160.000 in meno, secondo l’ISTAT, pari al 35% del calo complessivo dell’occupazione nell’anno nero del Covid-19. I lavoratori autonomi sono stati parimenti colpiti, essendo per definizione esposti alle fluttuazioni del mercato. Per di più, diverse misure di sostegno, come il reddito di cittadinanza, li vedono largamente esclusi, a causa delle condizioni di accesso: in questo caso, dieci anni di residenza continuativa. Questa e altre misure sociali privilegiano i poveri immobili, come ha più volte denunciato Alberto Guariso, combattivo avvocato dell’ASGI, Associazione di Studi Giuridici sull’Immigrazione.

Gli immigrati inoltre non possono contare sulle pensioni dei componenti anziani delle reti familiari. Anzi tocca a molti di loro provvedere alle esigenze dei familiari rimasti in patria, mediante l’invio di rimesse (dall’Italia 6,7 miliardi di euro nel 2020: Dossier Immigrazione 2021). Ciò significa un importante aiuto che giunge “a casa loro”, ma qui una ridotta capacità di accumulare risparmi per fronteggiare situazioni di crisi. Gli immigrati all’estero per molti anni vivono una condizione strutturale di fragilità economica e sociale, ancora più grave in Italia.

 

Nonostante queste circostanze avverse, continua a crescere il numero d’immigrati che avviano attività indipendenti. In Italia, 639.000 persone nate all’estero (giugno 2021) sono titolari di un’attività economica, il 10,5% del totale dei lavoratori autonomi (Dossier immigrazione 2021). Anche in un anno difficile come il 2020, il loro numero è cresciuto del 2,5% (e a giugno 2021 si registravano altre 8.000 ditte in più di sei mesi prima) mentre gli italiani sono calati dello 0,5%. Questi andamenti incrociati si sono già verificati in altri paesi d’immigrazione: la piccola borghesia delle attività autonome, spesso senza dipendenti o con pochissimi addetti, non si riproduce in maniera sufficiente. Svolge attività faticose ed esigenti, con lunghi orari, spietata concorrenza, guadagni incerti, un’immagine sociale mediocre. I figli spesso studiano ed aspirano a lavori più sicuri, con migliori prospettive, più considerati. Lavori da colletti bianchi. Per molte attività, dal canto loro, le figlie sono considerate inadatte: basti pensare all’edilizia o ai trasporti.

 

Diverso è invece il punto di vista degli immigrati. Per loro avviare un’attività indipendente può essere un’alternativa pressoché obbligata alla disoccupazione, o in certi settori una scelta forzata dai datori di lavoro, per esempio nell’edilizia. Ma più spesso si tratta, ai loro occhi, di un canale di mobilità sociale. Quelle attività che per molti cittadini autoctoni non sono sufficientemente appaganti o troppo gravide di rischi, per gli immigrati sono la porta della speranza di una promozione sociale altrimenti inarrivabile. Privi quasi sempre di titoli di studio riconosciuti e spendibili nel mercato del lavoro dei paesi riceventi, esclusi dall’impiego pubblico, raramente valorizzati nei percorsi di carriera delle imprese private, vedono nel lavoro autonomo la strada per uscire dalla condizione operaia ed elevarsi socialmente. Con rilevanti differenze tra le componenti nazionali, in alcuni casi possono valersi di reti di connazionali già inseriti nelle attività autonome e in grado di introdurli nel settore. Tramite le famiglie allargate e le reti coetniche possono poi trovare i collaboratori di cui hanno bisogno.

 

Si generano così i fenomeni di avvicendamento nelle attività indipendenti tra italiani e immigrati che stanno sviluppandosi anche in Italia. Due sono i settori che guidano la lunga marcia degli immigrati verso la piccola borghesia: il commercio (33,7%) e l’edilizia (23,0%). Nel primo caso, gli immigrati stanno compensando almeno in parte la fuoriuscita degli italiani da molte attività di commercio al dettaglio, specialmente nelle periferie urbane e nei mercati rionali: la componente meno remunerativa e più esposta alla concorrenza delle grandi superfici commerciali e del commercio elettronico. Nei quartieri popolari molti negozi hanno chiuso, tanto che in una città come Milano le norme consentono di trasformare in abitazioni i vecchi negozi rimasti inattivi. Qui l’ingresso di commercianti di origine immigrata aiuta a contenere le perdite, a mantenere illuminate le vetrine, più frequentate e sicure le strade. I panifici per esempio, tipici esercizi di quartiere e luoghi di socialità, sono sempre più spesso gestiti da fornai immigrati. Il commercio di frutta e verdura segue nella stessa direzione. Le edicole superstiti pure. Persino i bar di quartiere e i tabaccai, due simboli dell’Italia minore, sono oggi sempre più spesso rilevati da nuovi gestori di origine immigrata: nella fattispecie, di solito cinesi. Sempre cinesi sono gli artigiani che propongono quelle riparazioni di sartoria che erano diventate pressoché introvabili. A recapitare pacchi e pacchetti comperati su internet provvedono invece i corrieri sudamericani con i loro furgoni.

 

Molto appariscente è poi l’avvicendamento dei titolari nei mercati all’aperto: un’attività dura, dagli orari proibitivi, esposta agli andamenti del clima e del tempo atmosferico, assediata dai supermercati e dalle nuove formule commerciali. Oggi oltre la metà dei banchi sono gestiti da titolari di origine immigrata. Grazie a loro resta viva un’antica tradizione delle città italiane, sedi di vivaci mercati all’aperto che scandiscono il calendario settimanale, rappresentando un appuntamento fisso per molti consumatori e semplici curiosi: un luogo di scambi, non solo economici, e insieme d’incontri e di scoperte.

 

Il contributo degli immigrati al ricambio dell’imprenditoria minore è poi particolarmente visibile in edilizia: un settore che nell’estate scorsa, per bocca dei vertici dell’ANCE (Costruttori edili) lamentava la carenza di oltre 250.000 lavoratori, in vista del completamento delle opere previste dal PNRR. Le costruzioni avevano accusato una seria flessione con la crisi economica del 2008-2016. Ora, ripartite con ritmi mai visti da parecchi anni a questa parte, domandano non solo braccia e competenze professionali, ma anche capacità imprenditoriali. Questa esigenza sta generando un visibile incremento del numero di titolari di attività nati all’estero: 6.265 operatori in più nel 2020, pari a un + 4,5%. Sul totale delle imprese del settore, i titolari nati all’estero ne guidano il 17,4%. Come avviene per il lavoro dipendente, gli immigrati subentrano nelle attività più pesanti e meno attraenti per i lavoratori nativi.

 

Il cibo è un altro ambito in cui l’imprenditorialità degli immigrati si sta facendo strada: non solo nell’offerta di cibi esotici, che hanno conquistato anche in Italia uno spazio nei gusti di consumatori attratti da esperienze gastronomiche diverse da quelle tipiche della nostra tradizione. Il sushi è forse il caso più appariscente degli ultimi anni. Un altro caso di successo, in una fascia di consumatori più giovane e attenta al prezzo, è quello del kebab: al punto che il panino ripieno di origine vagamente turca, ma passato attraverso la Germania e venduto in Italia soprattutto da immigrati nordafricani di varia provenienza, sta perdendo i suoi connotati esotici per diventare un cibo di strada senza troppe pretese. Gli immigrati si stanno rendendo protagonisti tuttavia anche dell’offerta di cibi tipicamente italiani: un caso tipico è la pizza, che a Milano e in altre città è ormai spesso proposta da pizzaioli egiziani. Le insegne “pizza e kebab” rappresentano il visibile abbinamento tra vicino e (un tempo) lontano, con la regia di un numero crescente di titolari di origine straniera.

 

Le città hanno bisogno di questa intraprendenza diffusa, di gente nuova che non teme la fatica, aspira a migliorare la sua condizione sociale ed è disposta a grandi sacrifici per inseguire il sogno di un’attività in proprio. Nei decenni scorsi il ricambio veniva soprattutto dal Mezzogiorno d’Italia, con immigrati interni pronti a raccogliere il testimone dei titolari settentrionali che si ritiravano. Oggi a subentrare sono nuovi operatori che arrivano dall’estero e hanno maturato una sufficiente esperienza in Italia per sentirsi pronti a compiere il grande salto.

In un paese che vede finalmente una ripresa economica ben avviata e guarda al futuro con cauto ottimismo, c’è bisogno di nuove energie e capacità operative. Un numero crescente d’immigrati sta dimostrando di possedere le une e le altre, per il bene loro e per quello del nostro paese.