Immigrati e pluralismo religioso. Una novità per il nostro paese


Maurizio Ambrosini | 4 Ottobre 2022

L’immigrazione è un vettore di cambiamento sociale e culturale delle società che, volenti o nolenti, si trovano ad accoglierla. Non cambiano aspetti fondamentali, come la lingua, il calendario, l’architettura istituzionale, le norme costituzionali, ma soprattutto in ambito urbano si sviluppano fenomeni inediti, talvolta inattesi. Uno di questi è il pluralismo religioso. In un paese quasi mono-religioso come il nostro, è una novità importante.

 

Stimare le dimensioni della presenza di religioni minoritarie non è agevole, giacché si tratta di entrare nell’ambito delle convinzioni personali e delle pratiche religiose effettive. Stime basate sui paesi di provenienza disegnano tuttavia una mappa in cui spiccano nell’ordine i musulmani (1.700.000), i cristiani ortodossi (1.500.000), i protestanti di varie denominazioni (oltre 200.000), gli induisti (160.000), i buddhisti (120.000), i sikh (90.000)1. A questi vanno aggiunti circa 900.000 immigrati cattolici, che occupano una posizione per vari aspetti intermedia, tra la tradizione religiosa storicamente prevalente e i nuovi culti introdotti dagli immigrati.

 

Una ricerca appena pubblicata, Quando gli immigrati vogliono pregare2, promossa dal Centro studi Confronti e dalla Fondazione Basso, approfondisce questo composito panorama con riferimento alla Lombardia, che è, d’altronde, la regione italiana che accoglie il maggior numero di immigrati e di comunità religiose di origine straniera. Si tratta con ogni probabilità della più ampia ricerca sul fenomeno in Europa, avendo mappato 347 luoghi di culto di religioni minoritarie: 70 parrocchie ortodosse, 127 centri islamici, 41 chiese evangeliche a carattere etnico, 85 comunità cattoliche, 17 templi Sikh, 6 centri buddisti.

 

Attivismo religioso e integrazione

Un aspetto significativo di questa disseminazione di centri religiosi è la sua genesi dal protagonismo di popolazioni immigrate dotate di mezzi limitati e di nessuna influenza politica. Malgrado la condizione svantaggiata in cui si trovano, gli immigrati hanno dispiegato un attivismo multiforme nel reperire spazi da destinare al culto, adattarli o talvolta edificarli ex-novo, organizzarvi attività non solo cultuali, ma anche aggregative, educative e sociali.

Questo attivismo religioso esercita un impatto in ambito urbano e territoriale. Gli immigrati, quando ottengono l’appoggio delle istituzioni religiose maggioritarie (cattolici e ortodossi), riportano a nuova vita vecchie chiese in disuso dei centri storici, rianimando settimanalmente spicchi di città pressoché desertificati e talvolta a rischio di degrado. Altre volte, soprattutto nel caso di nuove confessioni religiose, trovano nelle periferie popolari lo scenario del loro inserimento sul territorio. Vecchi magazzini, spazi commerciali, laboratori artigianali, o semplici appartamenti sono trasformati in luoghi di culto e spazi di aggregazione. Altre volte ancora sono le aree industriali e artigianali extra-urbane i contesti in cui trova sbocco la ricerca di luoghi adattabili per le necessità cultuali e d’incontro delle comunità religiose minoritarie. Qui sono i capannoni dismessi a essere riconvertiti in templi, sale di preghiera e ambienti comunitari. Non senza contrasti con le autorità locali, per quanto riguarda soprattutto i musulmani, ma non di rado anche i pentecostali africani e a volte i sikh.

 

La religione, infatti, non è mai soltanto religione, e questo è particolarmente vero nel caso degli immigrati. Intorno ai luoghi di culto si sviluppano attività comunitarie, reti di mutuo aiuto, servizi educativi. La domenica è un appuntamento molto sentito, in cui al culto segue normalmente il pranzo e una serie di attività pomeridiane. Questo avviene fra l’altro anche per religioni che non hanno per tradizione, nei luoghi di origine, un appuntamento per il culto a cadenza settimanale, come i sikh e i buddisti. Frequentando le comunità, gli immigrati incontrano connazionali, recuperano la lingua ancestrale, riattualizzano la propria identità culturale, si sforzano di trasmettere la loro eredità spirituale ai figli, sviluppano nuove pratiche religiose e sociali.

Mediante l’aggregazione e il mutuo aiuto, le comunità religiose contribuiscono altresì all’integrazione sociale dei partecipanti nella società italiana. Questo avviene anzitutto sotto il profilo strutturale, ossia promuovendo la possibilità di condurre una vita dignitosa e indipendente, grazie a una condizione giuridica sicura, un’abitazione adeguata, un lavoro sufficientemente stabile e remunerativo. La partecipazione alle comunità religiose, grazie alla circolazione di risorse informative, reputazionali e di sostegno pratico, concorre a raggiungere questo obiettivo.

Una seconda dimensione dell’integrazione fa riferimento al benessere personale: anche da questo punto di vista il senso di appartenenza, il conforto morale, la conferma dell’identità personale, la partecipazione a reti di socialità comunitaria, producono una relazione positiva fra partecipazione religiosa e integrazione sociale.

Più problematica può risultare una terza dimensione, quella delle relazioni con la società ricevente e dell’accettazione sociale. La partecipazione ad aggregazioni religiose formate da altri immigrati favorisce una socialità intra-comunitaria, ad apparente detrimento della coltivazione di legami con la popolazione autoctona. Tuttavia, è tutt’altro che scontato che un’apertura ai rapporti interetnici da parte degli immigrati riscuota un’accettazione sociale corrispondente da parte della componente maggioritaria della popolazione. L’alternativa alla partecipazione comunitaria può essere l’isolamento, anziché l’inserimento in reti sociali più ricche e variegate.

Non necessariamente poi la partecipazione religiosa implica chiusura e arroccamento identitario. Anzi, se la partecipazione religiosa favorisce l’integrazione sotto il profilo strutturale, anche l’immagine dell’immigrato tende a migliorare, così come l’accettazione sociale e la possibilità di ampliare la gamma dei rapporti sociali.

 

Il caso islamico, certamente il più discusso, rientra in questo panorama con alcune peculiarità e tendenze evolutive. Le comunità islamiche sono fra loro diverse, largamente indipendenti. Alcuni aspetti convergenti sono il declino o addirittura la scomparsa delle figure degli imam “fai da te”, a favore di guide dotate di una preparazione teologica, solitamente provenienti dai paesi di origine: siamo ancora agli albori di una formazione in Italia di guide religiose mussulmane. Anche per mancanza di conoscenza e di legami con i contesti locali, i ruoli all’interno delle comunità si differenziano e le responsabilità si distribuiscono fra più persone, non di rado comprendendo anche le donne. I giovani istruiti, cresciuti in Italia, assumono responsabilità più incisive, soprattutto nelle relazioni con l’ambiente esterno e nelle delicate questioni della legalizzazione dei luoghi di culto. Si impegnano inoltre nel dialogo interreligioso e in forme di partecipazione civica, come è avvenuto in occasione della pandemia da Covid-19. Varie comunità musulmane si sono rese protagoniste di collette a favore di istituzioni italiane, e hanno promosso forme di aiuto verso chi era costretto all’isolamento. Soprattutto i giovani si sforzano poi di configurare le sale di culto come luoghi polifunzionali, aperti alla città, capaci di fornire servizi (come i corsi di lingua) sia ai fedeli mussulmani, sia alla popolazione italiana.

 

Non mancano però le tensioni già richiamate con le autorità locali (in Lombardia è in vigore una legge regionale penalizzante sull’apertura di nuovi centri religiosi), nonché le vertenze giudiziarie per affermare il diritto a disporre di luoghi di culto. Nello stesso tempo i leader religiosi mussulmani sono molto impegnati a manifestare atteggiamenti di lealtà politica nei confronti del paese che li accoglie e ad allontanare ogni sospetto di contiguità con posizioni radicali ed estremiste.

 

Il caso degli immigrati cattolici presenta a sua volta diversi motivi d’interesse. Ha aspetti in comune con altre comunità religiose, perché risponde a esigenze e dinamiche analoghe. La partecipazione comunitaria rafforza i legami, mantiene viva l’identità culturale e linguistica, offre una “casa” tra le asprezze dell’esperienza dell’emigrazione in terra straniera. Contribuisce quindi al benessere personale e alla tenuta emotiva dei fedeli. Si sviluppa inoltre l’attivismo interno, ossia la disponibilità a farsi carico delle funzioni che mandano avanti una comunità religiosa: responsabili amministrativi, caritativi, liturgici; poi lettori, cantori, catechisti, addetti alla gestione degli spazi. Queste forme d’impegno offrono autostima e riscatto individuale per coloro che  affrontano processi di svalutazione sociale nel mercato occupazionale nella quotidianità. In sintesi, le chiese sono fonte di relazioni, resilienza e riscatto. Sono inoltre protagoniste di forme di “welfare dal basso”, sforzandosi di offrire sostegno, ascolto ed assistenza ai fedeli, e anche ad altri immigrati, nonché servizi di aiuto formali o informali.

 

L’identificazione religiosa si è infatti evoluta in un mutualismo che risponde ai bisogni dei partecipanti. I fedeli si organizzano quindi per rispondere agli svantaggi e alle necessità materiali che affrontano nel nuovo contesto; dove non riescono, le stesse comunità fungono da punti di orientamento versi altri servizi. In questo senso, le realtà religiose etniche rappresentano dei riferimenti comunitari  che contrastano il rischio di marginalità sociale a cui gli immigrati sono esposti. Tra i vari gruppi, i filippini sono particolarmente attivi e capaci di organizzarsi: hanno istituito al proprio interno servizi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, asili-nido informali per le madri che lavorano, sistemi di aiuto ai disoccupati basati sulla remunerazione delle attività svolte al servizio delle comunità: preparazione del pranzo, pulizia degli spazi, riordino.

In queste attività, è emersa spesso la centralità delle donne immigrate, che sono diventate le responsabili e le leader laiche di molte delle comunità individuate e delle numerose attività sociali promosse al loro interno.

 

Nelle conclusioni della ricerca, Paolo Naso propone dieci suggerimenti per la valorizzazione del pluralismo religioso nei suoi significati anche sociali e culturali. Il primo e fondamentale aspetto è quello del riconoscimento giuridico, e possibilmente dell’intesa, di cui diverse confessioni minoritarie sono ancora prive. Un secondo aspetto riguarda il piano giuridico, e consiste nel superamento della normativa sui “culti ammessi”, risalente al ventennio fascista. Va ricordata infine, fra le altre proposte, la valorizzazione dei ministri di culto o guide religiose come mediatori tra le comunità e la società esterna.

Se l’Italia sta entrando in un nuovo scenario di diversità e di dialogo culturale e religioso, gli immigrati ne sono gli inattesi protagonisti.

  1. Dossier Statistico Immigrazione, 2020
  2. M. Ambrosini, S. D. Molli, P. Naso, Quando gli immigrati vogliono pregare. Comunità, pluralismo, welfare, Il Mulino, Bologna, 2022

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