Requisiti, modalità di erogazione, importi
Sarà aperta il 17 luglio la raccolta di domande per il cosiddetto “Bonus Nido”, introdotto dalla legge di bilancio per l’anno 2017 (Legge 11 dicembre 2016, n. 232, articolo 1, comma 355). La misura consiste nella corresponsione di un massimo di 1000€ annui per tutti i bambini nati (o adottati) a partire dal 1 gennaio 2016 iscritti ad un nido, pubblico o privato. Al fine di non escludere dal sostegno le famiglie di bambini che non possono frequentare il nido perché affetti da gravi patologie croniche, queste ultime possono fare domanda per ricevere il beneficio, sempre di 1000€ annui, a favore dell’introduzione di forme di supporto presso la propria abitazione (per i bambini fino a tre anni d’età).
Destinata a tutte le famiglie che fruiscono di un nido, senza limiti di reddito, la misura non è cumulabile con la pre-esistente detrazione Irpef relativa alle rette di asilo nido, né lo è di fatto con il “Voucher baby sitting – contributo asili nido” (il Bonus Nido non può essere richiesto per i mesi di eventuale fruizione di quest’ultimo).
La circolare INPS n. 88 del 22 maggio scorso specifica che per richiedere il contributo occorre essere residenti in Italia ed essere cittadini italiani o di uno Stato dell’Unione Europea; i cittadini di Stato extracomunitario devono possedere il permesso di soggiorno UE per lungo-soggiornanti o una delle carte di soggiorno per familiari extracomunitari di cittadini dell’Unione Europea. Chi gode dello status di rifugiato politico o di protezione sussidiaria è equiparato ai cittadini italiani.
Il bonus sarà erogato direttamente al beneficiario, tramite bonifico domiciliato, accredito su conto corrente bancario o postale, libretto postale o carta prepagata con IBAN. Per la frequenza del nido, l’erogazione avverrà su base mensile parametrata su 11 mesi. L’entità del contributo non potrà superare i 90,91€ mensili (equivalenti all’importo massimo di 1000€ divisi per 11 mensilità), né potrà eccedere la spesa effettivamente sostenuta (e documentata) per il pagamento della singola retta; in caso di retta mensile inferiore ai 90,91€ il contributo sarà, cioè, equivalente alla spesa sostenuta.
Per l’organizzazione di forme di supporto a domicilio per i bambini con patologie croniche il contributo è invece erogato in un’unica soluzione, a fronte di attestazione medica rilasciata dal pediatra di libera scelta sulla base di idonea documentazione. Secondo il DPCM del 17 febbraio 2017 (art. 4, comma 2), il concetto di “patologia”, più ampio di quello di “malattia”, definisce “qualsiasi alterazione dello stato di salute stabilizzata o in evoluzione (…) di durata non prevedibile, ma certamente non breve e comunque tale da sussistere fino al termine dell’anno di riferimento”.
Le domande potranno essere inoltrate esclusivamente in via telematica, attraverso: il portale INPS; il Contact Center Integrato telefonico dell’istituto; o i servizi offerti dagli Enti di Patronato. Come nel caso del “Premio alle nascite”, l’apertura della procedura ha tardato vari mesi rispetto all’entrata in vigore della misura. Il primo pagamento comprenderà, dunque, l’importo complessivo delle mensilità eventualmente maturate sino ad allora.
Le risorse erogate per la misura, a carico del Bilancio dello Stato, consistono in 144 milioni di euro per l’anno 2017, ma sono destinate a crescere gradualmente: 250 milioni sono previsti per il 2018, 300 per il 2019, e 330 milioni di euro a decorrere dal 2020. Il Bonus potrà essere erogato entro tali limiti annui di spesa secondo l’ordine di presentazione telematica della domanda.
Non solo copertura. La questione del costo dei servizi per le famiglie
Il Bonus Nido affronta una questione importante. La scarsa copertura dei servizi socio-educativi per i bambini fino a tre anni ha catalizzato gran parte dell’attenzione relativamente a questo ambito di intervento. Ma in Italia i posti nei nidi d’infanzia non sono solo pochi, sono anche molto costosi. Un costo elevato che grava fortemente sulla gran parte delle famiglie, che in alcuni casi investono quasi interamente il secondo reddito familiare per affrontare questa spesa, al fine di mantenere un posto di lavoro che tornerà ad essere redditizio al compimento dei tre anni d’età del bambino, quando cioè avverrà il passaggio ad una scuola dell’infanzia gratuita o dalla retta nettamente più accessibile. Per altre famiglie il costo dei servizi entra in diretta competizione con il lavoro delle donne, specie quando questo è a tempo parziale, poco remunerato, senza prospettive di carriera. È questo il caso dei genitori con basso reddito e basso titolo di studio, i cui figli – secondo l’ottica del social investment – beneficerebbero maggiormente dell’esposizione agli stimoli positivi di servizi all’infanzia di qualità (Esping-Andersen 2005), e che rischiano invece di esserne esclusi anche per motivi economici.
L’incidenza delle rette è cresciuta soprattutto a partire dagli anni Ottanta, da quando i nidi sono stati inclusi tra i servizi a domanda individuale (L.N. 131/1983; D.M. 31 dicembre 1983), per i quali gli enti locali erogatori sono liberi di fissare rette e tariffe. Molti Comuni – benché non tutti – modulano le rette in base al reddito famigliare (Gambardella, Pavolini, Arlotti 2015). Ciò non toglie che in molti contesti due redditi da lavoro di livello medio sono sufficienti a collocare le famiglie tra le fasce più elevate di compartecipazione. La definizione delle rette varia inoltre enormemente da Comune a Comune, sotto tutti i punti di vista: livello minimo e massimo, numero e confini delle fasce di reddito individuate, entità e criteri delle esenzioni.
L’unica misura pubblica tesa a ridurre il peso delle rette dei nidi sui redditi famigliari è la Detrazione Irpef del 19%, che dal 2005 è rinnovata annualmente in legge di bilancio. Il tetto di spesa cui applicare la detrazione è molto basso (632€ annui per ogni figlio, che in molti contesti locali corrispondono alla retta di un solo mese in un nido privato a tempo pieno), per un risparmio d’imposta pari solo a 120€. In assenza di provvedimenti pubblici significativi, negli anni passati si è assistito all’emergere di iniziative del terzo settore che, tuttavia, offrivano non l’abbattimento delle rette ma la possibilità per le famiglie di spalmarne il costo lungo un arco di tempo più lungo, tramite prestiti agevolati (cfr. l’esperienza del Consorzio Pan e di Intesa San Paolo nella seconda metà degli anni Duemila). Più recente è stata l’introduzione del “Voucher Baby sitting – contributo asilo nido”, destinato alle madri lavoratrici che al termine del congedo di maternità ed entro gli undici mesi successivi rinunciano al congedo parentale e ricorrono a un nido pubblico o privato o a baby-sitter. L’importo è decisamente più generoso rispetto al Bonus Nido, pari a 600€ mensili, ma erogato solo per massimo 6 mesi (3 per le lavoratrici parasubordinate)1.
La misura costituisce dunque un segnale di attenzione rispetto alla necessità di socializzare i costi dei servizi socio-educativi e di conciliazione e può costituire un passo verso un sistema di sostegni più coerente, meno lontano per esempio dalla Paje francese.
L’utilizzo del trasferimento anziché della detrazione è positivo per il superamento della annosa questione dell’incapienza. Anzi, per le famiglie che sono tenute a versare una retta bassa in virtù del limitato livello di reddito, la misura potrebbe azzerare o quasi il costo del servizio.
A fronte di tali elementi positivi vi sono, però, aspetti del provvedimento che richiedono attenta riflessione.
Chi arriverà prima meglio si accomoderà?
Innanzitutto, anche se destinate a crescere, le risorse sono delimitate, soprattutto in questo primo anno di implementazione. A fronte di circa trecentomila posti autorizzati in nidi pubblici e privati (Istat 2016), lo stanziamento per il 2017 ne coprirebbe meno della metà ipotizzando solo erogazioni di importo massimo, un po’ di più ipotizzando erogazioni più diversificate. In questo senso, il criterio dell’ordine di arrivo delle domande è criticabile perché – oltre a favorire i nati nei primi mesi dell’anno – porta inevitabilmente con sé il rischio di premiare le famiglie più informate e con maggiori risorse relazionali, che sono spesso anche quelle con livelli di reddito maggiori e dunque con minor bisogno. In secondo luogo, l’importo varia solo in funzione dell’entità della retta (entro il massimale previsto), e non in funzione del reddito familiare né della composizione familiare (fatto salvo che si può richiedere tante volte quanti figli contemporaneamente frequentano il nido). È vero che queste dimensioni sono considerate alla fonte, quasi ovunque, per determinare il livello di compartecipazione di ogni nucleo. Ma l’impatto delle rette sul reddito disponibile è molto diversificato, e decisamente più alto per le famiglie a basso reddito, anche laddove esse sono modulate in modo progressivo (Gambardella, Pavolini, Arlotti 2015). Inoltre, vi sono Comuni nei quali le rette non sono proporzionate al reddito, e certamente non lo sono le tariffe dei servizi privati non accreditati presso gli enti locali. A ciò si aggiunge la già citata variabilità territoriale. Il contributo flat mette tutti sullo stesso piano, senza distinguere tra coloro che optano per la più costosa offerta privata per scelta, magari a fronte di migliori servizi accessori, e coloro che vi ricorrono per la carenza di servizi pubblici, con grande fatica di spesa; né distingue tra la frequenza a tempo pieno e quella a tempo parziale. Come già notato in riferimento al “Premio alle nascite”, il principio dell’universalismo selettivo rappresenterebbe una scelta più equa nel contesto di risorse limitate.
Ciò detto, il Bonus Nido può rappresentare un ulteriore tassello nella costruzione di un sistema complessivo di sostegni per le famiglie con figli e un interessante banco di prova per la verifica della coerenza tra strumenti di tipo diverso – monetari, fiscali, di fornitura di servizi – nella prospettiva di rendere tale sistema non solo più articolato ma anche più equo. Andrà monitorato nel tempo, anche in relazione all’obiettivo esplicitato nel decreto sul sistema integrato 0-6 che, per la prima volta, prevede una soglia massima di compartecipazione economica delle famiglie alle spese di funzionamento dei servizi educativi, sia pubblici sia privati accreditati che ricevono finanziamenti pubblici, da definire con intesa in sede di Conferenza unificata.