Lo scritto racconta una mia esperienza di lavoro educativo in alcune scuole secondarie di primo grado tra il Veneto Orientale e il Basso Friuli sia all’interno di grandi città capoluogo che nei medi centri urbani; il tema intorno a cui questa esperienza ruota riguarda la necessità di riportare al centro la questione educativa in un’istituzione, la scuola, che spesso sembra metterla da parte, riducendola ad un’attività didattico-istruttiva.
La questione educativa da sempre è al centro delle riflessioni e delle prassi pedagogiche, in quanto ogni atto educativo ha come scopo finale la capacità di instaurare relazioni efficaci e per questo la necessità di formare persone all’altezza diviene ogni giorno più pressante. Ogni soggetto adulto è certamente motivato a diventare soggetto di “buone relazioni” che sono poste in essere dall’intenzionalità dell’educatore che è “magister (nel senso che esprime una «prevalenza», da magis che in latino vuoi dire «più») perché – essendo un adulto maturo – guida l’educando, ma, contemporaneamente, è anche minister (nel senso che esprime una «minorità», da minus che in latino vuoi dire «meno») in quanto si pone a servizio dell’educando. In sostanza, l’educatore aspira a guidare l’educando perché possa crescere, è al suo servizio, «sbilanciato» verso di lui”1.
Tanto si è discusso sulla differenza tra educare ed istruire.
Molto spesso questi due verbi della pedagogia moderna sono stati considerati polarità di una contrapposizione non solo metodologica ma anche e più propriamente ideologica. In realtà l’una ha bisogno dell’altra. Io ho bisogno di apprendere una nozione, ma questa nozione avrà senso solo quando sarà dotata di un significato per il mio apprendimento e se questo significato genera valori, interpretazioni, nuove forme relazionali (educazione).
L’azione didattica è una delle diverse azioni dell’educare, ma si svuota di significato se la trasmissione del sapere non è legata ad una relazione in cui una figura adulta ha definito con il discente, tramite la parola, un legame attraverso cui ciò diviene vero “insegnamento”.
Il punto di partenza del lavoro è stato il coinvolgimento di tutto il collegio docenti, considerato come soggetto unitario che si ritrova a ripensare alla propria azione educativo-didattica come una delle componenti della vita dei preadolescenti, senza la pretesa che gli insegnanti siano gli unici artefici della crescita dei ragazzi, ma nella consapevolezza dell’importanza del proprio compito.
Il progetto
Le azioni progettuali hanno avuto come ricadute l’integrazione socio-scolastica, la promozione della persona e la prevenzione del disagio. Il progetto, nella sua complessità, ha mirato ad avviare processi di valorizzazione, cura e di supporto, assicurando tempi celeri così da garantire un risultato maggiore e più efficace. Il concetto che guida il progetto è educare all’accoglienza, educare all’ascolto, potenziare le abilità “altre” dei ragazzi, competenze trasversali, che non vengono sviluppate con la sola didattica o con il semplice accudimento.
Gli insegnanti, grazie al lavoro di accompagnamento, hanno potuto così favorire processi di apprendimento che, tenendo conto della storia di ciascun ragazzo, prevedessero per ciascuno uno spazio di ascolto e di espressione di sé, offrendo l’incontro in luoghi e ambiti in cui poter rafforzare l’autostima e trovare sostegno per la riuscita scolastica, nella logica più generale di contrasto alla dispersione. “La comunità nella scuola” ha posto la sua attenzione ai singoli ragazzi, ma all’interno della loro classe di origine, nella certezza che il gruppo è già di per sé terapeutico e che solo investendo sulla piccola comunità formata da questi giovani (la classe) si possa interrompere la catena di disagio e dispersione. Il dialogo con i dirigenti scolastici ha portato a collocare il progetto all’interno degli interventi educativi che nel Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF) sono segnalati come elementi necessari di didattica trasversale e si è stabilito che il progetto dovesse puntare sulla prevenzione educativa e non essere pensato come riparativo in un contesto già fortemente condizionato da relazioni difficili e precarie. L’intervento non mira a “sanare” il contesto classe, non è una medicina che alla manifestazione patologica risponde con un effetto certo; è un’azione invece che mira ad innestare pratiche nuove in tutte le classi, per tutti i ragazzi.
L’equipe referente del progetto, lo scrivente e gli insegnanti coordinatori di classe, valutando l’incidenza nella didattica e contemporaneamente la necessità pedagogica del valore del tempo, ha deciso che l’intervento dovesse concretizzarsi in di due ore a settimana per classe per tutto l’anno scolastico, partecipando così alla didattica come una delle componenti curriculari. Si nota subito in questo una differenza sostanziale rispetto a qualsiasi altro progetto realizzato dalla scuola, che riflette una dinamica basata sulle competenze raggiungibili in un tempo limitato; qui no, qui al centro c’è la dimensione educativa della persona, non le competenze dello studente, e il tempo è la caratteristica necessaria – anche se non sufficiente – affinché il progetto possa avere gli esiti sperati. La necessità di utilizzare un così ampio numero di ore annuali è stata d’altra parte, inizialmente, un fattore di tensione con diversi insegnanti, che sentivano il progetto come un’impropria invasione di campo. L’ansia del controllo da una parte e la poca disponibilità di lasciarsi affiancare dall’altra ha fatto sì che nei primi mesi di attività il progetto sia stato una strada in salita.
Destinatari
La proposta progettuale si poggia su tre cardini, tanti quanti sono i soggetti coinvolti nel grande mondo della scuola:
In primis i ragazzi. Entrare in classe con loro, assieme agli insegnanti, all’interno dell’orario curriculare, ha dato l’occasione di mostrare una nuova figura di adulto che non si mette in competizione con l’insegnante, che mantiene la distanza educativa in una relazione decisamente verticale, ma che cerca di incontrare i ragazzi nella loro unicità. Questo è stato possibile perché altre sono le finalità del ruolo che ho assunto, non avendo la necessità di rispettare i ritmi della didattica ho avuto come unico scopo quello di rispettare i ritmi della classe, nella propria generalità e nella propria peculiarità. Ho cercato di conquistare la fiducia dei ragazzi, la loro collaborazione e di conseguenza la loro confidenza. L’acquisizione di competenze sociali ha permesso alla classe di crescere serena ed essere perciò pronta ad apprendere anche i contenuti e le conoscenze che gli insegnanti hanno saputo lasciargli. Una delle finalità infatti è la crescita nella competenza didattica facilitata dalla collaborazione a discapito della competizione.
Il corpo docenti. Dirigente, vicari ed insegnanti sono i costruttori della scuola; spesso paradossalmente si dimentica che nella classe ci sono anche i professori e che loro sono stati chiamati ad impostare la classe orientandola al bene. Assieme a loro ho sviluppato le dinamiche utili alla riflessione e all’apprendimento attraverso un’alleanza educativa basata sul rispetto e la dignità dei diversi ruoli. La contaminazione professionale cercata ha dato maggiori frutti non solo nella relazione positiva con i ragazzi e con gli altri colleghi ma anche nella prestazione didattica. Ci sono stati momenti di incontro formali (consigli di classe e d’istituto, formazioni ad hoc) ed informali (ore buche, ricreazioni) che ci hanno dato la possibilità di intercettare dei rapporti onesti e collaborativi per aumentare la qualità educativa dell’intera comunità degli adulti.
I genitori. Anch’essi parte di questa comunità, hanno il diritto e il dovere di partecipare alla vita della scuola, facilitando i rapporti tra ragazzi ed insegnanti e costruendo con quest’ultimi un rapporto di fiducia che scardini le conflittualità che spesso balzano alla cronaca. È stato messo a disposizione un numero di ore congruo per incontrare i genitori e per dare loro uno spaccato della realtà dei loro figli da un punto di vista educativo, stimolando azioni coerenti con l’approccio pedagogico messo in atto dalla scuola.
Metodologia
La metodologia applicata al progetto di prevenzione educativa è la ludopedagogia, tecnica educativa ispirata al maestro Paulo Freire che si è sviluppata come movimento continentale in America Latina2. La ludopedagogia ha come obiettivo principale quello di conquistare attitudini e abitudini attraverso azioni individuali e collettive volte alla trasformazione della realtà attraverso il gioco. Questo metodo ha facilitato il lavoro educativo, coinvolgendo i partecipanti, incoraggiandone l’apertura verso atteggiamenti differenti, stimolando la curiosità e la necessità di riconoscere l’alterità. Il “gioco” sviluppa la volontà di entrare all’interno dei processi attraverso la partecipazione, proponendo modalità che includono il rischio, la scoperta dell’altro e delle proprie potenzialità nascoste, la possibilità di vedere e pensare in modo alternativo. Il gioco diventa il mezzo comunicativo di cui tutti siamo portatori, affina le competenze attraverso il protagonismo, diminuisce la frustrazione perché diverte e libera dallo sguardo severo dell’incompetenza, mette tutti sullo stesso piano e restituisce a chi ha poco in termini didattici, molto di ciò che è portatore. Lavorare a scuola attraverso il gioco ha permesso ai ragazzi di pensarsi al di fuori del percorso didattico, facilitando l’azione di una serie di competenze già consolidate e arrivando perciò a dimostrarle con maggiore serenità. I ragazzi hanno sentito che le azioni messe in atto sono state maggiormente rispondenti a quello che vivono e che la prestazione non è più ansiosa o al di fuori della loro portata. Questo perché il gioco è un universale antropologico, è costitutivo dell’esperienza umana, è l’essenza stessa dell’uomo. Qui non ci sono persone incapaci o poco allenate, non c’è bisogno di studio o un eccessivo impegno cognitivo, non ci si misura con le valutazioni messe da altri, ma ciascuno è capace di valutarsi in base al senso, al significato che il gioco porta con sé. Ogni attività ludica accompagna i ragazzi in un percorso nel quale riscoprirsi parte di un mondo che li ha voluti, li accompagna e li schiude all’autonomia e alla responsabilità: traguardi necessari nel diventare adulti.
Conclusioni
La sperimentazione di un modello didattico ispirato da un intento dichiaratamente educativo ha incontrato una partecipazione attenta e vivace da parte dei ragazzi e della maggior parte degli insegnanti, che nell’esperienza provata testimoniano un nuovo sentire.
Ripensare al ruolo educativo dell’insegnante comporta l’inserimento nell’organizzazione scolastica di figure che, per formazione e competenze, possano agire per stimolare questo cambiamento, ponendosi come collante tra il modus operandi dei docenti, tra i docenti e i genitori, e tra loro e i figli. Vuol dire ripensare alla scuola non come mero passaggio di nozioni ma come una comunità che lavora l’uno per l’altro.