Premessa: due fatti non scontati
Il punto di partenza sta in due fatti per nulla scontati.
Il primo è che negli ultimi due anni il numero di territori che hanno avviato pratiche di coprogettazione – o, più in generale, che hanno iniziato ad utilizzare procedimenti di tipo collaborativo di cui la coprogettazione è parte – è aumentato come non mai. Grandi metropoli come Torino, Milano e Bologna e piccoli centri in diverse regioni italiane; esperienze storiche come Lecco e Bergamo ed enti locali che sino a quel momento non avevano mai utilizzato strumenti collaborativi. Perché sta avvenendo? Senza sminuire la portata di provvedimenti normativi come l’art. 55 del d.lgs. 117/2017, il Codice del Terzo settore, le ragioni di ciò vanno trovate in evoluzioni di cui senz’altro l’elemento normativo è parte, ma che vanno lette in primo luogo comprendendone la valenza culturale e sociale.
Questa proliferazione di esperienze collaborative – che, da un punto di vista normativo, si richiamano ad una pluralità di fonti, la “vecchia” 328/2000 e il nuovo l’articolo 55, passando per diverse articolazioni degli strumenti pattizi – si verifica in assenza di elementi esterni – di convenienza fiscale, normativa, o di altro genere – tali determinare quanto sta avvenendo, né risulta avvalorata da riscontri concreti, l’ipotesi che i procedimenti collaborativi siano scelti per una presunta (ma non reale) maggiore semplicità o per una maggiore “maneggevolezza” nelle fasi di individuazione e selezione dei partner coprogettanti: le procedure di selezione ed individuazione dei soggetti coinvolti nei tavoli di lavoro sono infatti del tutto analoghe, in quanto a trasparenza e apertura a tutti i soggetti interessati, a quelle degli appalti e prevedono bandi pubblici, richiesta di presentare una proposta per attestare l’effettiva capacità di contribuire validamente al lavoro dei tavoli, commissioni di valutazione che ammettono o meno gli aspiranti coprogettanti ai tavoli. Insomma, la coprogettazione – e questo è un bene – non è scelta opportunisticamente come “scorciatoia” rispetto agli appalti, ma perché risponde in modo più adeguato ad esigenze che andremo ora ad approfondire.
La diffusione della collaborazione
Accanto alla persistenza e all’evoluzione di esperienze di coprogettazione consolidate (es. Bergamo e Lecco) sono sempre più numerosi i comuni di diverse dimensioni che attribuiscono agli strumenti collaborativi un ruolo di rilievo nella costruzione del welfare locale: grandi città capoluogo di Regione (Milano, Bologna, Regione Liguria e Genova attraverso i patti di sussidiarietà e Torino, che solo in questo ultimo anno ha gestito una decina di iniziative di coprogettazione su temi diversi, dall’assistenza familiare ai migranti, dal supporto alle famiglie alla povertà), a centri di diverse dimensioni come Brescia, Cesena, Grosseto, Latina, Spoleto e poi, in Piemonte, una quota significativa di enti gestori della funzione socio assistenziale, da quelli – come nel Biellese – che la praticano da tempo a molti altri che l’hanno adottata in epoche più recenti anche a partire dallo stimolo del bando WeCare, dalla Valle di Susa a Caluso, Cuorgnè e gli altri Enti gestori dell’ASL TO4, Vercelli, Santhià e molti altri; e, ancora, sono numerosissimi – sicuramente più di quanti siano a noi noti – i casi di iniziative di coprogettazione sviluppati a partire dal contrasto alla povertà (solo con riferimento ai casi studiati da Welforum, Bra, Lucca, Benevento). Ma che i Comuni abbiano fame di collaborazione lo dicono anche altri indicatori, come le 160 amministrazioni che negli ultimi quattro anni hanno approvato Regolamenti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni con i conseguenti “Patti di collaborazione” o strumenti analoghi.
Il secondo è che – fermo restando che a collaborare si è necessariamente in due (o più) – questa stagione di collaborazione nasce spesso come frutto di un’iniziativa assunta o comunque fortemente voluta dalla pubblica amministrazione. È importante sottolinearlo perché il setting degli eventi di cui stiamo parlando non è quello – tipico di stagioni passate – in cui il Terzo settore rivendicava a gran voce una maggior considerazione (e quindi il sedere paritariamente al tavolo ove si definiscono strategie e interventi) verso un ente pubblico riluttante; ma, più spesso, quello di un ente pubblico che constata l’impraticabilità di perseguire le proprie finalità di interesse generale laddove le relazioni sul territorio siano orientate da mercato, competizione, controinteresse. Gli strumenti collaborativi sono, spesso una scelta perseguita autonomamente, con determinazione, da enti pubblici consapevoli di come non sarebbe possibile altrimenti attuare adeguatamente l’interesse pubblico che sono chiamati a tutelare.
Perché collaborare. Un “sistema integrato” non può che essere collaborativo
Perché, dunque, questo interesse crescente per la collaborazione da parte degli enti istituzionalmente responsabili del welfare e talvolta, di altri servizi di interesse generale quali ad esempio la cultura o lo sviluppo locale?
La risposta, in sintesi, è semplicemente che – anche avendo sperimentato le contraddizioni dei meccanismi di mercato – gli interessi pubblici sono meglio perseguiti, dalla fase di lettura dei bisogni (coprogrammazione) a quella della definizione degli interventi e dei servizi che ad essa consegue (coprogettazione e gestione), tramite un concorso sinergico di energie, risorse, intelligenze capaci di integrarsi, piuttosto che con i meccanismi competitivi.
Tale urgenza, rafforzata e generalizzata dal riconoscimento di caratteristiche soggettive del Terzo settore operata dal Codice, è ben nota a chi opera nel welfare: quando la 328/2000 fa riferimento ad un “sistema integrato di interventi e servizi” rimanda implicitamente ad un aggregato collaborativo e sinergico, e non certo ad un insieme di soggetti mutualmente avversi. Ma tale consapevolezza ha dovuto scontrarsi nel corso degli anni con un ambiente giuridico ostile e con una ideologia di mercato – supposto come unico meccanismo in grado di portare beneficio – che si è imposta contro ogni evidenza e ragionevolezza.
È contraddittorio programmare e progettare enfatizzando il valore positivo del fare sistema, e poi cercare assetti formali in cui i soggetti che dovrebbero interagire in modo collaborativo sono impegnati in un gioco competitivo spesso mortale, laddove se uno vince l’altro rischia di perire.
È contraddittorio chiedere senso, coinvolgimento, capacità di pensiero e identità al Terzo settore, e immaginare che esso possa fornire manipoli di operatori destinati a passare da un ente all’altro ad ogni scadenza di appalto.
È doppiamente contraddittorio 1) definire da oltre 25 anni i soggetti di terzo settore come interpreti dell’interesse generale, poi forzarli, in sede di gara, ad agire come fossero soggetti di mercato che perseguono la propria autoaffermazione su altri; e 2) poi, ancora, stupirsi della loro incapacità di giocare compiutamente un ruolo pubblico nei tavoli di coprogrammazione e coprogettazione.
In sostanza: gli strumenti collaborativi sono, nella maggior parte delle situazioni, quelli più coerenti all’assetto di rapporti che chiunque opera nel welfare o si rapporta con il terzo settore generalmente ritiene auspicabile. Ciò non esclude che esistano situazioni in cui effettivamente scegliere un servizio sul mercato il migliore fornitore siano inesistenti; ma probabilmente queste sono minoritarie, se non residuali e sicuramente molto meno diffuse rispetto ai casi in cui sono utilizzate; semplicemente, la poca familiarità con gli strumenti amministrativi collaborativi ha portato (e porta spesso ancora oggi) a nascondere auspici collaborativi entro strumentazioni competitive.
Collaborazione e innovazione
Tanto nella letteratura di ricerca, quanto nelle enunciazioni teoriche, spesso il tema degli strumenti collaborativi si è combinato con quello dell’innovazione. Da un punto di vista normativo, l’innovazione è posta a fondamento della coprogettazione fondata sulla 328/2000 (progetti sperimentali e innovativi), mentre non ha un pari ruolo negli strumenti collaborativi basati sul Codice del Terzo settore (fondate sulla soggettività dell’ETS che persegue l’interesse analogamente all’ente pubblico) o su forme pattizie (fondate sul fatto che si tratti di sostenere iniziative autonome della società civile che liberamente scelgono di integrarsi nelle politiche pubbliche).
Ma su questo punto è necessario intendersi bene.
È vero – ed è condivisibile – che la coprogettazione del Codice del Terzo settore e quella pattizia non siano vincolate ad una situazione molto specifica e peculiare, quella dei “servizi sperimentali e innovativi”, limitativa nella pratica e fragile nella teoria, perché, state quanto si è finora detto, il concorso allargato e collaborativo di una pluralità di soggetti può essere vantaggioso anche per ambiti di intervento consolidati. La collaborazione non deve essere l’eccezione indotta, quasi forzata, da una contingenza esterna quale un bisogno imprevisto e non ancora bene codificato, per cui un appalto sarebbe improponibile e bisogna “navigare a vista” sollecitando l’inventiva di tutti; la collaborazione deve essere la regola, il modo normale, in quanto più corrispondente all’interesse generale, per dare forma ad una rete integrata di protezione per i cittadini.
Ma questo non deve portare ad una visione conservativa (e nemmeno solamente “neutra”) della coprogettazione. Se l’innovazione va defalcata come presupposto a priori necessario, nei processi virtuosi di coprogrammazione e coprogettazione riemerge come esito del lavoro dei tavoli: di tavoli appunto che non si limitino a ratificare uno stato di fatto, ma si interroghino costantemente su come migliorare le condizioni dei cittadini.
Va inoltre considerato che, accanto all’innovazione nei servizi, un contesto collaborativo presuppone e crea innovazione istituzionale: un diverso ruolo dei soggetti coinvolti, portati a condividere poteri e responsabilità, un nuovo modo di interpretare il ruolo istituzionale, orientato ad assicurare diritti ed equità suscitando e integrando risorse piuttosto che producendo o acquistando prestazioni. E questa – una traduzione di fatto del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118 della Costituzione – è, forse, di per sé una delle innovazioni trasversali più nitide, coerenti con un assetto collaborativo.
Collaborare. Per davvero
L’enfasi positiva sulla collaborazione rischia di portare ad un paradosso: tutto è definito coprogettazione, basta una gara d’appalto con un oggetto un po’ aperto o una conferenza pubblica prima di indirla per dire che si è coprogettato. Se coprogettare assume un significato positivo, tutti dicono di farlo, ma questo concetto si allarga sino a non sapere più veramente cosa sia. È quindi importante darci dei criteri che non riguardino più di tanto gli aspetti formali e giuridici, quanto alcune caratteristiche sostanziali.
La prima è che tanto la lettura del bisogno e del contesto, quanto la definizione delle modalità di intervento, non siano operati da un singolo soggetto (generalmente dalla pubblica amministrazione istituzionalmente responsabile), ma siano frutto di uno sforzo congiunto di più soggetti che si contaminano vicendevolmente con le proprie visioni e sensibilità.
La seconda è che – mentre la coprogrammazione rappresenta un momento precedente e separato dal prosieguo del percorso collaborativo – non vi sia soluzione di continuità tra il momento e della definizione condivisa degli interventi e il momento della gestione. In sostanza, che non si ceda, per un malinteso senso di trasparenza (assicurata invece dalla correttezza del complesso del procedimento) alla tentazione di chiedere la collaborazione di un ampio consesso per coprogettare, per poi mettere in gara i servizi frutto di questo sforzo. Il risultato in questi casi è generalmente il depotenziamento della coprogettazione, favorendo la destinazione delle risorse migliori al momento della competizione.
La terza è che l’esito di questo processo non sia l’individuazione di un soggetto a scapito di altri, ma la definizione di un assetto complessivo a cui più soggetti collaborano, integrando le proprie migliori risorse nell’ottica dell’interesse pubblico, eventualmente rendendo sfumati o ridefinendo i propri confini organizzativi e con la disponibilità a mettere in discussione i posizionamenti acquisiti. Ciò, beninteso, non in un’ottica conservativa – spartitoria (ognuno mantiene il suo), ma nell’ambito di uno sforzo di innovazione teso a meglio perseguire un interesse generale.
È forse il caso di notare – anche se ormai la cosa appare chiara alla gran parte degli enti che coprogettano – che se quelli precedentemente citati sono elementi che differenziano gli strumenti collaborativi da quelli competitivi, vi è invece, come già prima evidenziato, un altro ambito rispetto al quale, contrariamente a credenze sino a poco tempo fa diffuse, differenze non ve ne sono: i requisiti di trasparenza, apertura a tutti i soggetti potenzialmente interessati, imparzialità, ecc. sono gli stessi in una procedura competitiva e una collaborativa (così come, peraltro, la mancanza di trasparenza può riguardare tanto gli appalti quanto gli strumenti collaborativi). In entrambi i casi i soggetti interessati devono manifestarsi tramite bando pubblico. In entrambi i casi i criteri di restrizione dei partecipanti debbono essere solo quelli funzionali a evitare interlocutori inattendibili.
La collaborazione part time e altre fatiche
Leggendo le cronache di processi collaborativi, troviamo storie gratificanti, documentazione di risultati mai prima raggiunti, ma anche storie di difficoltà, tentativi non andati a buon fine, strade sperimentate, abbandonate e poi ritrovate.
È certo possibile affermare che ciò non sia dissimile da molte attività umane che si pongono su terreni di frontiera e come tali sono esposte al rischio di fallimenti o si possono chiamare in causa inadeguatezze dei soggetti coinvolti o altri fattori contingenti. Ma è forse possibile fare qualche ragionamento ulteriore.
La collaborazione part time difficilmente germoglia. La collaborazione richiede sintonia, fiducia, stima reciproca. È difficile per il terzo settore coprogettare in modo autentico con un ente pubblico o un altro ente di terzo settore con cui su altri piani è in contenzioso. La collaborazione richiede un capitale sociale che la competizione tipicamente tende a distruggere.
Ma, più in generale, richiede alle organizzazioni di sviluppare attitudini, stili di lavoro e priorità tipiche della collaborazione. Al di là dei meriti o colpe delle singole organizzazioni, quando un ente afferma che nei tavoli di lavoro le cooperative “hanno poche idee”, “sono litigiose”, “ciascuno pensa al proprio pezzo di lavoro”, ecc. altro non fanno che descrivere conseguenze dirette – anche su organizzazioni professionali e ben strutturate – generate dall’operare entro un contesto prevalentemente competitivo.
Ciò non significa, in assoluto che gli appalti siano un male, ma che, tra i molti costi della competizione, è necessario considerare anche quelli conseguenti all’incrinatura delle propensioni collaborative; nella consapevolezza che per crearlo, il capitale fiduciario, ci vogliono tempo, sforzi, pazienza e dedizione, mentre per distruggerlo, basta molto poco, una gara finita innanzi ad un giudice, tanto per citare una circostanza non infrequente negli scenari competitivi. E che, allargando lo sguardo, bisogna essere consapevoli che organizzazioni configurate per vincere delle gare (quelle diverse sono state in questo ventennio azzerate dalla selezione naturale) devono necessariamente ottimizzare funzioni e propensioni poco utili o talvolta controproducenti in un contesto collaborativo, necessariamente atrofizzandone altre (es. l’orientamento a trarre il meglio dagli altri e ad integrarlo con la propria azione) che invece sono preziose per la collaborazione.
Quando prima si faceva cenno alla “ideologia del mercato” ci si riferisce proprio a questo: all’ignorare elementi evidenti ad un’analisi empirica per sostenere, in omaggio ad un assunto aprioristico, che il mercato sia meglio sempre e comunque. E per sostenere ciò se ne ignorano le conseguenze più evidenti.
Si ignora il costo dei contenziosi – tutte risorse, che siano pubbliche o di Terzo settore, sottratte ai cittadini che hanno bisogno di servizi – frutto di un assetto del Terzo settore che deve forzatamente attrezzarsi per vincere o perire; si ignora come tali contenziosi, intrapresi nel legittimo perseguimento dei propri interessi, portino spesso con sé rallentamenti e incertezze nella implementazione degli interventi – a causa di sospensive o gare annullate – che si risolvono in un danno per le persone cui i servizi sono rivolti.
Si ignora il costo del deperimento delle risorse degli “sconfitti” che, anche quando meno pregiate di quelle dei vincitori, potrebbero comunque contenere elementi utili ai cittadini.
Si ignora il costo sulla qualità dei servizi e sulle condizioni dei lavoratori dell’applicazione dei meccanismi di mercato ad un contesto con alta asimmetria informativa, dove quindi 1) è difficile appurare talune caratteristiche immateriali, ma qualificanti del servizio come quelle relazionali e 2) è facile agire in modo opportunistico a svantaggio dei soggetti deboli – destinatari, lavoratori – e dove quindi, come insegnano gli economisti, “la moneta cattiva scaccia quella buona”.
Insomma, tra gli strumenti trasparenti e di evidenza pubblica, quelli competitivi spesso sono i meno indicati.
Ma se ne siamo consapevoli e vediamo al tempo stesso le potenzialità connesse allo sviluppo di un sistema collaborativo, deve esserci chiaro che lo sforzo da fare non è solo quello di costruire singole esperienze collaborative, che rischiano di annegare in un contesto popolato di orientamenti competitivi, ma di creare, poco per volta, un nuovo contesto dove le propensioni collaborative, la corresponsabilità, la capacità di costruire di prodotti collettivi, sono valorizzate e premiate e quindi in cui la collaborazione, adeguatamente sostenuta da istituti giuridici adeguati, diventa la modalità ordinaria di relazione tra Enti pubblici e Terzo settore. Ci vorrà tempo, non basterà probabilmente una singola iniziativa e talvolta si potrebbe passare per talune esperienze difficoltose: ma quello che si sta costruendo non è una singola esperienza coprogettazione, ma una mutazione genetica dei soggetti coinvolti per (ri)adattarli ad un contesto collaborativo.
A proposito del Consiglio di Stato
E dunque, veniamo al parere del Consiglio di Stato. Se ne è parlato abbondantemente su Welforum, non risparmiando critiche severe e argomentate al parere del 26 luglio scorso. Certamente, laddove le posizioni espresse dal Consiglio di Stato dovessero cristallizzarsi in orientamenti normativi avversi alla collaborazione, ciò genererà difficoltà non marginali a chi sta lavorando con approcci collaborativi.
D’altra parte, quello che ora pare importante sottolineare è che gli strumenti collaborativi non sono certo morti con questo parere, ma, dopo un primo momento di disorientamento, paiono resistere oltre ogni aspettativa. Ci sono enti che, per incertezza e prudenza, hanno sospeso l’applicazione di strumenti collaborativi? Probabilmente sì, ma molti altri hanno continuato, magari rivedendo e riorientando alcuni aspetti tecnici.
A prescindere dai dubbi instillati sull’art. 55 (e sull’art. 56 e 57) del Codice del Terzo settore – comunque, ad oggi, vigenti – l’interpretazione prevalente è che, anche quando tale orientamento fosse consolidato per via giurisdizionale o in qualche forma recepito dall’ANAC in sede di revisione delle linee guida (la Deliberazione 32/2016), le istruttorie di coprogettazione della legge 328/2000 sopravviveranno, gli strumenti pattizi come quelli della Regione Liguria anche, così come gli strumenti collaborativi del codice che hanno come esito fondati sull’accreditamento aperto, così come altri strumenti del Codice anch’essi preziosi e complementari alla coprogettazione come quelli che riguardano il riutilizzo degli immobili.
Ciò lo si afferma non certo per risparmiare critiche o sottovalutare la portata – pratica e culturale – di un possibile consolidarsi di un orientamento avverso all’art. 55, ma per evidenziare come, quando si consolidi la consapevolezza della irrinunciabilità della collaborazione, si attiveranno meccanismi virtuosi da parte degli enti locali volti comunque a cercare soluzioni compatibili con l’evolversi del quadro normativo; e questo è già un risultato assai significativo, del quale le istituzioni devono prendere atto.
Per altri versi, invece, alcune delle prescrizioni del Parere – sulle quali pur ci sarebbe lungamente da discutere in termini di diritto – sono nella pratica di scarsa pregnanza, perché di fatto spontaneamente attuate dai soggetti coinvolti in esperienze collaborative. Mi riferisco alla preoccupazione per la supposta esclusione delle imprese for profit – solitamente non vi è una fila così lunga – dai tavoli di coprogettazione, mentre nelle esperienze reali, tanto gli enti locali quanto il terzo settore sono ben felici di accogliere imprese disponibili a portare risorse, come ad esempio ad operare assunzioni o ad accettare tirocini in progetti di contrasto alla povertà.
Lasciando ad altri gli approfondimenti giuridici, va però segnalata una condizione necessaria perché le criticità introdotta dal Consiglio di Stato possano essere superate: che gli attori interessati – i Comuni e le Regioni con le loro rappresentanze e nelle sedi istituzionali – siano determinati e presenti, a partire dalla consultazione relativa alle linee guida ANAC che costituiranno una prima sede nella quale fare chiarezza su questi punti. Cito loro, e non il Terzo settore, perché va allontanato il sospetto, la percezione distorta e strumentalmente evocata da chi agisce in senso conservativo, che gli strumenti collaborativi rappresentino un favor nei confronti del Terzo settore, tanto più che nella realtà gli richiedono più responsabilità e risorse.
In conclusione
Le migliori esperienze di amministrazione collaborativa – al netto delle difficoltà di processo già discusse – indicano con chiarezza quali siano gli esiti positivi della “coprogettazione in azione”.
Innovazioni, innanzitutto: interventi prima non presenti – perché mai pensati o perché comunque improponibili in assenza di un’alleanza estesa – sono intrapresi. Ma innovazione anche perché altri interventi, già presenti, sono rinnovati e potenziati, tipicamente grazie all’apporto di una pluralità di attori, da quelli di terzo settore consolidato ad altri meno consueti, magari a partire da letture diverse e punti di vista nuovi e stimolanti. La storia recentissima delle iniziative sul ReI e in generale sul contrasto alla povertà raccontano storie di questo tipo.
Corresponsabilità sui servizi e sul reperimento delle risorse per realizzarli – economiche, di strumenti, di immobili – tra Ente pubblico e Terzo settore. E non è poco. Una impresa appaltatrice chiede di essere pagata per le prestazioni svolte, non è un soggetto con cui condividere e affrontare la mancanza di risorse; un soggetto impegnato nella coprogettazione sì.
Costruzione di capitale sociale, che è qualcosa di più di un servizio ben fatto: è un patrimonio di relazioni, legami, fiducia, magari sperimentate in un certo ambito, che risultano preziosi in una pluralità di altre situazioni.
Maggiore capacità e propensione a fare sistema, sia tra enti di terzo settore – ad esempio con collaborazioni strutturate tra cooperazione, associazionismo e volontariato – sia coinvolgendo soggetti diversi, dai comitati di cittadini alle imprese del territorio.
Arricchimento e potenziamento degli interventi sociali, grazie all’ampliamento delle risorse messe a sistema, con la possibilità di combinare e integrare aspetti diversi quali l’inserimento lavorativo, la casa, la relazione, ecc.
E, tra questi esiti positivi, voglio chiudere citandone uno non secondario. Mi riferisco ai tanti operatori sociali che, ciascuno con parole diverse, testimoniano di “avere ritrovato il senso e l’entusiasmo del proprio lavoro” nelle esperienze di amministrazione collaborativa. Chi lavora nel sociale, generalmente, non lo ha scelto per ritrovarsi oppresso dalla burocrazia o per diventare il crocevia di contenziosi; anzi considera (a ragione) tutto ciò come un insopportabile drenaggio di energie che vorrebbe dedicare ad altro, come elemento che mina il senso del suo lavoro, che lo allontana dall’investire tempo e capacità nel progettare e realizzare interventi a favore dei cittadini. Ecco molti operatori, quando sono stati coinvolti in esperienze di coprogettazione positive, hanno ritrovato un contesto in cui produrre cambiamento, per riscoprire passioni che rischiavano di essere dimenticate; altri, che hanno sperimentato le fatiche della coprogettazione, sono comunque determinati a riprovarci, avendo intuito che un diverso assetto può dare senso al loro lavoro.
Sarebbe un errore derubricare tutto ciò ad aspetti personali e secondari. Avvertire che i propri sforzi hanno senso, che si è aperta la possibilità di essere protagonisti di una stagione innovativa e stimolate, è il punto di partenza per mobilitare energie e entusiasmo verso nuove esperienze collaborative.